Antonio Paolacci è uno scrittore che, insieme ad altre cose, è anche docente per i corsi di Officina Letteraria (vedi “I ferri del mestiere” o “Una stanza tutta per sé”). Era da un po’ che non scriveva un romanzo: ci ha provato, ha scritto, ha cestinato migliaia di caratteri, ha riscritto. Poi ha deciso che basta, non avrebbe scritto più niente. Ed è lì che è nato “Piano Americano”, il suo ultimo romanzo-non-romanzo. Ce ne parla Valentina.
Piano americano
di Antonio Paolacci
recensione di Valentina Morelli
Matrioska.
La bambola più piccola, quella da cui nasce tutto, è un romanzo. Si intitola Piano Americano, è un “libro divertente (…), sorretto da un plot decisamente inverosimile, con tratti di realismo magico e palate di metanarrazione.” Il cuore della bambola più piccola, il cuore del romanzo, è un video, un super8, il cui protagonista, Jakob Goliacci, ha due caratteristiche parecchio bizzarre. La prima: è semi-invisibile, ma non nel senso che è mezzo trasparente e che gli vedi attraverso. Jakob è anonimo al punto che ti dimentichi della sua presenza. Jakob rimane sul limitare della coscienza. Jakob passeggia sul bordo dell’oblio e se ne va, ed è come se non fosse mai venuto. A meno che non lo fotografi, o lo filmi: a quel punto sì che appare, a quel punto sì che entra prepotente nell’occhio di bue della consapevolezza, e quello che vedi ti sconcerta anche di più della sua evanescenza: Jakob è la copia esatta, ma più giovane, di un vecchio imprenditore e politico detto il Nano da giardino, il Puttaniere, il Merda o, anche, Eliogabalo, come l’imperatore romano morto a diciott’anni per abbuffata di perversioni. È Gaetano, il protagonista di Piano Americano, che per caso ferma Jakob sulla pellicola e lo scopre; è Gaetano che, insieme ai suoi amici, inventa un piano per sfruttare la straordinaria somiglianza dando il via a un circo narrativo costruito su situazioni surreali e comiche.
Il giorno in cui smetto di scrivere per sempre è una tiepida domenica di metà maggio.
Attorno al video di Jakob danzano tutti i personaggi: Gaetano, i suoi amici, i Servizi Segreti, Jakob stesso. A raccogliere il circo, la bambola media della Matrioska, ovvero le vicende di Antonio Paolacci Personaggio, autore del romanzo Piano Americano, che racconta di quando, di come e del perché ha finito con l’arrendersi, col decidere di non scriverlo più quel romanzo surreale e divertente con cui avrebbe voluto “sfondare il muro della narrazione consueta.”
Avrebbe dovuto essere il mio lavoro migliore, il più estremo: l’ultima scommessa che mi sarei concesso, l’ultima volta che avrei puntato sulla letteratura. Se fosse andata bene, avrei espresso me stesso con inventiva sfrenata, fregandomene dei vincoli imposti dall’editoria contemporanea, dalle leggi di mercato, dagli ottusi sostenitori della ripetizione.
Antonio Paolacci Personaggio, sul punto di diventare padre, si guarda allo specchio – letteralmente e metaforicamente – e decide che non ne vale la pena.
La scrittura non mi porta più da nessuna parte, la vita fuori dalle pagine scritte invece sì. Ho pubblicato libri e racconti ed è stato sempre squallido confrontare la fatica del lavoro con il suo valore oggettivo, con il mondo esterno, con l’editoria da prodotto di massa, con il pubblico e la stampa. Stavo viaggiando in direzione dello spreco. Stavo lavorando da anni a un romanzo per niente: anni di lavoro che avrei lanciato ancora una volta nel vuoto pneumatico della comunicazione contemporanea.
Attorno ad Antonio Paolacci Personaggio, che racconta del rifiuto da parte di editori e agenti che, pur apprezzando l’intelligenza del suo lavoro, non possono sostenerlo perché di sicuro indigesto per un pubblico abituato a storie ordinarie, c’è la terza bambola della Matrioska, la più grande, quella che avvolge tutto: è Piano Americano, il libro di Antonio Paolacci Autore, che disubbidisce alle regole, che osa, che punta sulla letteratura.
La scrittura è per noialtri un’ossessione, un vizio, una condanna, una necessità e un nemico, come il tennis per Agassi. (…) Ogni riga che componiamo è un rovescio a due mani che ci dona stilettate di sofferenza e però continua a tenerci in gioco. (…) Ogni sera andiamo a letto chiedendoci se non dovremmo mollare e addio dolore, ma sappiamo che non lo faremo, che ci sveglieremo sul pavimento anche domattina con la schiena maciullata dalla nostra stessa stramaledetta ostinazione da grulli e torneremo sul campo da gioco, a rispedire dall’altra parte inutili parole all’Avversario, finché il tempo ci consentirà di farlo.
Alla fine degli anni Cinquanta, Alfred Hitchcock, già re di Hollywood, decide di girare e produrre Psycho da solo: il film infrange ogni regola e tutti – produttori, critici, amici – sono convinti che non possa funzionare, che Hitchcock si debba attenere a ciò che il pubblico vuole, a ciò cui il pubblico è abituato. Ma Hitchcock sfida Hollywood, rompe gli schemi, va avanti convinto.
Antonio Paolacci Autore, come Hitchcock, disubbidisce a chi crede di sapere cosa piace al pubblico, si esprime con inventiva sfrenata, fregandosene dei vincoli imposti dall’editoria contemporanea, dalle leggi di mercato, dagli ottusi sostenitori della ripetizione e scrive un libro tutt’altro che ordinario, un libro che non potrebbe essere più lontano da quanto il pubblico è abituato a leggere.
Nel 1960 Psycho ha un successo fragoroso, è il maggior successo commerciale di Hitchcock, e la scena della doccia, simbolo della rottura, diventa la scena più famosa della storia del cinema.
Nel momento in cui scrivo, Piano Americano, il libro di Antonio Paolacci a un mese dall’uscita, è già in ristampa.