“Ho il piacere di leggere per voi stasera”, così Charles Dickens introduceva i suoi Readings in giro per l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Leggeva a teatro, ma anche in contesti meno formali come i circoli culturali, a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento e fino alla fine della sua vita. Premesso che queste performances gli fruttavano più denaro di quanto ne ricavasse dalla pubblicazione dei libri, è indubbio che Dickens traesse molto piacere dalle sue letture ad alta voce, vere e proprie interpretazioni di alcune parti dei suoi romanzi, da lui riadattate per il teatro. E il pubblico rispondeva con entusiasmo. Perché questo bisogno di ritrovare la voce che sta dietro la parola scritta, di recuperarne il suono?Lo chiedo ad Aldo Viganò, critico cinematografico e teatrale, curatore de Le Grandi Parole, gli appuntamenti con la lettura di grandi autori che il Teatro Stabile di Genova propone ormai da molti anni. La dimensione orale appartiene all’essere umano mi risponde, e anche considerando che ai tempi di Dickens l’analfabetismo era una realtà diffusa, il fascino della “parola detta” resta intatto, trasversale ai secoli e agli strumenti culturali. “L’attore” continua Aldo Viganò “offre sempre una chiave di lettura” anche quando il testo è annotato, come nel caso di Dickens, anche quando l’autore ha segnato sulla carta le parole cui voleva dare maggior risalto, i punti in cui la voce si alzava, forse, o si faceva più incisiva. All’attore è riservata l’interpretazione: si sceglie un registro, un’intonazione, tra le diverse possibilità lasciate aperte dalla parola scritta. Charles Dickens si serviva di una scenografia, se così può essere definita, molto scarna. Aldo Viganò mi racconta che quando è stato a Londra a visitare la casa dell’autore, nella stanza dedicata ai Readings ha potuto vedere il piccolo tavolino che Dickens era solito portarsi a teatro e il frac che indossava per le letture. Sul palco del Teatro della Corte si recupera questa scenografia minima, mi spiega, e si lascia pieno spazio alla “dimensione teatrale della parola”. I prossimi appuntamenti saranno il 16 Febbraio con i testi tratti da Il Circolo Pickwick e Oliver Twist, letti da Eros Pagni e introdotti da Melania Mazzucco, e il 23 Febbraio con Dombey e figlio, interpretato da Massimo Popolizio con l’introduzione di Giorgio Bertone.Il filo rosso che lega letteratura e teatro, e tutte le nostre chiacchiere fino a qui, mi fa esprimere ad alta voce una curiosità. Ho letto un’intervista di molti anni fa in cui Aldo Viganò, parlando della nuova drammaturgia, sosteneva che il vero problema è la riluttanza del pubblico a provare interesse per ciò che è nuovo. Chiedo, è ancora così? Perché? Lo stesso discorso pensa si possa applicare anche alla letteratura? “Credo che questo giudizio sia estensibile, soprattutto per quanto riguarda il teatro e soprattutto in Italia”. Le persone preposte all’insegnamento hanno una responsabilità in questo senso, perché tradizionalmente e con poche eccezioni nel nostro Paese il classico è bello, il contemporaneo crea sovente diffidenza. Ma il teatro è sempre stato contemporaneo, continua Viganò, “lo scrivere e il rappresentare erano coincidenti”, erano e sono state per molto tempo descrizioni contigue della realtà presente. Qualcosa di simile accade anche in letteratura e “questo fatto appartiene al problema della diffidenza”, ancora una volta. Tra le intenzioni che hanno promosso l’iniziativa Le Grandi Parole c’è anche questa: offrire al pubblico qualcosa di nuovo, contribuendo a quell’operazione ardua ma doverosa che è la demolizione della diffidenza. “Non rassegnamoci a diventare come l’opera lirica!” stigmatizza con un sorriso.E i nuovi cantastorie, chi sono? chiedo. I cantastorie stanno scomparendo, ma forse al loro posto ci sono i grandi attori di monologhi come Paolini, Celestini, Petruzzelli. Anche loro, come i cantastorie, lavorano per migliorare la conoscenza”. Ma si tratta più spesso di cantori di cronaca, e Viganò vorrebbe ci fosse spazio anche per il mito. Una nuova mitologia, contemporanea, che sappia parlare di oggi nell’oggi. E dall’altra parte del palco (e anche fuori dai teatri, per le strade) il contrario della diffidenza: se non addirittura la fiducia, almeno la curiosità. Grazie ad Aldo Viganò per la piacevolissima chiacchierata.
Segnaliamo in uscita per la casa editrice Emma Books Verso Sud, il quarto romanzo di Emilia Marasco, coordinatrice di Officina Letteraria. Un viaggio da Genova alla Puglia alla riscoperta delle proprie radici, per rimettere insieme i frammenti del passato. Il viaggio di Nora, il viaggio di Caterina, il viaggio di Paola. Giovedì 12 febbraio alle ore 20:00 si tiene a La Claque (Genova) la prima presentazione del romanzo, nell’ambito della rassegna teatrale Occhiali d’Oro organizzata da Approdo Ostilia Mulas – Arcigay Genova. Introduce Marta Traverso, letture a cura di Sara Sorrentino. Sinossi del romanzo Nora e Caterina, madre e figlia, per tutta la vita hanno avuto una relazione difficile nutrita di silenzi e di gesti mancati. Quando Nora muore, tra gli oggetti appartenuti alla madre Caterina trova i frammenti di una storia che non conosceva. Inizia così un viaggio a ritroso nel tempo, verso sud, da Genova alla Puglia. A spingere Caterina a partire, solo piccoli indizi: un abito da sposa di seta da paracadute, un camicino da neonato, poche lettere, qualche fotografia. “L’estate del ’43. In autobus Caterina pensa a Nora ventenne, nelle foto, che guarda il fidanzato americano. Chissà cosa facevano quando s’incontravano, stavano in famiglia, passeggiavano sulla piazza sotto gli occhi di nonna Rita, chissà se andavano al mare. Il paese è in campagna ma il mare è vicino. Nora amava il sole, amava nuotare, chissà se andava in spiaggia con quei costumi castigatissimi dell’epoca. Finché, un giorno, lui parte per una missione, a bombardare qualche città in Germania, e non torna più. Nora rimane col suo abito da sposa di seta del paracadute. Perché il paese parlò? Uno scandalo? Un segreto? Vorrebbe poter tornare nella casa di Nora, la casa dove lei è cresciuta, sedersi in un angolo e ricostruire le conversazioni, le liti, cercare di rivedere Nora entrare e uscire, muoversi da una stanza all’altra, rivedere nonna Rita, rivedere suo padre.” Caterina non sarà sola nel suo viaggio verso sud. Accanto a lei, Paola. E avvicinandosi alla storia di sua madre, Caterina si avvicinerà anche a una parte sconosciuta di sé. Vi aspettiamo dunque giovedì 12 febbraio a La Claque La presentazione sarà accompagnata da un aperitivo (a partire dalle 19:00). Seguirà, alle 21.15, lo spettacolo Metafisica dell’amore a cura della compagnia Le Brugole.
