Secondo gli ultimi censimenti, in Germania ci sono dai 67 ai 68 milioni di abitanti e, quindi, 34 milioni di uomini in cifra tonda. Di conseguenza, abbiamo circa 20 milioni di uomini capaci di procreare (…). Se ammetto che ci sono da uno a due milioni di omosessuali, vuol dire che il 7 oppure l’8 o addirittura il 10 % degli uomini sono omosessuali. Se la situazione non cambia, il nostro popolo sarà annientato da questa malattia contagiosa. (dal discorso ai generali delle SS di Heinrich Himmler, 1936) Domenica 2 febbraio 2014 (ore 16:00) Officina Letteraria sarà alla Commenda di Prè per l’evento Leggere la memoria: un reading di otto racconti, pensati e scritti sulla base di documenti e testimonianze storiche, per dare il nostro contributo al Giorno della Memoria. Questa ricorrenza internazionale, stabilita dalle Nazioni Unite nel 2005, cade ogni anno il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico. Una giornata che vuole ricordare tutte le vittime dell’Olocausto: ebrei e omosessuali, disabili, rom e sinti. Il reading si svolge nel luogo che ospita Dimenticare a memoria, mostra di arte contemporanea a cura di Arcigay Approdo. Letture a cura di Emilia Marasco ed Elena Mearini e degli scrittori di Officina Letteraria Giulia Cocchella, Andrea Fabiani, Federica Kessisoglu, Dario Manera, Ilaria Scarioni, Marta Traverso. Ingresso libero.
Perché infilarsi nella tana di Coniglio Bianco di Anselmo Roveda. Scrivere è un piacere, certo. Ma è anche un mestiere. Da fare bene, come ogni mestiere. Mal tollereremmo un idraulico, un panificatore o un elettrauto improvvisati, dopo esserci rivolti a loro non dovremmo avere più sgocciolii nell’acquaio, assaggiare pane sciapo, restare fermi su una piazzola dell’autostrada. Anzi, dopo il loro intervento dovremmo trarre qualche soddisfazione: la quiete terminato lo stillicidio, il piacere di un buon pane, un’andatura sicura e fluida dell’autovettura. Nello stesso modo accostandoci alle pagine scritte da un autore dovremmo poter trarre soddisfazione: l’incontro con una storia dotata, intimamente e universalmente, di senso (anche il fantastico e il surreale lo hanno) inteso come coerenza, efficacia, piacevolezza, domanda. Non necessariamente risposta, certo domanda. E il senso della scrittura risiede non tanto, o non solo, nella storia da raccontare ma nella pertinenza della lingua scelta per raccontarla. E il senso della scrittura risiede non tanto, o non solo, nella storia da raccontare ma nella pertinenza della lingua scelta per raccontarla. Storie belle da raccontare ne è pieno il mondo, abbondano nelle teste, nei cassetti e negli hard disk degli scrittori o aspiranti tali, in quelli dei professionisti come in quelli degli inediti. Le belle storie, le buone idee, diventano buoni libri quando si sostanziano nella scrittura. Una scrittura che non è solo lingua; qui intesa come quella che apprendiamo da bambini con fatica, seppur inconsapevoli, e usiamo da adulti, ormai abbandonata la fatica, spesso, ahimè, altrettanto inconsapevoli. La lingua scritta è altro, è opportuno esercizio di fatica, di lavoro. Da auspicarsi leggero e piacevole, ma pur sempre lavoro. Ingeborg Bachman in Letteratura come utopia (Adelphi 1993) scrive: “Noi tutti crediamo di conoscerla, la lingua, e, infatti, l’adoperiamo. Non così lo scrittore, lui, lui soltanto non può adoperarla”. “Noi tutti crediamo di conoscerla, la lingua, e, infatti, l’adoperiamo. Non così lo scrittore, lui, lui soltanto non può adoperarla” Dovrà recuperarla, “riportarla in vita seguendo un rituale”, giusta e pertinente per la storia che vuole raccontare, per il mondo che vuole rappresentare. Antonio Pennacchi, in occasione della riedizione di Mammut (Donzelli 1994, ora Mondadori 2011), ha più volte raccontato come quel suo primo libro, scritto in un anno, abbia impiegato oltre cinquanta rifiuti, otto anni di riscritture e una limatura