Abbiamo chiesto a Pier Mario Giovannone e Giua, di spiegarci cosa condivideranno nel prossimo Sabato in Officina. Ecco quello che ci hanno raccontato. — Nel seminario di scrittura creativa di sabato 9 aprile condivideremo la nostra esperienza di compositori e parolieri. Rifletteremo su che cos’è una canzone. Quali sono i suoi elementi costitutivi? Il testo e la musica, certo. Ma che ruolo gioca un arrangiamento? E il timbro di voce di chi la interpreta? Proveremo a rispondere alla domanda delle domande: nasce prima un testo o una melodia? E in che modo testo e parte musicale comunicano, s’intrecciano, si fondono? Cercheremo di capire l’importanza del ritmo (colonna vertebrale della musica) e della metrica (colonna vertebrale del testo), e vedremo come ritmo e metrica si leghino e si accordino. Non tutte le parole suonano allo stesso modo. Ci sono parole adatte ad essere lette a mente, parole adatte ad essere pronunciate e parole adatte ad essere cantate. Le sperimenteremo insieme. De André era un cantautore o un poeta? Ci chiederemo se c’è una differenza (in ogni caso, non qualitativa) tra poesia e canzone e tra cantautori e poeti. Il cantante spagnolo Paco Ibáñez dice che «le canzoni sono poesie con le ruote», perché la musica permette al testo di circolare, di diffondersi, di divenire “popolare”. E a cosa serve scrivere una canzone? Non solo a vincere il Festival di Sanremo. Le canzoni fanno parte degli spettacoli teatrali, diventano sigle di trasmissioni televisive, colonna sonora di film e pubblicità, e a volte (a noi è successo) si trasformano in libri per bambini. Faremo molti esempi pratici, attingendo alla storia della musica d’autore, al folklore e alla contemporaneità. Ascolteremo canzoni suonate e cantate dal vivo da Giua. Concluderemo la giornata con una canzone che non è ancora stata scritta, perché la scriveremo insieme, a partire da una melodia, da un’armonia e da un ritmo dati.
Si dice che i giovani d’oggi sono quello che sono per colpa di qualcuno, o di qualcosa. Di chi, esattamente? È forse colpa dei genitori, dei nonni, della società, dei reality show, del cellulare regalato troppo presto, delle maestre che si fanno dare del tu? Difficile rispondere. Cambiamo domanda. Esiste davvero una colpa? Ogni età ha i suoi malanni. Il malanno di Bianca è tipico di buona parte degli adolescenti: credere che ogni cosa che avviene sia irrimediabile. Bianca vuole fare l’attrice, e l’articolo non è scelto a caso: non vuole essere un’attrice, vuole essere l’attrice, la stella più luminosa di tutte, che così luminosa non ce n’è mai stata. Bianca crede che se non realizzerà ora questo sogno, ora, nei suoi acerbi sedici anni, la sconfitta sarà irrimediabile, non lo realizzerà mai. Perché non esiste un dopo, per gli adolescenti, la vita è un oggi senza fine, e oggi è suo fratello Valerio la stella del cielo di famiglia, Valerio e le sue scarpe da calcio, Valerio e le sue battute affilate, Valerio che mamma e papà hanno occhi solo per lui. «Anche mamma e papà mi guarderebbero con la stessa passione, ne sono certa. Se solo Valerio smettesse di esistere». Bianca cerca allora approvazione in tutti gli altri occhi del mondo, specchi in cui riflettere la sua immagine di diva, la sola che comprende. Bianca recita così bene che tutti le credono: a Gabriele, il nuovo arrivato, non sembra vero che lei, così bella, scelga proprio lui per farlo la prima volta, scelga proprio lui come alleato per avvicinarsi al suo irrimediabile sogno. Bianca recita così bene che ormai, di se stessa, conosce solo la messa in scena. Ogni emozione, in lei, è irrimediabilmente frantumata: non c’è dolore, né rabbia, né felicità, né spensieratezza. Il provino all’Accademia d’Arte Drammatica e la premeditazione di un assassinio sono recitate con la stessa intensità. Ha un solo amore, Bianca. Una bestia, il lupo cattivo, l’incompreso delle fiabe, come è incompresa lei. Sogna di riscattarlo, mentre varca il primo passo nel firmamento delle celebrità. Scrive il monologo del loro amore eterno, e recitarlo è come respirare, per buona parte della storia, finché neanche quel respiro basta più. «Ho amato una bestia, nelle notti d’estate mi mordeva con le cinque punte di una stella». La storia di Bianca dura una manciata di pagine, ma capaci di far provare a chi legge tutte le emozioni che esistono: fai il tifo per lei, provi compassione, la disprezzi, la guardi dall’alto in basso, pensi che se l’è cercata, desideri per lei tutto il male possibile e subito dopo tutto il bene possibile, vorresti tornare indietro di qualche pagina e non aver pensato tutti quei pensieri, vorresti restituirle l’infanzia e farla ripartire daccapo, che quei sogni lì non tornano più, dopo, desideri che all’irrimediabile si ponga rimedio. Neanche in questo c’è colpa. Perché Bianca è tutte noi, che da bambine ci mettevamo il rossetto della mamma e poi lo usavamo come microfono cantando davanti allo specchio. Bianca è noi, che guardavamo la televisione e volevamo entrarci dentro, e da là dentro guardar crepare d’invidia tutte le persone che ci hanno fatto del male. Bianca è noi, che a ogni mi piace ci sentiamo importanti, e quando in alto a destra della bacheca Facebook non c’è alcun quadratino rosso delle notifiche crediamo che il mondo si sia dimenticato di noi. Bianca è noi, è il limite che non varcheremo mai. Il lupo cattivo non mangia le persone perché è cattivo, ma perché è la sua natura: Bianca lo ha capito. Quello che non ha capito, non ancora, è che il lupo cattivo mai mangerebbe un suo simile. Bianca da morire, romanzo di Elena Mearini (Cairo Editore, 2016).
È anche inutile che io ripeta quel nome. (Petaloso). Esatto. Ormai lo conoscete tutti, e sicuramente lo state utilizzando per aggettivare una pentola, o il vostro gatto. Non vi annoierò sulla storia del bambino prodigio e della maestra perspicace. Se volete ricostruire la vicenda, qui potete trovare il Professor Michele Cortelazzo, che vi saprà spiegare meglio di me. Ve lo anticipo, sarà un articolo breve. Come sarà breve la moda di questo aggettivo. La cosa che mi sfugge è perché la gran parte delle persone abbia deciso di inneggiare all’inserimento del “petaloso” nel vocabolario. Presumo che ciò sia accaduto a causa di uno strano processo osmotico: se ce la fa “petaloso”, ce la posso fare anche io. Con tutte le stupidaggini che ogni tanto invento, con tutti i miei apporti (diciamolo) inutili alla comunità. Si sa che il neologismo glamour, se ben sostenuto da una massa di hashtag, riceve una spinta dal basso verso l’alto pari alla quantità di haters che lo denigrano. E se solo “petaloso” riuscisse a farcela, a entrare nel vocabolario, si premierebbe una volta per tutte la mediocrità senza sforzi. E sarebbe fantastico. Perché ci manca ancora questa libertà. La libertà di pubblicare un video a tutto il mondo mentre insulto la gente per le vie di Milano; la libertà di infamare la mia ex-ragazza e farlo sapere a chiunque. La libertà di scrivere un libro con il cellulare e poi vendere milioni di copie. No queste libertà non… Un momento: queste libertà esistono! Si chiamano Youtube, Wattpad, e tutte le altre avanzate piattaforme che permettono al Chiunque di pubblicare la Qualunque, senza il minimo controllo, filtro, regia e giudizio. Il trionfo del “va bene tutto”, sostenuto da una marea di urla. Purché il clamore finisca in fretta, perché stasera c’ho la fiction. Che poi sia chiaro: c’è anche un modo intelligente di usare Youtube e Wattpad. E c’è anche un modo intelligente di usare gli aggettivi della lingua italiana. L’Accademia della Crusca si è espressa bene, solo che è stata male interpretata. Il successo non è approvazione; un concetto difficile da spiegare a un popolo in trepidante attesa del prossimo trend-topic. Il povero Matteo non ha colpe; quante volte alle elementari avrò detto “caccoloso”? O “smoccicoso”? Se petaloso entrerà nel vocabolario, vediamola così: tra tutti i neologismi che poteva partorire la mente di un bambino, ci è andata bene.