Guest post di Elisa Tonani, Maestra di Officina Si usa a volte, tra le tante locuzioni cristallizzate che quotidianamente accompagnano il nostro eloquio, il sintagma “felicità espressiva”. La felicità data dalla bellezza della lingua, dal trovarsi di fronte a un concetto ben formulato. Felicità non solo di chi legge (e può rinvenire, nel discorso di un altro, sé stesso, qualcosa che lo identifica, in cui può riconoscersi), ma anche di chi scrive (di chi sente maturare in sé e sgorgare fuori di sé – già altre, non più sue – le parole giuste, insostituibili, quelle che definiscono la cosa in modo perfetto). È la ricerca di questa seconda felicità che fa accostare a un percorso di scrittura creativa, è questa la sete che chi scrive cerca di placare nella lettura per poi suscitarne altra tramite l’atto di scrivere. C’è una bellezza nella sfida che ci presenta una materia che ci sfugge eppure ci appartiene, che ci appartiene eppure ci sfugge: la lingua che parliamo, la punteggiatura che usiamo… cose nostre eppure così inclini a scivolare via… Siamo perlopiù abituati a considerare la punteggiatura una costrizione imposta dal di fuori e di cui non si sono mai ben capite le regole; oppure un sistema troppo lasco che sfugge da tutte le parti e di cui è impossibile tenere le fila. O al contrario qualcosa da spargere a caso nel testo, appellandosi al suo valore soggettivo! Ma lo stile è personale, non arbitrario. A volte basta cambiare prospettiva, basta illuminare di una luce diversa, per capire le cose che ci stanno davanti da sempre, che si danno un po’ per scontate, che si considerano addirittura irrilevanti. A volte basta cambiare prospettiva, basta illuminare di una luce diversa, per capire le cose che ci stanno davanti da sempre, che si danno un po’ per scontate, che si considerano addirittura irrilevanti. In un luogo come Officina Letteraria – l’ho sperimentato personalmente – succede qualcosa del genere: entrano in crisi le abitudini consolidate, ci si lascia alle spalle un po’ del bagaglio di certezze che ormai diamo per scontate, ed entra in gioco altro: la creatività, l’immaginazione, l’esplorazione, la possibilità di sperimentare e condividere percorsi nuovi. Un giorno arrivo a Officina letteraria per insegnare (la punteggiatura, questa Cenerentola che vorrei accompagnare fuori dalle grammatiche e dentro alle storie, come in una fiaba), e per prima cosa imparo. Il processo è avviato, e non si arresta: come potrebbe essere altrimenti se lo spirito che anima tutto è quello di Emilia Marasco? Un giorno, una “maestra” di Officina, una scrittrice curiosa e appassionata, mi ascolta, riflette, si confida, mi dice che si sta abituando a pensare anche agli aspetti della grammatica delle storie e della lingua come a dei personaggi che vivono, agiscono, interagiscono con noi; e poi mi coinvolge sulla sua pagina Facebook con domande che sembrano un gioco: “Che cosa mangiano le parentesi? in che stagione si riproducono le virgole? e che cos’è la punteggiatura bianca?”. Dietro questo gioco c’è tutta l’intelligenza arguta e la felicità inventiva di Ester Armanino. Nell’inevitabile torpore in cui, dopo ormai dieci anni di dedizione, giacciono le mie competenze sulla punteggiatura, si accende qualcosa di nuovo, come una piccola scintilla che ne innesca altre, di cui si intravede la potenziale inarrestabilità. A pensarci bene, possiamo immaginare la struttura del discorso come un organismo vivente, naturale A pensarci bene, possiamo immaginare la struttura del discorso come un organismo vivente, naturale, e i segni di punteggiatura, con le loro funzioni caratteristiche, come elementi strutturali di quel mondo vegetale, segni di una foresta. Ecco allora che le parentesi mangiano l’edera che si arrampica (e che se esagera è un parassita mica da poco!) sul tronco del discorso. Le parentesi fagocitano dentro di sé ciò che, se diventa troppo debordante, rischia di cancellare ciò a cui si sostiene, come l’edera tende a soffocare il tronco degli alberi ricoprendolo in modo indiscriminato. Le virgole si riproducono in primavera insieme alle gemme e ai germogli; anzi, sono esse stesse piccoli germogli che permettono al discorso di espandersi. Ma se in autunno il contadino non pota i suoi alberi, questi ramificano troppo. E allora anche le virgole restano lì appese a prolificare. Ma troppi rami non indeboliranno l’albero? Anche in questo caso ci vuole moderazione! Esagerare significa far seccare la pianta: è opportuno potarla. Il punto è la cesoia, la tronchesi del discorso. Bisogna tagliare nei punti giusti, tagliare dove si può, non in corrispondenza dei punti nevralgici della pianta, altrimenti le si impedisce di svilupparsi nel modo giusto. Si può pure voler coltivare un bonsai, ma anche in questo caso non si potranno separare le radici dal tronco, non si potrà recidere ciò che è indivisibile. La punteggiatura bianca, la più enigmatica e affascinante, è una nebbia. Quando ci sei immerso ti sembra il nulla. Ti sembra che abbia cancellato tutte le cose familiari e note. Ma dietro e dentro di lei c’è ancora tutto. Solo che ora per vederlo servono creatività, immaginazione, intuizione… riuscite a vedere l’invisibile?
Un libro per l’alluvione. In occasione dell’uscita della raccolta “Undici per la Liguria” a cura di Marcello Fois, undici scrittori liguri hanno messo a disposizione le proprie penne per contribuire, con ciò che sanno fare, alla causa degli alluvionati. Due delle undici penne, le puoi trovare a Officina Letteraria. Le ho intervistate e ho restitutito quello che è emerso in questo post. Intervista doppia: Ester Armanino e Bruno Morchio raccontano dell’evento dell’alluvione attraverso la narrazione di una crisi sentimentale. Comodità, beni irrinunciabili, routine. Solitudine, incapacità di cambiamento, incomunicabilità. Sicurezza, che non è sinonimo di felicità. Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. La città durante l’alluvione è come un “cadavere in putrefazione” (Il postino suona sempre due volte), “il diluvio, spietato e indifferente, non aveva fatto altro che portare a galla la verità” (Il postino suona sempre due volte).”Tra i detriti accumulati un po’ ovunque mi sembra di scorgere le nostre cose. Tu scuoti la testa e mi rassicuri. Ci assomigliano ma non sono le nostre” (Nessun rischio). Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. Ho chiesto ad entrambi com’è nata l’idea di raccontare il disagio sociale anche attraverso quello privato-relazionale. Ester Armanino: “Per me è inevitabile partire dall’esperienza personale sempre e comunque. Non riesco a orientarmi nel generale se il mio occhio prima non coglie i dettagli, le pieghe anche più trascurabili del reale e delle relazioni. L’alluvione ha travolto la città, nella città c’era una coppia: sono partita da qui. Da come avevano arredato casa, dai loro gesti e da ciò che tradiva la presunta solidità del loro rapporto. C’è un racconto bellissimo di Amy Hempel che s’intiola Nella vasca e inizia così: “Il mio cuore – credevo si fermasse. Così ho preso la macchina e sono andata a cercare Dio”; un esempio magistrale di come da un piccolo dettaglio, il battito del cuore percepito nella vasca piena d’acqua, si passi alla dimensione di una macchina più grande e poi a quella indefinibile di Dio, in due sole frasi.” Bruno Morchio: “È nata dalla realtà, dalla mia esperienza personale. In coppia succede di litigare e la trattoria, la Vespa, l’ora in cui sono passato dal luogo dell’alluvione sono un racconto autobiografico. Anche l’idea dell’altro fango, quello mediatico, corrisponde alla realtà. Per fortuna, il resto è fantasia. Il senso di morte, di dissoluzione che accompagna eventi come