di quasi duecento pagine prima di trovare collocazione e fortuna. Non era il mondo editoriale a complottare alle spalle dell’esordiente senza blasone o l’incuria di editor distratti e poco scrupolosi o ancora lo stigma dello scrittore o più semplicemente un’iniqua sfortuna ad agire; no, il testo, dice oggi Pennacchi, aveva bisogno di diventare altro, oltre l’idea narrativa doveva farsi scrittura, libro, letteratura. Il ben più acclamato Jack London di rifiuti ne ricevette parecchi. Quando si parla di letteratura per ragazzi, poi la faccenda si fa ancora più spinosa. Le questioni di pedagogia e psicologia dell’età evolutiva, quando non di didattica e morale, invadono, non prive di qualche legittimità, il campo. In agguato – e chi ha esperienza di redazioni lo sa bene – ci sono edificanti racconti della nonna, vari ammaestramenti, mielose storielle sui buoni sentimenti, coniglietti paffuti e fatine eteree, scritture a tesi (dove il “male” non è la tesi ma la poca cura che viene posta nel condurla a esito, come se la tesi fosse sufficiente in sé per fare letteratura). Toccherà allora scomodare l’abusata citazione di Dino Buzzati: “Scrivere per ragazzi è come scrivere per gli altri, solo più difficile”. La difficoltà inoltre si articola e moltiplica. Oltre al far letteratura in prosa o in poesia, qui, nell’editoria per ragazzi, incontriamo anche un linguaggio altro – quello che investe i picture book – che mette in gioco tutta la sfera progettuale del libro, l’interazione in interdipendenza di testo e immagini. Ma fermiamoci, per ora, alla scrittura; non alla sinergia con l’illustrazione. La scrittura dei picture book è altro, prevede processi creativi e compositivi indipendenti e propri. La difficoltà, nel ragionare intorno a scrittura e ragazzi, sembra inoltre stare nel destinatario. Altri rischi sono in agguato, questa volta proprio linguistici. Una tendenza a semplificare non verso chiarezza ma verso banalizzazione, un accostarsi ai bambini “abbassandosi” e non “calibrando”, che rischia di coinvolgere anche professionisti della scrittura quando scelgono un interlocutore infantile. Minacciosi e inopportuni spuntano discorsi diretti al lettore, “cari piccoli amici…”, di ottocentesca memoria. Lo scrivere per bambini non è scimmiottare una nostra lontana e vaga idea d’infanzia tutta colorata e dolce, è invece raccontare buone storie in una buona lingua, pertinente appunto. Raccontare buone storie in una buona lingua, pertinente appunto. Non parlare una lingua-bambina (esiste poi? E davvero è così sciocchina come certi adulti immaginano?), ma essere capaci di assumere punti di vista, questi sì rintracciabili nella memoria infantile di ciascuno. Beatrice Masini, in un’interessante intervista pubblica sul n. 186 (nov. 2010) della rivista francese “Nous voulons lire!”, dice: “Sono diventata un’autrice per l’infanzia perché mi sono resa conto che la maggior parte delle storie che scrivevo – allora avevo ventanni – avevano come eroi dei bambini e dei ragazzi. Si trovano bambini e ragazzi anche nella letteratura per adulti, ma la differenza, credo, è il punto di vista: se tu assumi il punto di vista d’un bambino o d’un ragazzo e ti poni la questione di calibrare la scrittura sulla sua voce, sul suo sguardo sul mondo, allora scrivi per ragazzi”. Apparentemente semplice. Schietto e vero, convince. È in questa semplicità, ponderata e linguisticamente laboriosa, che si risolve quella maggior difficoltà espressa da Buzzati. La riflessione sullo scrivere per i bambini, ma anche con i bambini, sul fare poesia con loro, sul fare loro scrivere – e qui oltre il mestiere, rientrano prepotenti anche le dimensioni, care agli scrittori, della creatività e dell’espressione – vive oggi un buon momento. Non mancano le occasioni per approfondire visioni e metodi. Ricordando sempre che fantasia, estro, talento e creatività da soli contano poco davvero, vanno piuttosto coltivati e accompagnati con una ricca biblioteca di letture, una solida cassetta degli attrezzi, qualche trucco del mestiere, tanto lavoro, una buona