La letteratura di tutti i tempi ci offre il racconto dell’amore. Due scrittrici affrontano questo tema appassionante e difficile in un percorso che si propone di offrire alcuni strumenti per raccontare l’amore senza banalizzare, senza cadere in facili sentimentalismi. Emanuela Ersilia Abbadessa, nella prima parte del workshop, analizzerà le strutture narrative di Anna Karenina, Madame Bovary e Fosca. Nella seconda parte, Sara Rattaro presenterà le strutture narrative di Love Story, I Ponti di Madison County, Lettere a Leontine. Ai partecipanti sarà spiegata la tecnica di scrittura “in stile” e verrà richiesto di riflettere sullo stile di un loro autore di riferimento. Saranno proposti anche alcuni esempi di scrittura “à la manière de”. Nella seconda parte del workshop, verrà richiesto a ciascuno dei partecipanti di realizzare un racconto d’amore breve nello stile di un autore a loro scelta o di uno tra gli esempi del workshop. Al termine, saranno letti e commentati gli elaborati. Sabato 13 febbraio 2016 Orario: 9:30-13:30 / 14:30 – 18:30 Costo: 100 euro; per i soci di Officina 80 euro Per ulteriori informazioni e per iscriversi, è possibile contattare Officina all’indirizzo info@officinaletteraria.com
di Sonia Vespa Non serve più puntare la sveglia alla sera. Ormai Donatella si alza molto prima della suoneria, malgrado l’ora di coricarsi sia sempre spostata più in là. Non basta struccarsi, spogliarsi, prendere il libro, accendere l’abat-jour e sprofondare nella lettura che ti accompagna al sonno: si devono ancora controllare gli zaini delle bambine, la merenda, appendere i grembiuli in fondo ai letti, piegare i vestiti, preparare quelli puliti per l’indomani. Intanto Maurizio guarda la TV , legge il giornale, si addormenta sul divano. Lui può. Lei deve ancora finire di cucinare il sugo per lasciarlo pronto alle bambine domani. Lo sguardo cade sulla mensola impolverata. Non ce la fa stasera a togliere la polvere, dovrebbe farlo Irina, cosa la paga a fare? I libri di scuola sono tutti sottosopra. Sono disordinate come lei le sue figlie, non hanno preso dal padre. È ordinato lui, ma non mette mai in ordine la stanza delle bambine; Irina fa quello che può, e più di una volta alla settimana non se la possono permettere. Ed è inutile discutere con Dalia e Laurina: le risponderebbero che hanno preso da lei. Donatella, però, aveva una mamma casalinga che sistemava tutto prima che lei e la sorella tornassero da scuola, che, anzi, non voleva neppure essere aiutata, perché come per sua madre e sua nonna, la casa era compito di una donna. Il sugo si sta attaccando alla pentola, se l’è dimenticato mentre finisce di stirare le camicie per la trasferta di Maurizio. Un’altra trasferta di lavoro che comporterà per lei andare, dopo l’ufficio, a prendere Dalia al maneggio e Laurina a pattinaggio, unici compiti di Maurizio, fermarsi a fare la spesa nel supermercato che chiude alle 21, approfittare del viaggio in auto per chiacchierare un po’ con le figlie, sempre che non stiano litigando tra loro. A Maurizio non soddisfa come stira le sue camicie Irina né la lavanderia, dovrà accontentarsi di come le sa piegare Donatella, senza naturalmente ringraziarla. Tutto dovuto, a lui e alle bambine. Non voleva finire come sua madre, ma è così, solo che in più lei ha anche otto ore di ufficio e due di tragitto. Laurea in ingegneria e mansioni da segretaria. Preferisce non pensare alle illusioni di quando era studentessa, quando credeva nella parità dei sessi, nella realizzazione professionale. Dalia non si addormenta senza chiamarla almeno tre volte. Ormai Donatella non si corica prima che sua figlia abbia completato le sue richieste: ho sete, non riesco a dormire, ripassiamo la lezione… Mai grazie mamma, solo capricci, alzate di spalle, pretese arroganti. Laurina è altrettanto capricciosa, ma almeno alla sera crolla e ha sempre dormito da sola. Congela il sugo per tutta la settimana, pulisce i fornelli, sistema velocemente la cucina, porta l’acqua a Delia che sta urlando: allora, mamma arriva quest’acqua?, mentre pensa che il domani sarà migliore, le figlie cresceranno, lei sarà più libera, meno stanca, magari riprenderà a viaggiare come faceva prima di conoscere Maurizio. L’orologio di cucina segna quasi le 23. Manca un’ora al giorno nuovo. Non è per l’insonnia che non dormirà stanotte, è per il discorso che si dovrà preparare mentalmente da fare al capo, domani, dopo aver respinto per l’ultima volta le sua avances: Queste sono le mie dimissioni, la nostra ditta rivale mi ha cercato più volte e oggi ho detto sì. Aumento di stipendio, vicinanza a casa, riconoscimento del mio ruolo, e il capo è una donna.