questi, risulta più efficace se viene associata a un elemento soggettivo, privato.” Poi chiedo loro qual è, se c’è, la differenza tra la lettura della società che danno gli scrittori attraverso la narrazione e quella di coloro che, invece, ci parlano della crisi sociale e politica senza la mediazione dello storytelling (giornalisti, politici). In pratica: Rispetto alla cronaca, il messaggio dello scrittore arriva al lettore in modo più intimo e personale, quindi più efficace? Ester Armanino:“Abbiamo un bisogno incommensurabile di storie, questo è appurato. Io non sono una grande consumatrice di serie televisive, ma la maggior parte delle persone che conosco sì, per loro è come una droga, come per me lo è rileggere periodicamente i libri della mia infanzia. Fabrizio De André ha detto che scriveva “per il bisogno di sentirsi protetto da una storia”, pensiero altissimo che onoro e condivido. In un mondo stracolmo di fatti e informazioni usa-e-getta, le storie hanno il meraviglioso potere di condurci al riparo dal ricatto mediatico, da quel sentirci in dovere di ospitare un’opinione a tutti i costi. Il mondo filtrato da una storia non cambia, ma forse ci coglie più preparati, perché ci siamo concessi il tempo di riflettere attingendo a un immaginario preesitente, archetipico. Anche quando la storia è dolorosa, cruda, non importa: siamo vulnerabili, ma protetti. Abbiamo l’antidoto.” Bruno Morchio: “Credo dipenda dalla bravura dello scrittore o del giornalista. Un buon reportage di cronaca può efficacemente documentare un evento tragico come sono state le alluvioni a Genova (in effetti il titolo del mio racconto dovrebbe essere cambiato: il postino ha suonato tre volte). Però non c’è dubbio che il messaggio “mitopoietico” (narrazione, poesia epica o lirica) ha il potere di raccontare l’esperienza del vissuto, mettendo a nudo la soggettività di coloro che sono coinvolti e, attraverso il meccanismo dell’identificazione, attivando le emozioni del lettore. A chi direbbero qualcosa le pietre di Troia se non avessimo letto l’Iliade?” Proseguo nell’intervista doppia: il filo conduttore di tutta l’antologia sembra essere il rapporto tra la Legge dell’uomo e quella della Natura. Gli scrittori potrebbero dirsi coloro che riescono ancora a vedere e a rispettare la Bellezza del mondo? A “restare umani”? Ester Armanino: “Più che bellezza, direi che gli scrittori indagano la banalità del mondo. Tendono a cogliere lo straordinario nell’ordinario, a rivalutare il banale nelle nostre vite come qualcosa di prezioso e importante. E vale anche il processo contrario: attraverso le parole raccontare ciò che ha avuto una portata straordinaria nella vita di molti e che sarebbe impossibile descrivere se non riconducendolo alla sfera personale, ai dettagli apparentemente banali e ordinari delle singole esperienze.” Bruno Morchio: “Gli scrittori, quando ce l’hanno, posseggono una dote: la capacità di scrivere, cioè di tradurre in parole il vissuto proprio e altrui. Questo è già molto e io mi accontenterei. Non credo che abbiano altre facoltà carismatiche, né che riescano a vedere più lontano degli altri.” Specialmente in Nessun rischio la protagonista osserva la ricostruzione della città in seguito all’alluvione con una sorta di desiderio (“Noi viviamo al terzo piano (…). Al terzo piano non corriamo alcun rischio“), vorrebbe la stessa possibilità di rinascita anche per se stessa e per la sua relazione. Questo mi ispira l’ultima domanda: La crisi puó essere una “benedizione” se porta a un cambiamento sperato? È questo il tipo di “speranza” che i vostri racconti vogliono sussurrare al lettore? Ester Armanino: “Sì, a patto che – come diceva Marcello Marchesi – la morte ci trovi vivi. Perché ogni tanto bisogna correre il rischio di cambiare le cose, “andarsela a cercare”. Altrimenti accontentiamoci di sopravvivere.” Bruno Morchio: “Credo che la teoria delle catastrofi abbia sostenuto qualcosa del genere. Del resto la storia ci insegna che i sistemi economici e
Scena di apparente vita quotidiana: un ragazzo sotto la doccia. Solo che non vuole lavarsi da solo, o non è in grado, o non gli viene permesso. Sono le infermiere a farlo per lui. Ogni mattina, uno scroscio di resina di pino silvestre, il sangue degli alberi, striscia lungo il suo tronco sotto forma di bagnoschiuma, graffia la sua corteccia, soffoca le foglie tra i suoi capelli. Ogni mattina, l’acqua ripulisce l’emorragia di un albero tramutato in sapone, mentre il corpo del ragazzo resta inerte sotto le mani altrui. Ogni mattina, l’acqua ripulisce l’emorragia di un albero tramutato in sapone, mentre il corpo del ragazzo resta inerte sotto le mani altrui Con questa immagine inizia A testa in giù, romanzo di Elena Mearini appena pubblicato da Morellini Editore. Gioele abita il mondo costruito nella sua mente, confinato in un muro di silenzio che lui stesso cerca e si impone, mentre all’esterno i degenti e il personale dell’istituto tentano inutilmente di “salvarlo”. Gioele è un picchiato in testa: così si definisce, così sa di essere definito. È la sua natura. Eppure, sarebbe così semplice comprendere la verità: non siamo tutti fatti per comunicare attraverso la voce. La voce di Gioele non è quella che esce dalle vibrazioni dentro la bocca: è quella del picchiettio delle mani e dei piedi, della testa contro il muro, degli oggetti che cadono e sbattono. “La mia voce è il suono, io dico con i rumori” Sono i suoni a portarlo fuori dalle mura dell’istituto, un giorno. Sono i suoni a farlo montare su Domingo, mettere in moto, guidare per alcuni metri e quasi investire una signora in bicicletta. Maria monta sul sedile passeggero, vuole andare al Pronto Soccorso, poi no, fuori Milano, in campagna, dov’è nata e cresciuta e dove si annidano i suoi ricordi. Maria è un fiume di parole, parla, parla, parla dell’uomo che da bambina le faceva male in mezzo ai cespugli, delle patate da raccogliere, della sua mamma, del signore Gesù che lei ama così tanto, di suo marito che amava di più il vino, di sua sorella Eleonora che era incinta e nessuno la voleva. Maria parla con la voce, Gioele risponde battendo sul volante, uno-due, uno-due. Finché, chilometro dopo chilometro, sentono l’uno nell’altra il richiamo del sangue che scorre lungo le loro cortecce ferite. Un romanzo che è poesia, che traduce le immagini tipiche della scrittura di Elena Mearini in un crescendo di emozioni, attraverso due voci narranti così in apparenza lontane ma in realtà simili più che mai. Un romanzo che ci ricorda che in ciascuno di noi si nasconde una storia.
Torna dopo un anno il Laboratorio Officina Ragazzi, dedicato ai giovanissimi che vogliono avvicinarsi presto (o si sono già avvicinati prestissimo) al mondo della scrittura. A tenere il corso sarò proprio io, e ci incontreremo sei volte (ogni martedì dal 17 marzo al 21 aprile, dalle 17:00 alle 18:00 alla sede di Officina Letteraria, in Via Cairoli, 4) per parlare di letture rigorosamente “extrascolastiche”, di cosa vuol dire fare lo scrittore oggi, di preparazione di testi per il web e, soprattutto, per scrivere insieme. Il costo complessivo dei sei incontri è di 80 euro. Il Laboratorio è destinato, quest’anno, a ragazzi giovanissimi: dagli 11 ai 16 anni. Il Laboratorio è destinato, quest’anno, a ragazzi giovanissimi: dagli 11 ai 16 anni. Mi dicono dalla regia che il numero massimo di partecipanti è già stato quasi raggiunto, quindi se volete unirvi a noi affrettatevi a contattare Officina Letteraria. Abbiamo deciso di destinare il corso a un “piccolo gruppo” per seguire meglio i progetti dei ragazzi. Per qualsiasi informazione più specifica sul corso, è possibile mandare una mail all’indirizzo info@officinaletteraria.com.