Recensione di Sara Boero. Ci sono lettori voraci e appassionati che non hanno mai esplorato l’universo del fumetto, ritenendolo lontano dai propri gusti e dai propri interessi. Questa larga fetta di lettori sta inconsapevolmente perdendo l’opportunità di scoprire dei romanzi meravigliosi. Alan Moore può essere un ottimo punto di partenza per appassionarsi a questa forma narrativa. Naturalmente sarebbe impossibile compilare una “guida” esaustiva sui migliori romanzi a fumetti: ho scelto di restringere l’oggetto di questo post ad Alan Moore, il mio autore di graphic novel preferito. Per un lettore che si avvicina al mondo del fumetto può essere un ottimo punto di partenza per appassionarsi a questa forma narrativa un po’ diversa ma sicuramente ricca di tesori meritevoli di essere scoperti. Watchman. Alan Moore è giustamente considerato uno degli autori più importanti, complessi e affascinanti di questo settore. Se siete incuriositi dal mondo dei supereroi vi consiglio di cominciare da Watchmen: un romanzo a fumetti atipico, profondo, popolato da una galleria di personaggi borderline e sfaccettati. Uscita originariamente in dodici albi mensili per DC Comics tra il 1986 e il 1987, la serie è stata ripubblicata in Italia anche in un volume unico (decisamente imponente: i romanzi a fumetti sono una maledizione per i lettori da spiaggia e fanno la felicità dei lettori da scrivania). From Hell. Se i supereroi non fanno per voi, nemmeno nelle loro vesti umane e tormentate, può essere che troviate più interessanti gli antieroi. Mi sbilancio: From Hell è probabilmente il mio romanzo a fumetti preferito. I dieci albi che lo compongono hanno avuto una genesi più lenta (1991-1996), ma sono stati anch’essi raccolti in un unico, comodo, Dinosauro Da Libreria. Si tratta del racconto di un’ipotesi sulla vera identità di Jack lo Squartatore, autore degli efferati delitti irrisolti di cui è stata teatro la Londra vittoriana. Questo lavoro è frutto dello studio di anni sul caso, da parte di Alan Moore, che oltre ad essere scrittore è uno storico e un letterato coltissimo, molto esperto in particolare di occultismo ed esoterismo. Il risultato è un’ipotesi verosimile e convincente, storicamente accurata e documentata, ma anche avvincente dal punto di vista giallistico e narrativo. Colpiscono la fantasia del lettore anche i numerosi collegamenti tra gli eventi più diversi accaduti a Londra durante il periodo di “attività” dello Squartatore: sono gli anni di Elephant Man, sono i mesi in cui il “circo” di Buffalo Bill portava il suo spettacolo nella capitale inglese. La Lega degli Straordinari Gentlemen. Sull’accavallarsi storico degli eventi e delle leggende gioca anche La Lega degli Straordinari Gentlemen, che vede come protagonisti i personaggi di fantasia di romanzi famosi ambientati in epoca vittoriana (dal Capitano Nemo, al dottor Jekyll ad Allan Quatermain). Il fumetto era meglio. Un dato curioso: sia da tutti i fumetti citati che da altri due dello stesso autore (Constantine – di cui Moore non è autore ma ideatore originale del personaggio, e V per Vendetta) sono stati tratti dei famosi blockbuster, in certi casi di buon livello in certi altri di qualità catastrofica. I risultati cinematografici ispirati ai fumetti mi spingono ad una riflessione. Mi è capitato di trovare film che “arricchissero” e “migliorassero” in qualche misura il romanzo da cui erano tratti (sto pensando per esempio a Fight Club, Arancia Meccanica o Shining). A mio gusto, però, non ho mai riscontrato un risultato analogo nei film tratti da fumetti: mi sembra sempre che il livello, per quanto buono, si abbassi rispetto all’originale, mentre con i romanzi è possibile il contrario. Voi cosa ne pensate?