“Come un film” è un seminario di sceneggiatura tenuto da Federica Pontremoli, autrice cinematografica genovese che ha lavorato tra gli altri con Nanni Moretti, Silvio Soldini, Francesca Comencini, Ferzan Ozpetek, grandi registi che hanno diviso con lei e altri autori il compito di scrivere il testo delle loro opere. Per insegnare questa tecnica sabato 23 gennaio (dalle 10 alle 13, dalle 14,30 alle 17,30) e domenica 24 gennaio 2016 (dalle 9,30 alle 13,30), guiderà gli allievi (minimo 8, massimo 15) in una full immersion su un mondo in cui le parole diventano immagini. Il seminario è organizzato da Officina Letteraria, la scuola di scrittura coordinata da Emilia Marasco che ha sede in via Cairoli 4. Per partecipare il costo è 150 euro. Attualmente Federica Pontremoli sta lavorando alla sua prima serie televisiva, senza tralasciare gli impegni sul grande schermo. Infatti, il 18 febbraio uscirà nelle sale Onda su onda, il nuovo film di Rocco Papaleo che ha scritto la sceneggiatura insieme alla professionista genovese e a Walter Lupo. I protagonisti sono lo stesso Papaleo e Alessandro Gassman. Un nuovo titolo che si aggiunge a film celebri come Il caimano e Habemus Papam di Moretti, Giorni e nuvole di Soldini, Lo spazio bianco di Comencini, Magnifica presenza di Ozpetek. Una cospicua esperienza che viene messa a disposizione di tutti coloro ai quali è capitato di immaginare una storia e di volerla scrivere come un film, ma che non sanno da dove cominciare o vogliono migliorare i loro cimenti, muovendo i personaggi tra scene e azioni da guardare. La scrittura ha regole precise e tecniche differenti adatte a un racconto, un romanzo, una pièce teatrale o un film. L’esperienza della sceneggiatura è una grande risorsa per la narrativa, insegna a costruire i personaggi, a strutturare una storia in modo da tradurla nell’arte centenaria e popolare che è il cinema, pieno di parole che devono essere dette, di gesti che si devono vedere proiettati sullo schermo. Il seminario di Federica Pontremoli a Officina Letteraria, è rivolto a chi scrive racconti e romanzi ai fini di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e a chi vuole avere una prima informazione su come si lavora al testo per un film. «Partendo da una pagina bianca – spiega Federica Pontremoli – ognuno può capire come una storia, annaffiata dalla tecnica che ci metto io, si può trasformare in una sceneggiatura vera e propria con le sue leggi, il suo stile e il suo ritmo». Dopo la laurea in Lettere Moderne, Federica Pontremoli nel 1993 si è diplomata in Sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Dopo avere girato alcuni corti e videoclip, nel 2001 ha diretto il film Quore. Nel 2003 il suo corto Baci da Varsavia ha vinto il Premio Sacher, tanto apprezzato da Nanni Moretti da chiamarla a fare parte del suo ristretto staff di sceneggiatori. Da quel momento la carriera dell’autrice genovese non si è più fermata. Quando: sabato 23 e domenica 24 gennaio. Orario: sabato ore 10:00-13:00/14:30-17:30. Domenica: 9:30-13:30. Dove: Officina Letteraria, via Cairoli 4, Genova Costo:150 euro Informazioni: Officina Letteraria Tel. 010/4551218 info@officinaletteraria.com
Distillare: vuole dire mandare fuori un liquido goccia a goccia; estrarre faticosamente. Davvero faticoso deve essere il lavoro dei dipendenti della casa editrice Centauria, che hanno deciso di inventare questo nuovo prodotto. I libri “Distillati“. Ne avete già sentito parlare? Badate bene, NON SONO RIASSUNTI. L’idea è semplice, il claim conturbante. “Non hai più voglia di leggere davvero tutte le pagine di un libro?”, “Vuoi arrivare al succo senza la noia di tutte quelle parole che si rincorrono?”; o, per dirla tutta, “A scuola ti hanno chiesto di leggere un thriller svedese, ma sinceramente c’hai di meglio da fare?”. La risposta alle tue domande ti aspetta in edicola, incelophanata a meno di 5 euro. Quando ho acquistato la mia copia distillata di “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson, l’edicolante non ci poteva credere. Ha sgranato gli occhi, mi ha chiesto se volessi anche un quotidiano, per giustificare il mio moto a luogo. No, voglio questo perché voglio capire. Capire come sono riusciti a comprimere 676 pagine di trama piuttosto fitta a 10 punti tipografici in 235 pagine stampate al doppio della grandezza. Non c’è scritto chi ha avuto il coraggio di compiere questo gesto ciclopico. Compare solo il nome della direttrice responsabile della collana “Distillati”, che si assume tutte le colpe o le gioie della suddetta potatura. Insomma, il libro che tengo in pugno dovrebbe racchiudere “il cuore del romanzo” del primo capitolo della saga di Millenium. Analizziamo l’incipit delle due versioni. Era diventato un rito che si ripeteva ogni anno. Il destinatario del fiore ne compiva stavolta ottantadue. Quando il fiore arrivò, aprì il pacchetto e lo liberò dalla carta da regolo in cui era avvolto. Quindi sollevò il ricevitore e compose il numero di un ex commissario di pubblica sicurezza che dopo il pensionamento era andato a stabilirsi sulle rive del lago Siljan. I due uomini non erano solo coetanei, ma erano anche nati nello stesso giorno – fatto che in quel contesto poteva essere considerato come una sorta d’ironia. Il commissario, che sapeva che la telefonata sarebbe arrivata dopo la distribuzione della posta delle undici, nell’attesa stava bevendo un caffè. Quest’anno il telefono squillò già alle dieci e trenta. Lui alzò la cornetta e disse ciao senza nemmeno presentarsi. «È arrivato.» da Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson.* Era un rito che si ripeteva ogni anno. Il destinatario del fiore ne compiva stavolta ottantadue. Quando il fiore arrivò, aprì il pacchetto e lo liberò della carta da regalo in cui era avvolto. Quindi sollevò il ricevitore e compose il numero di un ex commissario di pubblica sicurezza che dopo il pensionamento era andato a stabilirsi sulle rive del lago Siljan. «È arrivato.» da Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, versione Distillata.** È successo qualcosa? Guardiamo meglio. Era diventato un rito che si ripeteva ogni anno. Il destinatario del fiore ne compiva stavolta ottantadue. Quando il fiore arrivò, aprì il pacchetto e lo liberò dalla carta da regolo in cui era avvolto. Quindi sollevò il ricevitore e compose il numero di un ex commissario di pubblica sicurezza che dopo il pensionamento era andato a stabilirsi sulle rive del lago Siljan. I due uomini non erano solo coetanei, ma erano anche nati nello stesso giorno – fatto che in quel contesto poteva essere considerato come una sorta d’ironia. Il commissario, che sapeva che la telefonata sarebbe arrivata dopo la distribuzione della posta delle undici, nell’attesa stava bevendo un caffè. Quest’anno il telefono squillò già alle dieci e trenta. Lui alzò la cornetta e disse ciao senza nemmeno presentarsi. «È arrivato.» da Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson.* Era un rito che si ripeteva ogni anno. Il destinatario del fiore ne compiva stavolta ottantadue. Quando il fiore arrivò, aprì il pacchetto e lo liberò della carta da regalo in cui era avvolto. Quindi sollevò il ricevitore e compose il numero di un ex commissario di pubblica sicurezza che dopo il pensionamento era andato a stabilirsi sulle rive del lago Siljan. «È arrivato.» da Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, versione Distillata.