30 settembre 1942 Essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente, a volte fin troppo spontaneamente. Essere fedeli a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare. Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori. E dovunque si é, esserci “al cento per cento”. Il mio “fare” consisterà nell’ “essere” ! Soprattutto, devo essere più fedele a quel che vorrei chiamare il mio talento creativo, per modesto che sia. Ad ogni modo: ci sono tante cose che vorrebbero essere dette e scritte da me, e dovrei mettermici. Invece cerco in tutti i modi di scappare, e in questo manco. D’altra parte, so che devo aspettare con pazienza che le mie parole crescano. Ma devo anche aiutarle. È sempre così: si vorrebbe scrivere subito qualcosa di straordinario e di geniale, ci si vergogna delle proprie sciocchezze. Ma se io ho un dovere nella vita, in questo tempo, in questo stadio della mia vita, é proprio quello di scrivere, annotare, conservare. Le cose, nel frattempo, le digerirò comunque. Io leggo la vita come un tutto coerente, so che sono in grado di leggerla, e nella mia presunzione e pigrizia giovanili penso che tanto mi ricorderò ogni cosa, e che più tardi saprò raccontarla. Io vivo la vita sino in fondo, ma sento sempre più che ho delle responsabilità verso quelli che vorrei chiamare i miei talenti. Ma da dove cominciare, mio Dio. Ci sono così tante cose. Non devi neppure pretendere di scrivere le cose così come le hai vissute con tanta intensità: sarebbe un errore. Non si tratta di questo. Non so ancora come farò a dominare tutta questa materia. So soltanto che dovrò fare tutto da sola, e che ho abbastanza forza e pazienza per riuscirci. Devo anche essere fedele, non posso più disperdermi come sabbia al vento. Io mi divido tra gli affetti, le impressioni, le persone e le emozioni che mi toccano: devo rimaner fedele a tutti ma devo anche essere fedele al mio talento. “Vivere” tutto quanto non è più sufficiente, ci vuole qualcosa in più. Credo di vedere sempre meglio gli abissi che inghiottono le forze creative e la gioia di vivere dell’uomo. Sono buche che ingoiano tutto e queste buche sono nella nostra stessa anima. A ciascun giorno basta la sua pena. Inoltre: L’uomo soffre soprattutto per la paura del dolore. Ed è la materia che attira tutto lo spirito a sé e non viceversa. “Vivi troppo con lo spirito”. E perché no? Perché non ho abbandonato immediatamente il mio corpo alle tue mani desiderose? L’uomo è una strana creatura. Quanto vorrei scrivere. Da qualche parte in me c’è un officina in cui dei titani riforgiano il mondo. Una volta avevo scritto disperata: é proprio nella mia testolina, nel mio cranio che deve essere spiegato il mondo. Ora lo penso ancora di tanto in tanto, con una presunzione quasi diabolica. Riesco sempre più ad affrancare la mia forza creativa dalle necessità materiali, dal pensiero della fame, del freddo e dei pericoli. È pur sempre un’idea , non una realtà. La realtà è qualcosa che bisogna prendere su di sé, con tutto il suo dolore e con tutte le sue difficoltà, e intanto che la si sopporta, la nostra pazienza aumenta. Ma l’idea del dolore – non il dolore ‘vero’, che è fruttuoso e può rendere la vita preziosa – , quella va distrutta. E se si distruggono i preconcetti che imprigionano la vita come inferriate, allora si libera la vera vita e la vera forza sono in noi, e allora si avrà anche la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella dell’umanità. Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse il lato indifeso di me stessa? Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo. E finisco sempre per tornare a Rilke. È così strano, Rilke era un uomo fragile e ha scritto gran parte della sua opera fra le sue mura di castelli ospitali, e magari sarebbe stato distrutto dalle circostanze in cui ci troviamo a vivere noi. Ma non è proprio questo un segno di buona economia – il fatto che, in circostanze tranquille e favorevoli, artisti sensibili possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profondi; e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrirti appoggio e protezione agli uomini smarriti? Ai turbamenti e ai problemi che non trovano o soluzione, perché ogni energia è consumata dalle necessità quotidiane? In tempi difficili si tende a disprezzare le acquisizioni spirituali di artisti vissuti in epoche cosiddette più facili (ma essere artista non è di per sé abbastanza difficile?) , e si dice: tanto, cosa ce ne facciamo? È un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente poveri. Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite. — Queste parole sono tratte dal diario di Etty Hillesum, un giovane donna, ebrea olandese, che avrebbe fatto la scrittrice se non fosse morta il 30 novembre 1943 nel campo di sterminio di Auschwitz. In questo giorno, dedicato alla memoria, resto muta e con il cuore dolente per tutti i libri che non sono mai stati scritti, per tutta la musica che non è stata suonata, per tutte quelle vite che avrebbero potuto essere e non sono state. E anche per tutti noi, vivi, ma più poveri, depredati di qualcosa che possiamo solo immaginare. Cosa sarei io se Etty avesse scritto i suoi libri? Che ne sarebbe stato di me se Primo Levi non fosse tornato per scriverli? I diari e le lettere di Etty Hillesum sono editi da Adelphi.
#11PerLaLiguria Dalla scorsa settimana, se vai in libreria, ci trovi un libriccino bianco e rosso. “Undici per la Liguria” a cura di Marcello Fois. Si tratta del progetto di Einaudi a sostegno degli alluvionati della Liguria, un’antologia che ha coinvolto undici scrittori liguri, di nascita o di adozione, e i cui ricavati di vendita saranno destinati alla Scuola dell’infanzia San Fruttuoso di Genova, gravemente danneggiata dalle piogge dello scorso autunno 2014. Einaudi ha chiesto agli undici autori di produrre un contributo letterario di alcune cartelle ad argomento libero. Detto fatto. Nessun rischio (Ester Armanino) Lo spirito del torrente (Giuseppe Conte) Storie fantastiche di isole vere. Filfla (Ernesto Franco) La cella (Riccardo Gazzaniga) Angeli (Maurizio Maggiani) Il postino suona sempre due volte (Bruno Morchio) Il mondo verticale (Rossella Postorino) Rovine (Carlo Repetti) Genova nel buio (Ferruccio Sansa) L’impiegato di Biella (Michele Serra) Lobelia, muschi (Enrico Testa). Argomenti liberi sì, ma lungo un filo conduttore: un messaggio, un’intenzione, un’intuizione comune che risuona in ognuna delle undici voci. Un accordo, che si sente forte e chiaro, si legge in Introduzione: “L’uomo sapeva che niente è più potente di un corso d’acqua che si trovi a ripercorrere il proprio letto. Sapeva che – nonostante il progresso – dove c’era l’acqua, l’acqua ritornerà. Sapeva che neanche obbedire alle regole è per la Natura un impedimento. Semmai un impegno a limitare i danni.” Undici storie. Undici autori. Si parte. Presi per mano dallo scrittore. Ognuno di loro ha una “stretta” diversa. Ognuno di loro ha il suo modo di tradurre in parole, di raccontarti questa cosa dell’alluvione e delle piogge straordinarie, del cemento colato e calato sul nostro Paese, della scarsa prevenzione dei decenni passati e dei danni presenti. Dell’uomo contemporaneo. Del suo essere contemporaneamente evoluto e vulnerabile. “Ognuno di loro ha il suo modo di tradurre in parole” Loro, gli undici, per dirla tutta, ti raccontano l’emozione di questa alluvione, la loro. Ma a volte è la tua. Ne hai undici, puoi scegliere quella che ti appartiene di più. Due su Undici. Tra gli undici scrittori che hanno prestato la loro penna a scopo benefico, ho la fortuna di conoscerne due: Ester Armanino e Bruno Morchio, infatti, sono maestri di Officina Letteraria e, proprio per questo, mi è stato più facile far loro qualche domanda, che presto leggerete su questo blog. Appuntamento in libreria. Chiaramente, perché l’operazione abbia successo, bisonga supportare questo libro. Comprarlo. Leggerlo. Consigliarlo. Un’occasione per farlo, sarà lunedì 9 Febbraio alle ore 18:00 quando “Undici per la Liguria” sarà presentato a Genova, presso la libreria L’amico Ritrovato di Via Luccoli, 98r. Ci vediamo lì.