Su Fotografie, Fotopagine e Fotocose. Un post di Giulia Cocchella. Voglio fotografare le nuvole, disse Alfred Stieglitz quasi cent’anni fa. Prese in mano la sua Graflex, si mise in posa (lui, il cielo no, si mettesse un po’ come voleva, il cielo) e da quel momento io credo che la storia della fotografia abbia preso una piega diversa. I suoi Equivalents li pubblicò in serie, accostandoli ad altre fotografie che ritraevano particolari del mondo naturale: li espose insieme a formare un discorso per immagini che fosse, appunto, equivalente al suo sentire. li espose insieme a formare un discorso per immagini Penso a questi orizzonti, a questi intenti così lontani nel tempo, quando guardo le fotografie di Patrizia Traverso. È chiaro che si potrebbe fare un lungo elenco di differenze, ma mi pare di ritrovare lo stesso desiderio di narrazione per accostamento, nonché l’intenzione di usare la fotografia non solo come documento, ma soprattutto come mezzo per ritrovare lo stupore di fronte al già visto, si tratti di un cielo di nuvole o di una palma in mezzo al deserto. “Più che fotografa pura, mi reputo assemblatrice”, dice di sé Patrizia Traverso. Le sue Fotopagine sono in effetti accostamenti di fotografie e testi letterari, poetici, filosofici: le foto, piegate come le pagine di un libro aperto, sono montate su telai di acciaio che fanno da supporto anche alle parole scritte. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: lo scatto è pur sempre l’istantanea di un momento che resta immobile. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: Anche la serie Fotocose ha origine da un’idea combinatoria: oggetti e fotografia. L’oggetto evoca il ricordo e lo rafforza, gli conferisce una terza dimensione, mentre per noi che guardiamo, che non conosciamo bene la storia, genera incidenti fantastici, narrazioni supplementari. È bello lasciarsi guidare e poi perdersi in questi percorsi del ricordo e del sogno. Fotografa di parole, l’hanno definita, ma anche dell’ineffabile, del vento, di ciò che non si mette in posa. Fotografa di suggestioni dai versi di Giorgio Caproni, cui ha dedicato, insieme a Luigi Surdich, “Genova ch’è tutto dire”: un sensibile lavoro fotografico, a metà strada tra l’illustrazione nel suo significato più ampio e la poesia per immagini. Siate curiosi: andate a vedere. L’invito implicito è trovare collegamenti: fili sottili tesi tra le immagini e le parole, tra gli oggetti e le immagini, che legano ciò che vediamo a ciò che sappiamo di noi, utilizzando un processo che a pensarci bene è quello tipico della memoria. “Lo scatto è l’attimo che hai colto e che memorizza l’istante”, dice Patrizia della fotografia, “la messa a fuoco precisa di un’idea”, gli fa eco Stieglitz da lontano.
Recensione di Sara Boero. Lui è tornato è un romanzo inclassificabile: fantascientifico, fantapolitico, irriverente, attuale. Divertente, di quel divertente da brividi lungo la spina dorsale. Basato su una premessa surreale da accettare proprio così come ci viene proposta: nella Germania di oggi Hitler si risveglia. In senso letterale. In un campetto sportivo di Berlino. Il suo ultimo ricordo è che si trovava nel bunker con Eva Braun, poi… il buio. Un lunghissimo buio di quasi settant’anni. La Germania è cambiata, il mondo è cambiato, lui non è cambiato. Ed è tornato. Il suo ultimo ricordo è che si trovava nel bunker con Eva Braun, poi… il buio. Un lunghissimo buio di quasi settant’anni. La Germania è cambiata, il mondo è cambiato, lui non è cambiato. Ed è tornato. Perché lo consiglio a un lettore: Perché Lui è tornato è un libro che ti apre gli occhi sugli abissi in cui rischia di precipitare una nazione durante una crisi globale. L’Hitler redivivo, nel romanzo, compie una funambolica scalata al successo grazie all’attenzione dei media: nessuno, ovviamente, crede che si tratti del vero Hitler. Viene creduto un abilissimo imitatore, un comico, un provocatore dalla satira tagliente. E finisce per ritagliarsi una folla di ammiratori sempre più grande grazie alla televisione, avendo però chiaro in testa un unico obiettivo: ricostituire il Terzo Reich. Lo consiglio, perché Lui è tornato, edito da Bompiani, riesce contemporaneamente nel duplice, difficilissimo obiettivo di far ridere e intrattenere mantenendo il cervello in stato di allerta. In certi momenti, in stato di allarme. Perché lo consiglio a