** Quindi è così? Hanno proprio ragione. Non è un riassunto: è una macchina infernale di copia e incolla! Va bene Hemingway, ma non credo che quella piccola parolina – quel “diventato” – fosse davvero responsabile delle 600 pagine scritte da Stieg Larsson. E invece i Distillati sono spietati. Ogni parola contribuisce allo sbrodolamento, all’allungamento insensato. Tutto ciò che non sia soggetto o predicato deve soccombere. Salviamo i complementi oggetto solo quando utili alla comprensione della trama. Proviamo con un altro pezzo? In Uomini che odiano le donne, un punto nevralgico è il momento in cui l’hacker Lisbeth Salander si vendica su un uomo che voleva abusare di lei. Per la cronaca, gli tatua sul petto un insulto che il depravato ricorderà per sempre. Vogliamo leggere l’originale? Questo brano lo si incontra a pagina 317; il Distillato lo propone a pagina 113. «Sta’ fermo. È la prima volta che uso questo aggeggio.» Lavorò concentrata per due ore. Quando ebbe terminato, lui aveva smesso di lamentarsi. Sembrava quasi piombato in uno stato di apatia. Lei scese dal letto, piegò la testa di lato e osservò la sua opera con occhio critico. Il suo talento artistico era piuttosto limitato. Le lettere tremolavano e il tutto aveva un che di impressionista. Aveva utilizzato il rosso e il blu per tatuare il messaggio, che era scritto in maiuscolo su cinque righe che gli coprivano tutto l’addome, dai capezzoli fin giù, appena sopra i genitali: IO SONO UN SADICO PORCO, UN VERME E UNO STUPRATORE. Pagina 317 di Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson.* «Sta’ fermo. È la prima volta che uso questo aggeggio.» Lavorò concentrata per due ore, poi scese dal letto, piegò la testa di lato e osservò la sua opera con occhio critico. Il messaggio era scritto in maiuscolo su cinque righe che coprivano l’addome, dai capezzoli fin giù, appena sopra i genitali: IO SONO UN SADICO PORCO, UN VERME E UNO STUPRATORE. Pagina
di Michela Traverso Ancora a occhi chiusi, mentre la mia mano cerca sotto le coperte quella di mio marito, la mente si accende prima del secondo perentorio richiamo della sveglia e visualizza i fogli dell’agenda. La giornata ha inizio. Mi alzo, mi tolgo il pigiama, mi soffermo un istante di fronte allo specchio: il solito corpo ogni mattino diverso, né meglio né peggio, plasmato da un nuovo giorno. Vado in cucina, preparo la colazione e “drinnnn”, terzo e ultimo squillo della sveglia. Ancora a occhi chiusi, mio marito si accomoda a tavola, con una fumante tazza di tè, biscotti, miele e marmellata ad accoglierlo, mentre io sorseggio un limone spremuto, rimedio a tutti i mali o almeno me ne convinco. Il sapore aspro mi fa tremare, ma sono orgogliosa della mia costanza, allontanando a dopo il secondo step: una fettina di zenzero crudo. Dicono sia un antidolorifico naturale, sicuramente è fuoco vivo in bocca nei secondi necessari per masticarlo e ingurgitarlo. Sono due momenti che definisco al limite del “masochismo” tipico femminile. Mi siedo a fianco a lui e comincio la mia vita “sociale”: parlo, domando, come risposta ottengo mugolii e sbadigli. Dopo circa dieci minuti il mio monologo si trasforma lentamente in un dialogo. Dopo un bacio benaugurale a mio marito e riassettata casa, esco. Come ogni giorno, affronto l’incubo mattutino: “Traverso, ho le orate in offerta, la rana pescatrice a un prezzo speciale, acciughe nostrane…” Con l’immagine del congelatore strabordante di pesce davanti agli occhi, declino cortesemente l’ invito, maledicendo il giorno in cui mi sono lasciata affascinare da due occhiate fresche. Da quella mattina è sempre la stessa “scenetta” tra le risate dei passanti e i “mugugni” del pescivendolo, deluso dai miei inevitabili “alla prossima”. Parte così l’avventura della spesa: il giro turistico tra offerte convenienti o truffe indorate, tra bancarelle e negozi. Già carica di sacchetti e sacchettini, alle 9:30 mi concedo una sosta: una tazza di ginseng, una lettura annoiata del quotidiano in dotazione al bar e l’inizio della ricerca “del” lavoro o meglio “ di un” lavoro. Consulto le mail dal cellulare, leggo le offerte sempre più originali, valuto corsi e concorsi, esaminando le competenze richieste esplicitamente e quelle celate tra una parola e un’altra. Prima, cerchi in base alle tue esigenze e, infine, ti plasmi in relazione alle proposte: mi ritrovo così a indossare vestiti troppo corti o troppo stretti o di altri, ma provo comunque. Mi trascrivo sull’agenda mail, numeri telefonici, indirizzi a cui inviare i miei variegati curriculum vitae: “il lavoro della ricerca del lavoro”. Sono inserita nelle “Liste di collocamento mirato” e con una percentuale di invalidità sono stata classificata, inquadrata e per un breve momento ho sentito “garantiti i miei diritti”. Poi ti scontri con la realtà: cerchi le inserzioni specifiche per la tua collocazione e scopri che sono richiesti “inabili perfettamente abili”. Con il solito sconforto post-ricerca, la lista di mail da inviare e le telefonate da fare, torno a casa e mi siedo di fronte al pc con il telefono vicino, candidandomi per l’uno o l’altro annuncio. Esco nuovamente e proseguo le tappe mattutine: posta, banca, assicurazione. Ogni giorno uffici diversi ma volti uguali con la stessa maschera di falsa cortesia e di reale insofferenza. Terminata la dose di pazienza mattutina, rientro a casa con il solito bus stracolmo, riesco comunque a trovare un angolo in cui incastrarmi e proseguire la lettura di un nuovo libro: terapia necessaria per ossigenare la mente dall’inquinamento giornaliero dell’anima. Dopo un po’ scopro di aver già superato la mia fermata: pazienza. Varco la porta di casa, evitando vicini bramosi di sparlare dell’uno e dell’altro, e torno di fronte al pc per consultare la posta elettronica: a parte pubblicità o spam, nessuna risposta. Mi preparo il pranzo, organizzo la cena, invio ancora qualche messaggio, faccio le ultime telefonate, arriva così il primo pomeriggio ed è ora di riuscire. Già stremata e con la testa in confusione, inizia la seconda fase della giornata: il mio pomeriggio pseudo-lavorativo. Sono le 14:30, parto per la Val Bisagno per poi spostarmi in Val Polcevera. Da due anni, in attesa di un vero impiego, mi destreggio con ripetizioni a chiunque me lo chieda. Così trascorro i miei pomeriggi a casa dell’uno e dell’altro, passando da esercizi elementari di matematica alla discussione di funzioni logaritmiche, dall’organizzazione sociale degli antichi egizi ai moti del ’48. Anche se considerarlo lavoro è una battuta comica, è un impegno gratificante. Arriva il tardo pomeriggio. Sono in metropolitana, la mente vaga ed ecco idee confuse si trasformano in possibili incipit per nuove storie. Scrivere è il mio hobby rigenerante, capace di mantenermi psicologicamente stabile, almeno all’apparenza. Estraggo l’agenda, una penna e inizio a cercare una pagina ancora libera a sufficienza per lasciare che una nuova storia prenda forma. Questi sono i miei venti minuti di “Yoga mentale”: libero la mente, riordino i pensieri e alleggerisco le tensioni del giorno. Arrivo a casa, stanca ma rigenerata “dalla mia terapia”, pronta ad affrontare l’ultima parte della giornata. Mi libero dai vestiti e dalla maschera quotidiana e, con un abbigliamento comodo, mi preparo ad accogliere mio marito, di fronte a una tavola “imbandita”. Ancora una controllata alle mail, una lettura veloce alle notizie on-line e spengo ogni contatto con l’esterno: ora è il Nostro momento. Sento la chiave nella toppa: è arrivato! Ceniamo tra aggiornamenti sulla giornata trascorsa, commenti sull’ennesima puntata di Star Trek e ci coccoliamo con un buon bicchiere di vino per apprezzare ulteriormente queste ultime ore di un lunedì qualunque. Dopo cena ci corichiamo sul divano ad aspettare che inizi uno speciale di Dario Fo sul Caravaggio. Lui si addormenta, mentre ci coccoliamo. Continuo ad accarezzargli la testa appoggiata sulle mie gambe e a seguire il programma. Ben presto però il suono ritmico del suo respiro mi accompagna in un lento torpore. Dopo un tempo indefinito, ci svegliamo quel minimo indispensabile per raggiungere il letto, coricarci abbracciati e riprendere il nostro viaggio nel mondo dei sogni, con l’augurio di svegliarci l’indomani