Tra i diritti imprescrittibili del lettore, dopo il diritto di spizzicare e prima di quello di tacere, Pennac inserisce proprio questo il diritto di leggere a voce alta Perché? Semplicemente perché è meraviglioso. Sentirsi raccontare una storia è un piacere antico, che molti di noi hanno sperimentato da piccoli. Raccontare una storia ad alta voce, dare un suono alla parola scritta (da noi o da altri), attinge a quello stesso angolo delle emozioni da cui tiriamo fuori il ricordo del nostro primo libro: ti ascolto e ti racconto, c’era una volta e c’è ancora. Quando leggiamo un libro a un bambino, se siamo fortunati, si crea uno spazio speciale in cui si accomodano tutti, chi legge, chi ascolta, il profumo delle pagine e i personaggi di carta: è una poltrona di nuvola in cui si sprofonda col sorriso. Ma perché smettere quando si cresce? I Cantastorie parlavano a tutti, grandi e piccoli. Erano artisti di strada che si spostavano da una piazza all’altra e raccontavano storie antiche e nuove accompagnandosi con uno strumento musicale, una chitarra di solito. Su un cartellone illustravano le principali scene del racconto, che andavano a segnare col dito. Era semplice, e tutti stavano ad ascoltare. Erano cantastorie anche i rapsodi greci, i trovatori e i trovieri, per non parlare di tutte le figure tradizionali della cultura orientale: le Chitrakar, cantastorie-pittrici indiane, o i cantastorie giapponesi, che si spostavano in bicicletta con le loro kamishibai, valigie-teatri viaggianti. È un fatto che la letteratura è nata prima della scrittura. E che leggere ad alta voce fa bene. In molti paesi sono sorte iniziative per la promozione della lettura ad alta voce, negli Stati Uniti, in Germania, in Gran Bretagna, e anche in Italia con Nati per leggere. Ma, ancora, perché limitare questo piacere ai primi anni di vita? E infatti c’è chi a smettere non ci pensa neanche. Sono sempre più diffuse le pratiche del reading e dello storytelling, rivolte a chiunque voglia ascoltare, senza discriminazioni di età. C’è anche chi legge ad alta voce per chi non può leggere da sé. Annalisa Soldà mi racconta la sua particolare esperienza di lettrice tra quattro mura, come si definisce: il pubblico so che ci sarà, ma non lo vedo davanti a me quando registro. Annalisa presta la sua voce per creare audiolibri, la sua esperienza mi entusiasma e mi faccio raccontare. Esiste una lettura zero, che è la prima lettura di un testo ad alta voce, mi dice. Durante la lettura zero, Annalisa si ascolta e valuta il ritmo, il volume della voce e il tono. Dove poter fare una piccola pausa per riprendere fiato e se la melodia – la chiama proprio così, la melodia – è quella giusta oppure ci sono stonature. Soprattutto mi concentro sulle emozioni che ho ricavato dal testo, come posso farle mie e trasmetterle: più anima ci metti e meglio viene la lettura Dario Apicella, animatore culturale, narratore e attore, gli audiolibri li ascoltava da piccolo, quando ancora non si chiamavano così ed erano un prodotto destinato unicamente ai bambini che ancora non sapevano leggere. Mi affascinavano le voci degli interpreti, mi racconta, famosi attori di cinema e teatro come Gabriele Lavia, Oreste Lionello, Ottavia Piccolo… Quelle voci mi davano piacere, lo stesso piacere che provavo nell’udire la voce di mia madre che cantava vecchie canzoni facendo i lavori di casa. Ed è così che, dopo la formazione teatrale allo Stabile di Genova, questo interesse si delinea e si trasforma in desiderio: mi sono reso conto, continua Dario, che ciò che desideravo di più, quello che per me era veramente importante e necessario, non era il palcoscenico, ma leggere, ascoltare e raccontare storie. Se quando sarà grande (tra poco, dice) gli chiederemo che lavoro fa, potrà risponderci: racconto storie, sono un narratore. È il suono, la prima cosa che arriva dice Dario Manera nel presentare il suo corso Ad alta voce , che si terrà presso Officina Letteraria a partire da quest’anno. Dario è attore, diplomato alla Scuola di Arte Drammatica Piccolo Teatro di Milano, e la sua esperienza di teatro gli ha insegnato che la parola deve muoversi non solo verso l’orecchio altrui, ma anche verso la mente e la memoria di chi ascolta, spiega. Una buona lettura, aggiunge, è in grado di toccare gli altri con la voce, di rianimare la parola scritta nel passaggio al suono, andando a recuperare la stessa emozione che l’aveva concepita. E le pause? Le pause non sono assenza di parole, danno respiro al discorso. E a chi legge. Bisogna poi tenere conto della modulazione tonale, dei volumi, del ritmo, la dizione e una corretta respirazione. Siamo tutti dei buoni “raccontatori”, dice Dario, si tratta di imparare a recuperare abilità che in qualche misura già possediamo. … E sono passata dall’altra parte! – Dall’altra parte di cosa? – Della cicatrice! Dall’altra parte del cielo! Sono entrata! è proprio questo che ti volevo raccontare. Papà, sai cosa c’era dall’altra parte del cielo? – No, dimmelo. Dimmi subito, amore mio… (Daniel Pennac, Il giro del cielo)
Ritorna il nostro agente Qfwfq! Prima di lasciare spazio alle sue inchieste sui passanti sorpresi con un libro in mano, riportiamo una breve dichiarazione che ha rilasciato alla redazione di Officina per spiegare il suo lavoro: Hai voglia dire: scrivi. E chi ti legge? Officina Letteraria è un posto dove la gente legge e scrive. C’è sempre un motivo per farlo. Ogni tanto le parole diventano libri veri e propri. Non si sa che fine facciano. Se tu pubblichi e qualcuno ti conosce, certo che il libro lo tiene. Ma tutti gli altri? Quelli che per prima cosa di te sanno quello? Non la stretta di mano, non il tuo modo di fare, neppure dove vivi e in fin dei conti chi sei. Le persone che proprio usano un po’ del loro tempo per leggere la tua storia, chi sono? E se non scelgono il tuo libro ma un altro, ci sarà pure un motivo. L’unico modo di saperlo è seguire i libri. Guardare che giri fanno, in che mani sono. Ho deciso di andare in giro e intercettarli. Senza chiedere “che libro hai sul comodino”, perché chi risponde si dà sempre un tono, che dica Kierkegaard o Topolino. No, io li voglio sorprendere mentre leggono per vedere cosa hanno scelto. Perché chi tira fuori un libro in un luogo pubblico, alla vista di tutti, comunque è uno di noi. Uno motivato da qualcosa. Dalla pubblicità, dalla curiosità, dal caso, dal consiglio di un amico, da un obbligo scolastico. Già che ci siamo, controllo anche se legge carta o schermo. Vediamo che coppie si formano tra libri e persone. Tutto il resto è teoria. Vediamo che coppie si formano tra libri e persone. Tutto il resto è teoria. 1) Pochi giorni dopo l’alluvione, salgo su un autobus verso sera. Ancora si pulisce la città, ancora si sente l’odore dell’acqua e della terra sottile che trovi dappertutto. Il 20 è affollato. Sulla piattaforma in fondo c’è un uomo sui 40 anni che legge, in piedi. Un tipo interessante, vestito senza fronzoli, persino rilassato nonostante la postura, le buche e gli ammortizzatori. Continua a leggere anche quando salgono i ragazzi pieni di fango che hanno finito la loro giornata nei negozi e negli scantinati. Una di loro si piazza vicino a lui con la pala bella dritta in mano, oggetto prezioso in quell’emergenza. Non si poteva abbandonare. Si sta stretti ora sull’autobus, ma lui non ha mai staccato gli occhi dalle pagine. Il libro è Caos calmo di Giovanni Veronesi. Gli dico: “Dev’essere avvincente”. Mi risponde: “Abbastanza”, seccato dall’interruzione. Fendo la folla e mi faccio più in là. 2) Al mare d’autunno, in una giornata tersa e calda. L’atmosfera è tutta diversa dall’estate. La gente è più libera perché la spiaggia è libera. Complessivamente, ci si dà anche meno fastidio, non fosse per il cane che continua a selezionare le persone che le piacciono e quelle che non le piacciono. Fra quelle che le piacciono da subito c’è una signora, che stende il suo asciugamano poco lontano, si mette in costume e inizia a leggere. Ha un e-reader, un attrezzo elettronico. Niente carta. È tutta felice di condividere il suo entusiasmo per la saga di Ken Follett, Century Trilogy. Sta leggendo I giorni dell’eternità (1.250 pagine) dopo essersi divorata La caduta dei giganti e L’inverno del mondo. “Li consiglio a tutti”, dice. Spiega che racconta tutto il Novecento vista da cinque punti di vista, cinque famiglie di nazionalità diversa, che quello è l’ultimo volume, che in tutto sono tre e belli spessi. Ma che si leggono di un fiato e si capiscono bene le dinamiche, i pensieri, le vite di chi è nato di qua o di là da un confine. Dice anche che le serve per spiegare meglio a scuola. Una specie di benedizione. Sullo stesso litorale, poco oltre, ma messo molto più al riparo, c’è un signore che legge La lingua del fuoco di Don Winslow. Thriller, molto noir. Dice anche che le serve per spiegare meglio a scuola. Una specie di benedizione. 3) Nella stessa giornata, in due luoghi diversi, ne vedo due molto particolari. Di lettori. Sono fuori della porta di un ufficio pubblico, in coda. Seduti tranquilli. Vicino a me si siede una ragazza che ha voglia di chiacchierare. Io non tanta. Lei fa un controllo incrociato di tutte le carte che deve consegnare, confronta il mio modulo e il suo (che, per la stessa operazione, sono diversi). Sorride molto, è gentile. Io non tanto. A un certo punto si arrende e tira fuori un libro dalla borsa. L’attesa in effetti è lunga. A quel punto io mi interesso e lei non punisce la mia precedente scontrosità. Anzi è tutta contenta di mostrarmi La città di Dio di Louis De Wohl, spiegandomi che è un romanzo su San Benedetto della Croce. Precisa che non è un agiografia, che è divertente. Non riesco a reagire perché San Benedetto in testa ce l’ho, ma il della Croce mi spiazza. Però ora la ragazza è più contenta e intanto è arrivato il mio turno. In tarda mattinata salgo sull’autobus, il 20 e dalle parti dell’Università sale un ragazzo, uno studente evidentemente, con tutto il suo corredo di jeans, maglietta, sneaker non firmate, zaino e cuffiette. Si mette in piedi al centro, dove ci si può appoggiare al corrimano. Non so cosa ascolta, ma legge Gargantua e Pantagruele di François Rabelais, in italiano. Ogni tanto ride e mi fa piacere.