uno scrittore: Ci sono due importanti motivi, secondo me, per cui uno scrittore dovrebbe leggere questo romanzo. Il primo ha a che vedere con la costruzione del personaggio: Lui è tornato è raccontato in prima persona da Adolf Hitler. Un Adolf Hitler assolutamente coerente con il personaggio storico, che però riesce ad essere in qualche modo anche una macchietta di se stesso, senza perdere credibilità. Lo straordinario equilibrio tra la figura storica e la caricatura è uno dei punti di forza di questo romanzo, e sicuramente una lezione da imparare. Una lezione raffinata e difficile. C’è anche, però, una lezione “semplice”: la libertà della scrittura. Il nome di Hitler in Germania fa ancora molta paura e molto effetto. Timur Vermes, al suo esordio alla narrativa, ha avuto il coraggio di farlo tornare: di mettere una nazione intera faccia a faccia con i suoi incubi in maniera elegante, ironica, ma anche crudele. In questo senso è sicuramente un esempio da seguire, a qualsiasi livello: Lui è tornato non è motivato dal “bisogno di provocare”, ma dall’onesta urgenza di una storia da raccontare. Lo consiglio, perché è stato l’esordio che mi ha convinto di più nel 2013 e nel 2015 ne è stato tratto un film.
Perché leggere Terry Pratchett di Barbara Fiorio. Per dare il titolo al Laboratorio di Scrittura Ironica che ho tenuto nel novembre 2013 a Officina Letteraria, ho scelto una frase di Terry Pratchett, presa da uno dei suoi ultimi libri tradotti in Italia, Tartarughe divine. Avrei potuto citare Pirandello, Calvino o Flaiano, avrei potuto tuffarmi negli aforismi di Wilde, avrei potuto scomodare Rabelais o persino Shakespeare. Tutti scrittori che hanno fatto dell’ironia, del sarcasmo, dell’umorismo sottile, ma anche della comicità, capolavori della letteratura. Il sarcasmo con certe persone è utile quanto lanciare meringhe a un castello E invece ho voluto rendere omaggio, un minuscolo omaggio, a un autore tra i più conosciuti nel mondo anglosassone, tradotto in 37 lingue, in milioni di copie. Di premi, riconoscimenti e lauree honoris causa ne ha piene le mensole, grazie ai quaranta libri che ha pubblicato negli ultimi trent’anni. Eppure, solo la metà è stata tradotta in Italia. Potrei parlarvi almeno di questi venti, direte voi, o almeno di uno di questi venti, ma prima vorrei spiegarvi perché secondo me Terry Pratchett lascerà un’impronta indelebile nella letteratura del nostro tempo (di che forma sia poi quell’impronta, ha poca importanza). Fa ridere alle lacrime. Fa ridere. Certo, fa ridere. Fa ridere alle lacrime, fa ridere in modo intelligente, colto, sottile. E fa sentire intelligenti mentre si ride, fa sentire adulti anche se si parteggia per un troll. Incanta con il suo sarcasmo, con la raffinatezza delle metafore, con l’eleganza nel toccare qualsiasi tema, dalla politica alla religione, dalla filosofia alla superstizione, dal sesso alla magia, dalla storia alla morte. Conquista con la sua genialità, con i giochi di parole e perché non è mai scontato. Lui soffia sulla mediocrità umana e la eleva fino a renderla commovente, se gli va. Fa il giocoliere con i dubbi e le paure, con i meccanismi della gente comune e con le astuzie di chi governa il mondo, e non si pone il problema di raccontare le sue storie in mezzo a draghi, golem o gilde di assassini. Anche Goethe è Fantasy. Chi ha bisogno di definire il genere, lo definisce fantasy. Sarà. Allora sono fantasy anche Goethe, Shakespeare, Dante e Omero. Se avete voglia di scoprirlo, seguite le sue Guardie cittadine su Mondodisco, partendo da A me le guardie!, Uomini d’arme e Piedi d’argilla. Oppure leggete Streghe all’estero, dove tre streghe irresistibili e un gatto sono alle prese con un lieto fine imposto da una fata madrina dittatrice, o Morty l’apprendista, dove la Morte – che parla rigorosamente MAIUSCOLO – cerca un apprendista per andare in vacanza tra gli umani, o Il tristo mietitore, dove la Morte viene licenziata (e noi tifiamo per lei). Ma se volete uscire da Mondodisco, fate amicizia con Il piccolo popolo dei grandi magazzini, dove i Niomi (sic!) cercano rifugio in un grande magazzino che si rivela essere un mondo a sé, con strutture sociali e religiose ben precise. E se vi incuriosisce vedere come se la cava Terry Pratchett insieme a un altro grande autore come Neil Gaiman, be’, non mi resta che augurare: Buona Apocalisse a tutti.