di Annalisa Soldà Oggi è una giornata di marzo che ricorda ancora l’inverno. Lui è appena uscito. In casa è rimasto l’odore del suo dopobarba. Apro le persiane della camera da letto, cigolano. Mi affaccio e sento gli otto rintocchi della campana e il lamento dei freni degli autobus. Guardo in su, l’azzurro del cielo è interrotto solo dal bianco di un gabbiano. Stringo la vestaglia attorno al corpo e torno in cucina al mio caffè. Sono seduta al tavolo, curva e con le gambe strette, non ho ancora acceso i caloriferi. Guardo l’orchidea bianca sulla credenza e conto per la prima volta i suoi fiori, sono sette. La sposto al centro del tavolo, per ricordarmi che c’è. Separo i bianchi dai colorati e carico la lavatrice, sparecchio, lavo le stoviglie, mi guardo in giro e vedo della polvere sul frigo e sulle mensole che ieri non c’era o che, forse, non avevo visto. Apro il freezer e decido cosa scongelare. Vada per un trancio di merluzzo. Mi siedo alla scrivania e accendo il computer, controllo le email, faccio il punto della situazione. Sono le 10.30, mi dirigo verso l’hotel. Lo trovo facilmente, è in un palazzo d’epoca. Salgo le scale sino al terzo piano, alla reception c’è il titolare. Esordisco con un “Buongiorno” che viene cordialmente contraccambiato. L’uomo ha l’aria di chi è di buonumore per dovere. “Ho chiamato ieri per fare una prenotazione, ho parlato con una sua collega.” Continuo io. Lui mi fa domande: il nome dell’ospite, le date. Gli spiego che l’ospite è un insegnante della scuola di scrittura a cui sono iscritta e che ieri ho inviato un’email. Mi dice che aveva incaricato un suo dipendente di rispondermi e si affretta a cercare fra le email inviate. “Hmm, vediamo se devo fare strage di dipendenti.” Si gratta la testa, si aggiusta gli occhiali mentre controlla la cartella Posta Inviata. “Vediamo… nessuna email indirizzata a lei. Oggi mi sento cattivo, lei cosa dice devo essere severo con i miei dipendenti?” Intanto scrive. “Credo che si debba essere clementi. Capita a tutti di sbagliare”. Rispondo con un cliché e mi levo d’impaccio. “A posto così, le ho confermato personalmente la prenotazione, controlli fra le sue email.” Ringrazio, saluto e vado via. Ore 11.00, arrivo al supermercato. Le corsie si percorrono velocemente, ci sono poche persone che fanno la spesa a quest’ora, per lo più pensionati, prendo dalla borsa il volantino dove avevo annotato le offerte del mese e inizio la caccia al tesoro. Il carello si sta riempiendo pericolosamente, cerco di calcolare mentalmente il peso totale di ciò che ho scelto e aggiungo solo poche cose. Pago ed esco. Cammino facendo attenzione a mantenere la schiena dritta per distribuire uniformemente il peso delle borse su entrambe le spalle e cercando di ricordare a che ora passerà il prossimo 35. Passo accanto all’entrata del teatro diretta verso la fermata dell’autobus. Sotto il porticato, seduto sui gradini c’è un uomo che suona la chitarra. Ha il cappuccio della giacca sulla testa ed è curvo sulle corde. Le note mettono in disordine i miei pensieri e mi costringono a fermarmi ad ascoltarlo. Il brano ha il ritmo della musica Andalusa, è una musica veloce, malinconica e calda. Lui termina il brano, io cerco gli spiccioli e li lascio cadere nel piatto. Lui mi guarda e io gli dico: “Bravo.” Inizia un nuovo brano. Io appoggio le borse a terra e resto in ascolto. Terminata anche questa esecuzione, mi fissa in silenzio, allora gli chiedo: “È un insegnate di musica?” “No. Facevo il camionista, ora sono rimasto senza lavoro. Ho sempre amato suonare e mi sono detto perchè non provare a fare l’artista di strada.” Non dice più nulla, allora io incalzo: “Suona bene, è molto bravo.” L’uomo si scosta dalla testa il capuccio. Mi racconta che ha due figli e che è un esodato, io gli tendo la mano, gli dico il mio nome e gli auguro una buona giornata. Mentre sto per sollevare le borse mi fermo un istante e gli chiedo: “Come si intitola il brano che stava suonando quando sono arrivata?” “Ah, questo?” Accenna qualche nota e poi sorride come se un ricordo piacevole gli avesse appena riempito la mente: “Si chiama Recuerdos de la Alhambra”. A casa è la routine: padella, olio, merluzzo. Mangio, sparecchio, pulisco piatti e fornelli, decido cosa cucinare per cena. Ritiro la biancheria asciutta, stendo quella bagnata. Guardo di nuovo la polvere sul frigo e le mensole e penso che la leverò domani. Ripasso il Simple Past e il Present Perfect che in italiano traducono entrambi il passato prossimo. Sono le 17.30 scendo le scale del mio palazzo. Al piano terra incontro la ragazza che si è trasferita qui il mese scorso, mentre esce di casa con un rastrello, una pala e una scatola di semi. Credo che sia Olandese e spero che abbia intenzione di coltivare dei tulipani nel suo giardino. La saluto e suono il campanello dell’interno accanto al suo, mi apre la porta Alessandro. “Ciao”. Mi dice e si scosta per farmi entrare. “Ciao Ale, come è andato oggi il compito in classe di matematica?”. Gli chiedo mentre sono già nell’ingresso di casa sua. “Mah. Difficile. Vedremo.” Chiude la porta con una leggera spinta. “Hai già iniziato a fare gli esercizi di inglese?” Continuo seguendolo lungo il corridoio. “No. Ti stavo aspettando per iniziare”. Sua madre è in cucina, la saluto, lei mi chiede se può lasciare la TV accesa, le risponde suo figlio, borbottandole di abbassare il volume e chiudendo la porta. Siamo nella sua stanza, mi siedo accanto a lui, alla sua scrivania, e iniziamo. Dopo il primo esercizio mi è chiaro che è necessario ritornare sulla grammatica. Quest’anno, mentre io percepivo il passare delle stagioni attraverso i cambi di guardaroba, Alessandro si è allungato, ha cambiato voce e ha iniziato a farsi la barba. Dopo due ore mi congedo: “Ci vediamo martedì prossimo.” Sono davanti alla porta di casa
Quando incontro Francesca, non so se la porta si aprirà sull’ingresso di casa sua o sulle stanze del suo atelier. “Tutte e due”, mi dice, e vengo accolta in una casa-studio luminosa, sui toni del bianco e del grigio. Francesca Biasetton è un’illustratrice e una calligrafa, non una grafologa, sottolinea sorridendo e facendo allusione alla scarsa conoscenza che ancora esiste in Italia attorno alla materia, nonostante l’Associazione Calligrafica Italiana, di cui è Presidente dal 2011, sia attiva da più di vent’anni. La calligrafia è argomento sfuggente, semplice e complesso al tempo stesso. Bella scrittura che si manifesta nel rispetto di regole di proporzione, codice di segni, che sono anche suono e significato, non esclusiva forma, né semplice contenuto, regolarità e caso. Il segno che il tiralinee lascia sul foglio non è del tutto controllabile mi spiega Francesca, perciò, anche se si interviene sulla pressione esercitata sulla pagina o sull’inclinazione dello strumento, il risultato finale non è completamente prevedibile. Questo argomento mi incuriosisce, e mi incuriosisce anche il tiralinee, oggetto di cui ho forse un vago ricordo scolastico: “è quello strumento che si trova nelle scatole dei compassi e che nessuno sa come usare”, chiarisce Francesca. Un rapido sorriso – mi accorgo in quell’istante che tutta la