È con grande piacere che vi presentiamo l’ultima novità del blog di Officina Letteraria: il nostro agente segreto Qfwfq. Una misteriosa figura che si aggira per le vie di Genova con l’obiettivo di individuare i lettori tra la folla, prendere nota, e tornare in fretta in redazione a raccontarci le loro abitudini. Se vi riconoscete tra i protagonisti di questa rubrica… probabilmente siete stati pizzicati da Qfwfq! Nessuno sa chi si nasconda dietro a questo pseudonimo ma una cosa è certa: che siate in autobus, in treno o sulla spiaggia non basterà infilare il naso tra le pagine di un libro per nascondervi. Anzi. Qfwfq non aspetta altro… 1. La missione è scovare chi legge. Sono sul 17, direzione Nervi, ancora in centro. Una ragazza sale dove si scende: jeans, cuffiette, zaino con i libri di scuola iniziata da poche settimane. In mano ha Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. Intonso. Si capisce che lo ha appena ritirato ma non lo ha messo via. Forse vuol dare un’occhiata nel tragitto. Si siede e mi avvicino. Toglie le cuffiette. Si chiama Giorgia, carina, gentile. Porta l’apparecchio per i denti. Mi spiega che lo deve leggere per il liceo e lo ha scelto la prof. Già che le ho rivolto la parola, coglie l’occasione per togliersi il dubbio. Prima mi chiede se l’ho letto e dico sì. Perché la sua paura è che si tratti di un libro “storico”, come dice. “Parla mica di guerra? Perché non mi piacciono.” No, dico, no, è un giornalista che ricorda la sua vita. Un po’ mento. Poi scendo, mentre lei ringrazia sorridendo e pure io. Una signora litiga col libro che si è portata. Legge qualche pagina, lo chiude, va a parlare con un’amica, torna, lo riprende, si addormenta sul lettino 2. Un posto dove si scovano i libri è al mare. Giornata calda d’inizio autunno. Una signora litiga col libro che si è portata. Legge qualche pagina, lo chiude, va a parlare con un’amica, torna, lo riprende, si addormenta sul lettino, va un po’ avanti, arriva la nipote per chiederle se può fare il bagno. Un tormento. Il libro è La cortigiana di Sarah Dunant. La signora – costume intero color tortora e pesca, quasi da piscina – è circa a metà. Le chiedo se è un bel libro. “Non tanto, ma vado avanti perché ormai ce l’ho. Pesantuccio.” La Dunant è una scrittrice inglese e La cortigiana è un romanzo storico ambientato nel Rinascimento, tra Roma e Venezia. La protagonista, Fiammetta Bianchini, nei giorni seguenti il Sacco di Roma viene sfregiata dagli occupanti e fugge a Venezia, dopo avere ingoiato i suoi gioielli più preziosi. Tornando qui e ora sulla spiaggia, quel giorno al mare ci sono altre due persone che leggono. Uno è un uomo sui 40 anni, con la figlia più in là che gioca con le amiche. Lui è proprio immerso ne Il momento è delicato di Niccolò Ammaniti, una raccolta di racconti scritti nell’arco di vent’anni, dal primo durante l’università fino al 2012. Non lo disturbo. Sulla sinistra, altrettanto isolata dal mondo, c’è una signora sui sessanta, in mezzo a un gruppo di amici che si capisce hanno un gran confidenza tra loro. Parlano, scherzano, si prendono in giro, la prendono in giro, la stuzzicano perché non partecipa. Lei, niente. Sta leggendo Una notte all’improvviso di Mary Higgins Clark. Cerco: è un’autrice di best seller americana, definita regina della suspence. Quella storia, in particolare, inizia la vigilia di Natale, sulla Quinta Strada a New York. Un bambino vede il portafoglio cadere dalla tasca di sua madre e una sconosciuta che fulminea lo prende e lo porta via. Il ragazzino la segue e inizia la sua avventura. Bambino per bambino, vorrei riportare l’arrabbiatura di una sorella minore per la maggiore che dalla spiaggia non se ne voleva andare. Le urla: “Ho detto a papà che siete cattive e papà ha detto che ti mette in castigo per 60.000 anni.” Quando si dice un anatema. Ho detto a papà che siete cattive e papà ha detto che ti mette in castigo per 60.000 anni 3. Altro autobus, il 44. Spuntano due libri di grandi dimensioni, belli squadernati nelle mani di chi li ha appena comprati e non vede l’ora di metterci il naso dentro. Ci sono tre persone sedute sulla striscia di sedili in fondo e sono tre donne di generazioni diverse. Potrebbero essere nonna, mamma e figlia. La nonna ha comprato Nuova guida alla Bibbia di Gianfranco Ravasi alla libreria San Paolo. O almeno il sacchetto è quello. Il cardinale, biblista, teologo, offre chiavi di lettura dalla Genesi all’Apocalisse, con mappe, foto, ricostruzioni. Serissimo. La ragazza, sui 13 anni, sfoglia pagina per pagina e le commenta con sua madre. Si tratta di Where We Are. Our band, our story degli One Direction. Glielo devo chiedere, perché non vedo la copertina e non riesco a indovinare. Lei, benevola, mi spiega che “è la band del momento.” Serissima. Prendo atto e mi dileguo.
Scrittrice e giornalista, Rosa Montero è nata a Madrid nel 1951 e ha iniziato a lavorare per il quotidiano El Pais nel 1976. Come molti autori e autrici, prima e dopo di lei, a un certo punto del suo percorso ha avvertito il bisogno di fissare in un’autobiografia quanto ritiene di aver imparato sulla lettura e sulla scrittura. Nel 2004 pubblica La pazza di casa, il cui titolo si ispira al modo in cui Santa Teresa D’Avila definiva la fantasia e l’immaginazione. Questi alcuni brevi assaggi di ciò che Rosa ha voluto trasmetterci. 1- Qualsiasi narratore di professione sa che si scrive soprattutto dentro la testa. Chi scrive non smette mai di scrivere, e la scrittura più produttiva avviene quando si è lontani da penna e tastiera. Rosa lo definisce “ronzio creativo”, ma anche “torrente di parole che ribolle nel cervello”. Quella sensazione che ci accompagna in auto, in ufficio, mentre si cerca di prendere sonno (e in coda alle casse del supermercato, aggiungerebbe David Foster Wallace). Ogni episodio della nostra esistenza, fino al più insignificante, è materia prima per la costruzione di ricordi, sogni e sì, anche e soprattutto menzogne, che un giorno o l’altro potrebbero diventare racconti, poesie, romanzi. 2- Il romanzo è un’autorizzazione alla schizofrenia. La citazione, strappata allo scrittore messicano Sergio Pitol, illustra le conseguenze dirette del “ronzio creativo” di cui sopra. “Lo scrittore sente le voci”. Chi scrive non conosce la solitudine: è costantemente accompagnato dai suoi personaggi, dai loro conflitti, dai loro pensieri e azioni. Osserviamo un luogo, uno qualunque, e lo vediamo popolarsi di anime, di storie. Un pezzettino di noi si stacca e penetra in quel luogo per vedere che succede. Si avvicina, perché solo così può scorgerne i dettagli: un rumore, una macchia su un muro, il colore di un vestito, l’odore in una stanza, la sensazione di bagnato o di asciutto, a seconda. Chi scrive è autorizzato a fare tutto questo: addentrarsi costantemente in altri mondi, in altre vite, e quando non ne ha a disposizione, inventarsele. 3- I romanzi sono organismi viventi. Il lavoro di romanziera è lungo e delicato: Rosa lavora a ogni suo romanzo circa tre o quattro anni. Prima scrive l’intera opera nella sua testa, prende appunti, finché la fusione tra la vita quotidiana e quella che man mano si sviluppa nella sua mente – ricordate, il “sentire le voci” di cui si accennava prima? – diventa sempre più forte, finché non distingue più qual è una vita e qual è l’altra. Rosa la chiama “fase dell’imbuto”: tutto ciò che accade nella vita “reale” cade, come in un imbuto, dentro a ciò che si sta scrivendo mentalmente. Quando è convinta di avere davanti agli occhi la visione d’insieme, fino al numero dei capitoli e al dettaglio di ciascuno di essi, allora inizia la scrittura vera e propria. 4- Ogni scrittore ha i suoi fantasmi, che lo inseguono come cani da caccia lungo tutti i suoi libri In ogni romanzo di Rosa è presente un nano, una nana, una persona di statura più bassa del normale. A volte è stata attentissima, dopo che molte persone glielo avevano fatto notare, e nei tre, quattro anni di scrittura si era premurata di epurare la storia da qualsiasi nano. Niente. Alla fine il nano c’era sempre. Ogni scrittore ha un’immagine di questo genere: un personaggio che, per varie ragioni, soprattutto legate al proprio inconscio e al proprio vissuto, si porta dietro in ogni opera. Sta a te capire qual è il tuo fantasma, accettarlo, lasciarti accompagnare. Infine, più che un consiglio, una domanda. 5- Se dovessi scegliere tra due mutilazioni, non scrivere mai più o non leggere mai più, quale sceglieresti?