Dedico alle donne, in questa giornata, la riflessione di un uomo, grande scrittore, Giuseppe Pontiggia, tratta dal suo libro “Prima persona” (Mondadori, 2002). Vi si parla in particolare di stupro, della sua infamia, ma vale per ogni violenza. Laura Bosio Ideologia e pratica dello stupro Giuseppe Pontiggia Per frenare l’aumento di diffusione, se non di popolarità, di questa infamia del maschio umano, forse occorrerebbe sottolinearne l’abiezione che manifesta, l’inferiorità che cela, la sconfitta che esprime. Se c’è un gesto in cui l’uomo annienta nel loro contrario tutte le qualità di cui si è tradizionalmente fatto vanto è proprio la violenza immotivata e impunita contro una innocente indifesa. Forse occorrerebbe insistere sulla viltà dello stupratore, simmetrica alla connivenza inconfessata di certi giudici che erogano pene miti, anziché condanne durissime. Perché tanto riguardo? L’indulgenza, in alcuni casi, è criminale come lo sfregio inferto per sempre alla persona. Bisognerebbe togliere al gesto ogni alibi psicologico che pure, in modi trasversali, evidentemente sussiste. L’indulgenza, in alcuni casi, è criminale come lo sfregio inferto per sempre alla persona. Bisognerebbe togliere al gesto ogni alibi psicologico che pure, in modi trasversali, evidentemente sussiste. Io credo non tanto alla efficacia dello sdegno, che spesso si compiace di sé, quanto a un movimento di idee cui tutti – dalla scuola alla chiesa, dalla stampa allo spettacolo – diano un contributo per coprire di disprezzo lo stupro. E i comici potrebbero coprire di ridicolo chi vede in quell’atto una affermazione di sé. Sappiamo che l’appello etico viene talora degradato a moralistico per poterlo ignorare. Ma lo scherno e l’irrisione hanno radici più profonde nella psiche. Contro l’ingiuria si può combattere, ma contro il disprezzo e il ridicolo no. Causano ferite che non si cicatrizzano. È su questa nevralgia della interiorità che occorre agire. Essenziale è negare allo stupro quella complicità occulta che ancora suscita presso molti uomini e restituirlo alla sua natura miserabile.
“La porta” di Barbara Fiorio. L’urlo di suo marito, una fitta al torace, il freddo del marmo e quel denso bisogno di lasciarsi scivolare nel buio della perdita dei sensi. Poi il pianto di suo figlio lì, sul pianerottolo, e la forza sufficiente per alzarsi e sorridere a quei cinque anni a piedi nudi, con gli anatroccoli sul pigiama azzurro e il viso di lacrime e muco. Inghiottì il sapore del pugno, recuperando il fiato per confortare il bambino. Andava tutto bene, gli sussurrò abbracciandolo, stringendo gli occhi per contenere il dolore. Papà era solo nervoso, e lei non sarebbe andata via. Lo aveva detto ma non lo pensava davvero. Andava tutto bene. Il vicino richiuse la porta.
