Rom, un uomo
di Claudia Badaracco
L’estate stava terminando quando in città arrivò una comunità rom. Svernavano nelle periferie urbane, separati da una società di cui non volevano fare parte, ma che poteva fornire un folto pubblico per i loro spettacoli. Ricordo che raggiunsero Trieste una tarda mattinata di inizio settembre. Lavoravo vicino al luogo da loro scelto e vidi che iniziarono subito a montare i loro tendoni. Mi fermai a osservarli. La loro cultura, per quanto diversa dalla mia, mi affascinava. I loro volteggi nell’aria suscitavano in me il desiderio di una leggerezza capace di smorzare le rigidità del mio carattere. Immerso in questi pensieri, soffermai il mio sguardo su una figura in lontananza, asciutta e agile: era certamente un acrobata. Si avvicinò e mi colpì l’espressione pacata, ma sicura di sé che trasmettevano quegli occhi neri e sottili. Mi salutò cortesemente con un cenno. I giorni passavano e arrivammo a scambiare anche qualche parola. Si chiamava Stevan. A poco a poco capii che tutte le tradizioni della sua comunità, dalla musica al viaggio costante, esprimevano un anelito di libertà. La libertà di movimento, tuttavia, era per loro destinata a terminare presto. L’undici settembre, infatti, il governo fascista diede disposizioni per internare tutta la gente come lui, ritenuta “geneticamente criminale”. Dopo qualche giorno non vidi più Stevan né nessuno dei suoi. Vidi che il loro accampamento era deserto e compresi che non erano riusciti a fuggire, ma che erano stati vittime di una legge assurda.
Passò un anno e anche a me, oppositore politico, toccò di essere internato. Mi mandarono a Birkenau. Mi spogliarono di tutto. Mi rasarono capelli, barba e peli, tatuarono sulla mia pelle un numero che porto ancora, indelebile. Mi costrinsero a indossare una divisa a righe. Tutto era indistintamente avvolto da una aura grigia di morte.
Qualcosa cambiò un giorno. Mi spostarono in una baracca vicino al settore E del campo. E lì, oltre il filo spinato, la vita sembrava diversa. C’era qualcosa che mi era familiare. Vidi che lì erano rinchiusi i Rom e i Sinti. Diversamente dagli settori del campo, lì si trovavano riuniti insieme uomini e donne con i loro figli. Avevano mantenuto i loro abiti e i loro strumenti, con i quali, a dispetto della condizione in cui si trovavano, davano voce alla nostalgia di una libertà che li aveva sempre contraddistinti. Con la loro musica e le loro danze sapevano rimanere in equilibrio in quel mondo letale. Li osservavo e loro sapevano, come un tempo, infondermi il desiderio di una vita diversa.
Ma in una notte, tremenda, anche tutto questo finì. Bastarono solo due ore, bastò una decisione di chissà quale pazzo. Improvvisamente sentii cani abbaiare, bambini piangere, donne e uomini strepitare spaventati e poi dolenti. Seguì un silenzio assordante. Il giorno successivo il fumo che usciva dai forni crematori era ancora più nero. Per un attimo il mio pensiero andò a Stevan. Caro mio, nella tua lingua “rom” significa “uomo” e la tua gente non ha mai smesso di esserlo.