Domenica 30 novembre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la seconda serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. Il tema generale della serata era Malattie Esantematiche. La squadra vincitrice, la cui parola chiave era Puntini, è composta da Dario Manera, Elena Scappini ed Edoardo Cavazzuti. Di seguito, pubblichiamo il racconto “Mani-Piedi-Bocca” scritto da Edoardo Cavazzuti. — Mani-Piedi-Bocca di Edoardo Cavazzuti Voi, persone razionali, immagino NON amereste sapere che esistono circa SETTANTAMILA virus sconosciuti alla scienza. Quando qualche ricercatore neozelandese ne individua uno, al virus è attribuito un nome latino E/O una sigla simile a quelle degli asteroidi. Tipo: Enterovirus EV71. Di sicuro, sarebbe straordinario che vostro figlio tornasse dall’asilo con un asteroide. Possibile, invece, che rincasi con uno dei suddetti settantamila virus. Ancora più facilmente, potrebbe tornare con una malattia che, quando voi eravate bambini, non era nota e che, invece, oggi è comune o, quantomeno, riconosciuta. Come la cosiddetta Mani-Piedi-Bocca. Nel caso in cui vostro figlio contraesse la Mani-Piedi-Bocca, la pediatra vi direbbe che, pur essendo molto contagioso, il virus difficilmente si trasmette agli adulti. “Nel caso in cui vostro figlio contraesse la Mani-Piedi-Bocca, la pediatra vi direbbe che, pur essendo molto contagioso, il virus difficilmente si trasmette agli adulti.” Così, qualche ora dopo, non fareste caso a quel leggero intorpidimento della bocca e continuereste a montare LEGO®, seduti sul tappeto. La sera, non prestereste attenzione a quella sensazione di sensibilità alla pianta dei piedi. Solo la mattina successiva, afferrando lo spazzolino da denti, scoprireste quanto l’avverbio “difficilmente” sia infido e cosa significhi, nella realtà, il termine “ESANTÉMA”. Puntini, ecco cosa. Puntini che si sentono strofinando un palmo sull’altro, un polpastrello sull’altro; piccoli puntini, non proprio tondi, non proprio aperti. E poi minuscoli lividi, vescicole che sbocciano, come lana di vetro. Sulle mani, sotto i piedi, sulla lingua. Puntini, ecco cosa. Puntini che si sentono strofinando un palmo sull’altro, un polpastrello sull’altro; piccoli puntini, non proprio tondi, non proprio aperti. Se consultato, il vostro medico curante non avrebbe la benché minima nozione sulla Mani-Piedi-Bocca e, nel dubbio, vi prescriverebbe dieci giorni di mutua. Vostro figlio starebbe benissimo, voi, invece, sareste ridotti a zombi febbricitanti. Zombi lenti, non quelli moderni. Finita la degenza casalinga, scoprireste (per colpa Wikipedia) che la Mani-Piedi-Bocca è causata da diversi ceppi di virus e che si può riprendere. E allora passereste più di una sera a spiarvi nella bocca, alla luce della torcia, più di una mattina a strofinarvi gli alluci, in attesa di una scossa. Ogni indizio sarebbe prova di una ricaduta. E ogni volta, pensereste al nome, alla sigla, all’asteroide, ai settantamila virus, alla Nuova Zelanda, alla pediatra, al medico curante, alla mutua e, pensandoci, OBBLIGHERESTE vostro figlio a lavarsi le mani cantando due volte “Tanti auguri a te”. E lui vi direbbe che basta. E voi gli direste che ancora. E lui vi direbbe che è calda. E voi gli direste che è giusta. E lui griderebbe che brucia. E voi gli direste che è giusta. È sicuramente giusta così… — Non perdete la terza e ultima serata di Non sparate allo scrittore! Domenica 28 dicembre 2014 al Count Basie Jazz Club di Genova. Il tema sarà “Luoghi Comuni” declinato in tre parole chiave: Casa, Chiesa e Cesso.
Domenica 30 novembre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la seconda serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. Il tema generale della serata era Malattie Esantematiche. La squadra vincitrice, la cui parola chiave era Puntini, è composta da Dario Manera, Elena Scappini ed Edoardo Cavazzuti. Di seguito, pubblichiamo il racconto “Tempi di attesa” scritto da Elena Scappini. — Tempi di attesa di Elena Scappini Ascoltami amore, ti racconto quando me ne sono accorta. Avevo messo il cercapersone sul comodino e mi ero sdraiata sul letto cercando di riposare. Quella notte ero in reperibilità. Giudice di turno. Di solito, mi avevano detto, di notte non accade mai nulla. Ma era il mio primo incarico, in una città diversa dalla mia e non riuscivo a stare tranquilla. Inoltre dalla mattina avevo un malessere generale; faceva molto freddo, era quasi inverno e pioveva da due giorni: i sintomi dell’influenza c’erano tutti. Non sarebbe stata una notte tranquilla, lo capii non appena dal comando dei carabinieri mi arrivò la chiamata. Un pullmann con quaranta giovani militari era caduto giù dal viadotto, il giudice di turno doveva essere presente. Ebbi un attimo di sgomento, solo un attimo perchè dovevo rivestirmi al più presto ed entrare rapidamente nel mio ruolo. “Ebbi un attimo di sgomento, solo un attimo perchè dovevo rivestirmi al più presto ed entrare rapidamente nel mio ruolo.” Il capitano dei carabinieri della stazione provinciale fu molto gentile e venne a prendermi personalmente. Tutti furono molto gentili, perchè in una piccola città di provincia si conoscono tutti ed io, giovane giudice donna, al mio primo incarico, avevo attirato le loro simpatie. Mi portarono sul posto e a fatica riuscimmo a raggiungere il punto esatto dove il pullmann era caduto. La pioggia, il buio, le sterpaglie, tutto ci ostacolava. Uno strazio. Suoni di ambulanze, urla, voci che si rincorrevano, persone che gridavano tra le luci tremolanti delle torce e poi quei corpi, così ingiustamente ridotti a manichini. “Nessuno ancora lo sapeva ma da poco avevo scoperto di essere incinta.” Nessuno ancora lo sapeva ma da poco avevo scoperto di essere incinta. Quella notte di dolore mi aveva fatto capire improvvisamente, prima ancora di diventarlo, quali potevano essere i sentimenti di una mamma di fronte al corpo del proprio figlio. Sentivo che la febbre saliva e il mal di gola aumentava, ma non riuscivo a distinguere quale fosse il confine tra la malattia e il turbamento per la situazione che stavo vivendo. Finiti gli adempimenti di rito mi recai col maresciallo al comando della stazione dei carabinieri per firmare le ultime carte e prendere in carico il fascicolo. Mi accasciai letteralmente sulla sedia come un sacco e mentre mi svuotavo dentro, fuori mi riempivo. Dottoressa, disse il maresciallo, mi scusi se mi permetto ma sul viso ha tanti puntini rossi. Mi toccai, sentii sotto le dita tanti minuscoli rilievi uno dietro l’altro. Cercai uno specchio per guardarmi; il mio aspetto era davvero orribile. La mattina dopo il medico mi diede la sua diagnosi: varicella. “La mattina dopo il medico mi diede la sua diagnosi: varicella.” Fui costretta a rimanere chiusa in casa per parecchi giorni; diventai inguardabile e divorata da una smania di grattarmi che non potevo calmare se non con rimedi semplici e antichi, ma senza alcun medicinale. Dovevo proteggere te, l’unico scopo di quei giorni. Finita la quarantena, segnata nel corpo, cercai di capire e di essere sicura che per te non ci sarebbero state conseguenze. Nonostante la violenza con la quale la varicella mi aveva aggredita mi assicurarono che tu non avresti avuto problemi. Avevamo vinto insieme una battaglia difficile, non ti avevo perso. Ma la loro sapienza non potè nulla contro il volere della natura. La chiamano atrofia muscolare. È inutile che stia a spiegarti, le mie mani avranno cura di te e i miei massaggi saranno un balsamo per i tuoi muscoli. Non preoccuparti, amore mio; vinceremo anche questa battaglia. Insieme diventeremo più forti. — Non perdete la terza e ultima serata di Non sparate allo scrittore! Domenica 28 dicembre 2014 al Count Basie Jazz Club di Genova. Il tema sarà “Luoghi Comuni” declinato in tre parole chiave: Casa, Chiesa e Cesso.