casa è intonata ai suoi occhi grigi, nero inchiostro più bianco pagina, mi piace pensare – e sparisce nella stanza accanto. Ritorna con un tiralinee e diversi pennini, per mostrarmeli. L’unità di misura è lo strumento mi spiega, perciò se si scrive con un pennino a punta tronca o con un calamo arabo, le proporzioni cambiano. Per imparare si lavora in trasparenza, utilizzando la falsariga, cioè un foglio rigato posto sotto al foglio bianco sul quale si intende scrivere. Spesso gli allievi trovano scuse per non prepararla, ma è un passaggio essenziale. Penso che questo deve avere a che fare con l’abitudine alla velocità, con l’aspettarsi subito il risultato facile, quell’aderenza quasi perfetta tra intenzione e risultato cui ci hanno viziati tasti, leve e interruttori. Ma la Calligrafia è una disciplina che ha a che fare con la lentezza, con la cura, con le mani; nella lettera scritta a mano si compie e si rinnova la perfezione del gesto che si fa parola, prima parlata, poi disegnata sulla carta. Ma che cosa accade quando, progressivamente, la scrittura ritorna al puro segno? Francesca Biasetton si è dedicata anche all’asemic writing, particolare forma d’arte che pone chi osserva tra il leggere e il guardare. Forma d’arte astratta?, chiedo, o espressione pregrafica? Omaggio alla scrittura illeggibile-magica, all’indecifrabile, o ricerca di un modo altro della comunicazione? Tutte queste cose insieme, risponde, e mi racconta il suo metodo Io parto dal testo e procedo per trasformazioni successive. Lavoro per via di togliere, finché non resta che il segno Non posso fare a meno di visualizzare una lunga fila di rapidissimi fotogrammi, che riportano le scritture, i loro diversi alfabeti, al seme iniziale, a quel segno primigenio, comune forse, che trasformò per la prima volta un pensiero pensato in una scrittura scritta, un’idea nella sua orma. Francesca mi mostra i suoi taccuini, alcuni dei quali saranno esposti in Officina Letteraria in occasione della sua personale. Ne ha sempre uno con sé, su cui annota frasi, parole, immagini. Non sono i classici “taccuini d’artista”, mi spiega, non li ha mai compilati pensando che un giorno qualcuno potesse sfogliarli. Contengono idee in seguito diventate concrete, spunti rimasti tali e molti disegni realizzati con la penna a sfera, strumento semplice e versatile, cui è molto affezionata. Lì dentro ci sono probabilmente gli elementi primi di tutte le sue opere, dalle illustrazioni agli abiti scritti a mano per Midali, dall’Abbecedario, Premio Andersen 2003, agli appunti per logotipi, lettering per film, video, libri… Parliamo ancora dell’Iran, dove in occasione di “Incontri”, a Teheran, ha conosciuto la calligrafa Golnaz Fathi: dieci giorni di straordinaria sintonia e di lavoro a quattro mani, che Francesca descrive come un dialogo sulla stessa tela. “Mia nonna era di Alessandria d’Egitto, parlava l’Arabo”, aggiunge. “Mi ha lasciato questo”, indica un mobile accanto al tavolo dove siamo sedute, “insieme alla curiosità per quella lingua e il suo alfabeto”. Lingua e scrittura che ha poi studiato per anni. La conversazione ha qualche pausa – due diverse forme di riservatezza, o forse è la naturale punteggiatura di un discorso che sta per chiudersi: tre gocce di inchiostro che il foglio accoglie. Ringrazio Francesca e ci salutiamo. Un sorriso, occhi grigi: nero inchiostro più bianco pagina, mi piace pensare. In occasione della mostra personale Appunti, tra lettere e figure, che inaugura in Officina Letteraria sabato 12 dicembre, Francesca Biasetton terrà il laboratorio Scrivo (a mano) quindi sono (io), per ritrovare il tempo e il piacere della scrittura manuale, e per un primo approccio alla calligrafia. http://www.biasetton.com/biasettonwebsite/ http://www.officinaletteraria.com/maestri/francesca-biasetton/
Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6 porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni. Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “Lacci Mattutini” un racconto di Marta Traverso. Piove. Ho fretta. Sono così nervosa che ho scordato di mettere lo zucchero nel caffè. Riunione alle 9.30 e chissà quanto dura, psicoterapeuta alle 12.45, dentista alle 16. Magari dovrei pranzare, in mezzo a tutti questo? Potrei mangiare una brioche per strada, al volo, mentre ritorno in ufficio. Se smette di piovere, che brioche e borsa e ombrello e ho solo due mani. Aspetta, però, ne avevo un’altra da fare oggi… cos’è che mi ha chiesto Alessio, mentre stavo uscendo… mettere a posto il file, il file di… ma perché non mi viene… sempre così fa, mi vede infilare il cappotto e chissà come mai gli torna in mente una cosa assolutamente da fare entro ieri. Perché tutto oggi deve succedere? Ho una lista di cose da fare che si srotola come una pergamena, finisce che ci inciampo sopra. Cioè, non ho una lista delle cose da fare, non in senso materiale, ma se ne avessi una, la prima cosa che scriverei è di compilare tutte le mattine una nuova lista delle cose da fare, invece di sforzarmi (tutte le mattine) a ricordarle una per una sotto la doccia, e spremo così tanto la testa che alla fine metto il balsamo sulla spugna e il bagnoschiuma nei capelli. La mia testa, sì. Se dovessi disegnarla sarebbe un fazzoletto con tanti nodi, tutto allacciato e avviluppato su se stesso, un nodo per ogni cosa che devo tenere a mente. Una nuvola di post it immaginari tenuti insieme da laccetti colorati. Che poi, a dirla tutta, i lacci sono una gran perdita di tempo. Mi sveglio alle 6 e riesco comunque a uscire in ritardo: colpa dei lacci. Come, non la sai? Quella dei tre lacci mattutini, l’incubo di noi donne un po’ casual e sbadate? Numero uno: i laccetti del reggiseno. Una passa l’infanzia a sognare che le crescano le tette, e poi al primo impatto con il reggiseno è un disastro. Soprattutto se non ha mai fatto le prove con uno di sua mamma. Troppe azioni in contemporanea: metti entrambe le mani dietro la schiena, tienilo fermo che non scappi, inarca testa e collo più che puoi, guarda allo specchio a vedere se almeno una linguetta la infili giusta, e quando infili le successive bada bene che la prima non ti scappi. Finché ho potuto, ho chiesto che mi comprassero reggiseni senza laccetti, quelli che si infilano dall’alto. Una figata. Poi le tette mi sono cresciute davvero, ed è iniziato il dramma. Numero due: le scarpe. Lo confesso, ho la manualità di un chilo di pastafrolla. Ho imparato ad allacciarle quando avevo i piedi così lunghi che non fabbricavano più scarpe con lo strap del mio numero. Nove anni o giù di lì. Ero già nella ribellione preadolescenziale in cui rifiutavo di indossare le ballerine, troppo da femmina. Solo scarpe da tennis, possibilmente Lelli Kelly con la suola che si illumina di rosso. La trafila nodo-gassa-doppio nodo ve la risparmio, che ci metto di più a ripeterla che a farla. Tre: hai presente i cumuli di spazzatura che “oggi non ne ho voglia, la butto domani” finché non diventano montagne e la cucina è pervasa di un odore impronunciabile? E hai presente quando, per spendere meno, hai comprato i sacchetti dell’immondizia con quei fastidiosi laccetti che penzolano sul fondo, che devi strappare e poi annodare tipo fiocco regalo, e premere perché esca fuori l’aria, e di quella volta che tua madre di ha raccontato che la cugina dell’amica di una sua amica si era dimenticata che il sacchetto era pieno di scatolette di tonno, e ha premuto troppo forte e la sua mano destra non ha fatto una bella fine? Che m’importa, dirai. Io sono nata mancina. Se anche la mano destra si spezza in due con un colpo di latta, non è una tragedia.
Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6 porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni. Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “La vasca” un racconto di C.T. La vasca da bagno è una coperta concava in cui depositare parti del mio corpo che ancora sento rimbombare di eco. Le picchietto con indice e medio, come si fa con le pareti di cartongesso, come farebbe un medico in cerca di qualcosa che non va. Loro emettono quella che è la conferma ai miei dubbi: ci sono ancora molti vuoti dentro di me. L’acqua calda e questa vasca servono a questo. È quasi automatica e abbastanza scontata l’immagine dell’utero che mi attraversa i pensieri. Questa vasca da bagno mi contiene, costruisce intorno a me le pareti che da sola non sono ancora brava ad alzare. Utero. Abbasso la sguardo e osservo il mio corpo sotto la trasparenza dell’acqua che ho deciso di non mischiare al sapone: la volevo così, come una lente di ingrandimento attraverso cui scrutarmi. Ci sono i fianchi, mai abbastanza stretti come li vorrei. Le braccia lunghe e magre. Le mani affusolate. I polsi. Le caviglie. Le gambe respirano felici nello spazio fluttuante e, nello stesso tempo, ben definito, in cui le lascio galleggiare. E dentro alla mia pancia, lui: l’utero. Quello che non so se userò mai. Non lo so. Perché finché continuo ad avere bisogno della vasca da bagno, non so se è il caso. La verità è che, per ora, mi sento più simile a materia contenuta che a contenitore. Sono cose a cui penso, ultimamente. Ultimamente vedo certe pance tendersi su corpi di ragazze che conosco. Non le mie amiche, no. Loro sono come me, stanno ancora cercando troppe cose per pensare di essere già arrivate. La pensiamo così oggi, prima dobbiamo cercare. C’è tempo. O forse per noi ce ne vuole di più, perché tutto, oggi, è più complicato. Ho sentito dire che adesso l’età media delle partorienti è sui trentotto. Non so se è vero. Mi giro a pancia in giù. Credo che la questione si possa mettere in questi termini: il mondo oggi è bello collegato, aperto, spazioso per certi versi. Ma anche bello spaventoso. A volte fantastico di essere una donna del milleottocento. Una di quelle che studiava a casa, ricamava sui fazzoletti, si sposava e passava direttamente dalla tutela paterna a quella maritale, fine della storia. Altro che cercare la propria strada. È quasi mezzanotte. Infilo la testa sotto l’acqua, spalanco la bocca: la materia liquida è subito pronta ad invadere il mio spazio interno. Io chiudo gli occhi e le urlo contro, sprigionando decine di punti interrogativi sotto forma di bolle d’aria. Se non lo faccio credo che la tensione sarà troppo alta e che stanotte non riuscirò a dormire. Il prezzo sarà qualche capillare rotto intorno agli occhi a causa dello sforzo fatto per buttare fuori tutte le particelle di ossigeno che prima erano dentro. Durante il processo di espulsione, guardo in faccia quel futuro che mi fa tanta paura. Lui si materializza in immagini velocissime e spintonanti. La laurea, la ricerca del lavoro, le case condivise, le amiche partite, quelle rimaste. La testa riemerge e aspira aria e poi di nuovo sotto, sotto a chi tocca: comprare il pane ogni giorno in una lingua che non è la mia, sapere che appena parlerò, nonostante tutti i miei sforzi, gli altri capiranno che vengo da un altro paese, che sono vulnerabile. Un altro vuoto, un altro respiro e un altro urlo: le storie interrotte perché mi dispiace, ma Berlino è troppo lontana e io non so nemmeno in quale parte del mondo sarò nei prossimi tre anni. Le amiche partite, le amiche perse. La spesa tutte le sere, che se non ci pensi da sola stai certa che morirai di fame. E poi i rumori nuovi della tua nuova casa, i soldi dell’affitto, i soldi chiesti ai tuoi, il numero dell’idraulico. La domanda chi sono?, la risposta ho paura. Di cosa ho paura? Di diventare me stessa e nello stesso tempo di non diventarlo. Di non diventare nessuno. E poi ho paura di Parigi, ma anche di Milano. Della febbre alta e nessuno che ti compri le medicine. Delle domeniche pomeriggio. Della neve. Di stare sola con me. Sola. Con me. Ecco, il vortice di bolle trasparenti e di fantasmi ha raggiunto l’apice. Ora c’è silenzio. Avvolta dalla quiete, svelta, allungo un braccio, afferro l’asciugamano e mi alzo da quell’acqua pericolosa. Dentro di lei adesso nuotano, come tanti piccoli squali, quei miei pensieri dai denti appuntiti. Ne esco fuori. Inizio ad asciugarmi. So già che stanotte dormirò, perché ho guardato in faccia il drago da cui sono scappata tutto il giorno, a partire da questa mattina, quando mi sono svegliata. Ho fatto il caffè. Mi sono vestita. Infilata il casco a cavallo dell’avambraccio. Tirata dietro la porta. Girato i giri, tre, della
Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6 porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni. Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti “Una giornata così” un racconto di Miria Cresci. Guardo i numeri rossi nel buio: le 05:50. Ancora tempo per un piccolo sogno prima di entrare nella realtà . Realtà di suoni, di rumori che, nel fine settimana, arrivano più rari e lontani, mentre aggiorno la scheda mentale sulla giornata. Accendo la radio, la mia transizione fra sonno e veglia. L’immersione nelle notizie é interesse, dipendenza, necessità di uscire preparata. La finestra si apre sul cielo che, nuvoloso o chiaro, influenza l’abbigliamento come la temperatura. – Il tuo è un freddo introitato, una convinzione – ha detto Nella. Sarà anche vero ma ho rinunciato a sfidarlo, vince sempre. Un po’ di restauri, vestizione rapida poi via, seguendo gli impegni della giornata. Non sempre energia positiva, anche avvii difficili e nervosi in cui banalmente decidere come vestirsi é una sfida, senza voglia di parlare o vedere alcunché, tantomeno uno specchio. Gli specchi riflettono sempre più di quanto vorremmo. Oggi palestra per un paio d’ore. Più bello