Domenica 30 novembre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la seconda serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. Il tema generale della serata era Malattie Esantematiche. La squadra vincitrice, la cui parola chiave era Puntini, è composta da Dario Manera, Elena Scappini ed Edoardo Cavazzuti. Di seguito, pubblichiamo il racconto “L’eredità di Prudens Gerhardt” scritto del caposquadra Dario Manera. — L’eredità di Prudens Gerhardt di Dario Manera Gentili signore e gentili signori, benvenuti all’appuntamento annuale della Società Esantematica. Siamo qui convenuti per dare lettura del contributo postumo del Dott. Prudens Gerhardt bisnipote del celebre internista Carl Adolf Christian Jakob Gerhardt che nel 1874 – come ben sapete – scoprì, pur non riuscendo ad attribuirsene la paternità, le piccolissime macchie fugaci simili a capocchie di spillo che, immeritatamente, prendono il nome di Macchie di Köplik. Lo studio di Prudens Gerhardt, non solo rende giustizia al progenitore ma, si spinge ben oltre e, la segnalazione dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze, ne è testimonianza. La ricerca di Prudens Gerhardt supera la convenzione, fino ad ora universal-mente accettata, che stabiliva l’ordine in prima, seconda, terza, quarta malattia (detta volgarmente “scarlatinetta”), quinta, sesta e Malattia di Kawasaki. I parametri consueti vengono smentiti: niente più manifestazioni esantematiche con caratteristica progressione a “nevicata”, insorgenze cutanee dal tipico aspetto di maculo-papule, papille iper-trofiche dalla superficie a lampone che alcuni colleghi insistono a definire “lingua a lampone”, desquamazione, solchi ungueali, pustole sollevate rotonde, tese e dure al tatto, che danno l’impressione come di piccole biglie, puntini e, persino petecchie. La rivoluzione di Gerhardt, signore e signori, eradica non solo i sintomi e l’esantèma correlato ma, le malattie medesime, il loro diffondersi e le piaghe che ne derivano. Vogliate perdonare questa breve sintesi e accogliere, ora, con la doverosa attenzione, il contributo che il Dott. Prudens Gerhardt ci ha lasciato, come incommensurabile eredità. Grazie. Un luogo, o più luoghi, un tempo, degli attori. Tali sono i fattori necessari al virus, per diffondersi. L’esperienza diretta e l’attiva replicazione del fenomeno, soprattutto con l’avvento della primavera, di una porpora piastrinopenica e conseguente esantèma micropapuloso a rapidissima evoluzione con tumefazione delle natiche, dopo avermi prostrato oltremisura, ha dato origine alla mia scoperta. A condurmi alla rivelazione i lunghi periodi di obbligata deambulazione, inevitabili per la suddetta degenerazione. Definito che la malattia non dava immunità ed era altamente trasmissibile, con un tasso di infezione del 90% nelle situazioni di stretto contatto, ho isolato luogo, tempo e attori. La reiterata diffusione, soprattutto a livello inguinale e dei glutei, di piccoli puntini ravvicinati di colore rosa, fu propellente all’indagine. Vano, d’altra parte, ricorrere alla vaccinoprofilassi e all’osservanza rigorosa di un calendario vaccinale poiché, come indicato, il mio corpo subiva periodicamente l’attacco, della prima, poi della seconda, indi della terza, e via di questo passo, con intervallo annuale senza salti nella sequenza dei numeri ordinali. Dopo la sesta primavera sapevo che sarebbe stato il turno della Malattia di Kawasaki e della lingua “a fragola” che tanto mi avrebbe fatto rimpiangere quella “a lampone”. Inefficaci antibiotici specifici e antifebbrili. Infruttuose le procedure di idratazione del corpo e l’ossigenazione degli ambienti. Infondati i normali accorgimenti come evitare le correnti d’aria, indossare guanti di cotone e scongiurare la rottura delle vescicole. Accertata la ciclicità, la virulenza con il crescere dell’età, la pericolosità per i maschi adulti, il rischio grave per i testicoli, la rapida riduzione della protrombina, i danni a livello lombo sacrale e, sine eruptione nella colecisti, indirizzai tutti i miei sforzi nella ricerca. Ma, prima, lasciatemi riassumere come giunsi all’intuizione. Una notte, comparse le prime papule pruriginose, per mitigare il prurito e, quindi, il riflesso di grattamento, assunsi del Lorazepam, noto anche per le proprietà anticonvulsivanti. Le benzodiazepine mi accompagnarono dalla veglia al sonno in breve tempo. Sognai un laboratorio, alambicchi, evaporatori rotanti e distillatori, quanto necessario a scoprire le cause per un’azione inibente la replicazione. “Poi, mi apparve Jenner, Edward Jenner.” Poi, mi apparve Jenner, Edward Jenner. La parola vaccino risuonava, allorché, reminiscenza di studi classici, risalì all’etimo “vacca”, ter-mine latino per mucca. Fu in quel momento che Heidelin-de, mia moglie, mi risvegliò col suo timbro deprecabilmen-te disfonico: “Prudens, Prudens, è l’ora dell’endovenosa”. Decisi, ispo facto, di pormi in rigorosa quarantena, senza afflizione, anche per la miasmatica alitosi di Heidelinde, consapevole che lo scambio di fluidi corporei, costituisse una possibile interferenza negativa alla mia risposta im-mune, poiché meine Frau, mai aveva sviluppato familiarità alla patologia. “Se gli esperti di antropologia ossea hanno rintracciato il transito del virus nella mummia del faraone Ramses V, morto oltre tremila anni fa, perché i resti delle Grandi Spose Reali, Henutwati e Tawerettenru non ne presentano traccia?” Se gli esperti di antropologia ossea hanno rintracciato il transito del virus nella mummia del faraone Ramses V, morto oltre tremila anni fa, perché i resti delle Grandi Spose Reali, Henutwati e Tawerettenru non ne presentano traccia? Erano anch’elle sterili ma pericolosamente contagiose quanto la mia Heidelinde? L’eradicazione, dunque, era possibile, agendo non più sull’epifenomeno, bensì sulla cagione, la matrice, il germe di tutto responsabile… …e qui, purtroppo, si interrompe lo scritto del Dott. Prudens Gerhardt, rinvenuto nell’area a bassa densità abitativa attraversata dal Peene occidentale, Westpeene, a est di Vollrathsruhe dove si era ritirato e visse l’ultima ma, u-nica primavera felice della sua vita. L’intuizione che le consorti, soprattutto quelle infruttifere e per congenie, prive di epiglottide, siano portatrici sane e, dunque, soppri-mibili è, a mio modesto parere, da annoverarsi tra le sco-perte del terzo millennio. Prudens Gerhardt ci ha indicato la via. A noi perseguirla senza infingimenti e ipocrisia. Grazie. — Non perdete la terza e ultima serata di Non sparate allo scrittore! Domenica 28 dicembre 2014 al Count Basie Jazz Club di Genova. Il tema sarà “Luoghi Comuni” declinato in tre parole chiave: Casa, Chiesa e Cesso.