correre nel verde ma nessun parco è disponibile però, un tapis roulant con vista sulle chiome degli alberi aiuta. Ho imparato a restringere l’obiettivo sulla porzione da salvare, il resto è escluso, finchè riesco. Nel pomeriggio corso di inglese che seguo puntualmente e abbandono alla dimenticanza appena le lezioni finiscono. Mi sgrido ma persevero giurando che cambierò. Passo dal mercato. Girare fra i banchi colorati è un piacere visivo che il supermercato non dà. Poi a casa, seguendo l’ispirazione sopraggiunta o regolandomi sulle scorte, a preparare il pranzo. Cucinare è creativo, mi rilassa, che sia una sperimentazione nuova o qualcosa che preparo da sempre. Mattinate festive invernali piovose e fredde cambiano colore in un impasto morbido che prelude a una torta salata o si dimenticano tritando frutta secca e affettando mele per la preparazione dello strudel. Oggi spaghetti con bottarga, profumati e veloci. Telefono che squilla, più antipatico quando sto per scolare gli spaghetti, ma essendo spesso fuori chiamano a quest’ora. Del resto anche al ristorante parli a tavola, ha detto un’amica. È vero… mi adeguo. In agenda ho segnato una conferenza che mi interessa e dopo inglese posso arrivare in tempo. Sarebbe più produttivo incanalare tempo e attenzione su poche direttive o una direzione principale, ma da sempre sono incuriosita e interessata a tanti argomenti . Pieno, vuoto. Riempire lo spazio per abitudine, per aiuto, perché il vuoto non si carichi d’ombra. Una giornata per muoversi, parlare, ascoltare, leggere, mettere la testa in qualcosa e nascondere che è sempre più facile camminare sul tappeto che…farlo volare.
Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6 porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni. Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “L’attesa” un racconto di Giovanna Olivari L’attesa. È l’emozione più emozionante. Uno stato magico. L’attesa. Di qualsiasi cosa. Comunque vada. Dell’amore, per esempio. Lo costruisci, giorno dopo giorno. Messaggi, foto, parole, telefonate, lettere, pensieri, allusioni. E se poi l’altro risponde e sta al gioco… Che emozione! “Castellaria” mi chiama la mia amica Anna. Embè? Mi costruisco castelli in aria. E allora? Intanto io, Castellaria, ho vissuto una settimana a Marciana in uno stato di grazia. Mi sono goduta quello che comunque avevo, ed era già molto. Natura, affetti, amici, figlio, nuora, casa, terrazza, radici. Le mie radici. Il mio mare. I miei profumi. Alloro, rosmarino, nepitella, giuderba, menta, basilico…. La mia isola. E intanto costruivo il sogno, con pacatezza, con meticolosità, gesto dopo gesto, parola dopo parola, osando sempre un po’ di più, col fiato in sospeso attendendo la risposta, e su quella frenando o accelerando, di volta in volta. Così costruivo il sogno e la dolcezza mi riempiva il cuore. Che importa che succederà quando tornerò, quando lo rivedrò, dal vero! Innamorarsi con il tumore. Innamorarsi con un cancro in seno, con la morte nel cuore, e nel cuore l’amore. – Lo fai – mi dicevano le amiche – per spostare la tua attenzione, per nasconderti la paura, uno struzzo, anche stavolta, di fronte a una cosa grave come il tumore, per scongiurare la paura della morte, della chemio, della radio, dell’intervento, dell’anestesia, della tetta ferita, deturpata… Oddio! Ho un inizio di morte nella tetta, e io sto a pensare a quanta me ne toglieranno, a come la rovineranno! – Signora, non si preoccupi! Ne ha così tanta!- Il professor Friedman, il chirurgo, sorride con ironia e tenerezza alle mie insistenti richieste su “quanta me ne toglierà?”. Bell’uomo, sulla sessantina, alto, snello, capelli folti, bianchi, sicuro, deciso, si muove da padrone. Mi conosce. È già intervenuto, otto anni fa, su quella stessa tetta, a prelevare un “granello”, ma era negativo. Sospetto, quello sì, ma negativo. Da togliere, per sicurezza, quello sì, ma negativo. Oggi ha faticato pure lui a trovare, dall’esterno, il punto che aveva inciso a suo tempo. Seno integro, pelle liscia, uniforme, come prima. Ottimo lavoro, suo e del suo assistente che ha “cucito”. – Punti “sansevero”, estetici – mi aveva assicurato. Gliene sono grata. – Insieme al sorriso, il seno, adeguatamente sostenuto e supportato, è il meglio di me. – Sorrido con civetteria, dicendoglielo. Mi guarda. Non capisco se con stupore o compassione. Forse non può immaginare che alla mia età sono tornata ragazza e ho voglia d’amore, anche fisico, e che mi sto di nuovo innamorando, e che di quel seno grande, morbido, liscio, ne ho bisogno più che mai.
di Federica Kessisoglu. Avete mai provato a stare davanti a un foglio bianco? Ci si sente sbiadire a poco a poco: il bianco si diffonde. Ci si ritrova con polpastrelli bianchi, sopracciglia bianche, pensieri bianchi. Un bianco timore ci prende per la gola e riusciamo a scrivere solo parole bianche affollate su quel foglio bianco. Allora ci si deve allenare, farsi fiato e muscoli. Occorre svuotare per riempire, osservare e osservarsi senza paura e senza giudizi. Occorre ascoltare in un modo nuovo. Ascoltare il proprio respiro, ascoltare il proprio corpo dall’alluce ai padiglioni auricolari, ascoltare il proprio cuore che batte e il saliscendi del diaframma. È necessario toccare e annusare, imitare e affidarsi. È necessario denudarsi per arrivare alla semplicità di gesti e parole. È necessario denudarsi per arrivare alla semplicità di gesti e parole. È necessario stare con i piedi ben piantati a terra per poter spiccare il volo. Non bisogna aver paura di emozionarsi, non bisogna aver paura di accettare doni, non bisogna aver paura di sorridere e di guardare veramente chi ci sta di fronte. L’allenamento dello scrittore è stato tutto questo e molto altro che non si può descrivere, ma solamente vivere nella propria intimità. Alla fine ho scritto su un foglio bianco, parole blu come pensieri inediti. Maggiori informazioni su L’Allenamento dello Scrittore!