“Debole” di Sara Rattaro. Il debole sei tu. Lo sei mentre mi tratti male, mentre usi la tua unica lingua, la violenza, mentre credi che la mia paura sia la tua più intima alleata. Lo sei mentre fai finta di nulla quando siamo tra gli amici o quando cambi canale alla televisione se si parla di qualcuno che potremmo essere noi. Lo sei quando mi minacci di non fiatare e mi colpisci solo dove non si può vedere, lo sei mentre sfuggi agli sguardi dei nostri figli e ti chiedi perché mai loro ti stiano così lontani o mentre cerchi di allontanarmi da chiunque credi mi possa aiutare. Ma lo diventi soprattutto quando credi che ciò che fai sia giusto e che se non me ne vado è solo perché tu sei più importante di tutto. Ma lo diventi soprattutto quando credi che ciò che fai sia giusto e che se non me ne vado è solo perché tu sei più importante di tutto. Non è così, lo faccio solo perché ho paura che qualcun altro possa pagare la tua ira, tutta la tua fragilità perché il debole sei tu. Io ho visto l’inferno e ora non c’è nulla che mi possa fermare, nulla davanti al quale io mi senta di dover abbassare lo sguardo. Per questo motivo tutti sapranno che il debole sei solo tu.
Sulla condanna alla violenza contro la donna: una riflessione di Elena Mearini. Ormai, venire a conoscenza dei molteplici atti di violenza inflitti alle donne, non è più sufficiente, e dovrebbe non esserlo mai stato. Occorre assumere in sé tutto il non senso di un’ingiustizia che ancora trova uno spunto per esistere. Occorre farsi personalmente carico di una piaga che va definitivamente debellata, una piaga opposta e contraria al segno di sacrificio e santità. Una piaga d’intollerabile dolore e inammissibile follia. In quanto donna, mi trovo invasa da una volontà feroce di scendere per le strade e gridare un Viva a tutto il femminile che marca il mondo. Bisogna unirsi in uno sforzo corale capace di spaccare i vetri della paura. Uno squarciagola così potente da perforare tutte quelle sordità che portano all’indifferenza. Fuori le voci, dunque. Bisogna unirsi in uno sforzo corale capace di spaccare i vetri della paura Perché il silenzio non è altro che consenso alla mano dell’ennesimo uomo che colpisce l’ennesima donna. Pene più severe, Arresto per stalking, Vittima informata sull’iter giudiziario, Querela irrevocabile, Aggravanti per coniuge e compagno anche non conviventi. Questi, alcuni dei punti chiave della nuova legge contro il femminicidio e la violenza di genere. A leggerli, viene da chiedersi il perché non siano stati considerati ed applicati fino ad ora. A leggerli, nasce indignazione e sconforto di fronte a una giustizia colpevole di un ritardo che non ammette giustifica. A leggerli, dobbiamo indignarci di fronte ai Meno male, Era ora, Finalmente. Indignarci affinché in ognuno di noi sorga irrinunciabile la domanda “Dove siamo stati fino a questo momento?”. La società (ossia il Noi che dovremmo essere) non può più permettersi di stare sempre un poco più in là di una vita maltrattata.
Recensione di Sara Boero. Mettiamo che io voglia convincervi che non esistono barriere tra la letteratura per ragazzi e quella per adulti. Volete davvero che vi consigli Alice nel paese delle meraviglie o Il mago di Oz? O preferireste offrirvi come sacrificio umano piuttosto che scoppiarvi due classici triturati e sminuzzati da TV, cinema, topolini e merchandising per tutto il ventesimo e ventunesimo secolo? Vi capisco, credetemi. E vi capisce anche Neil Gaiman, il più famoso autore contemporaneo tra quei pochi paladini della libertà artistica che lottano per abbattere ogni muro tra generi, mezzi di comunicazione e linguaggi. Un libro straordinario. Nessun dove è un libro straordinario, pirotecnico, in cui l’universo fantastico e l’immaginario infantile sono perfettamente calati in un mondo urbano, crudo e adulto. Non aspettatevi pasticci per signorine alla Twilight: qui gli incubi sono incubi veri, le leggende prendono vita e i sogni diventano reali nel modo più intrigante (e disturbante) possibile. L’ho consigliato l’anno scorso ai Laboratori di lettura di Officina Letteraria. Perché lo consiglio a un lettore: Perché è un bel libro. Primo. Perché è un racconto di formazione, se vogliamo “al contrario”, che ci fa intraprendere un viaggio nel tempo per tornare bambini pur restando adulti. Il protagonista, un ragazzo di provincia trasferitosi a Londra, si trova costretto a calarsi nella Londra di sotto. Una città sotto la città, in cui l’impossibile è all’ordine del giorno e gli angeli vivono con le creature mitologiche, i mendicanti, i guerrieri e i re delle carrozze di treni della metropolitana in disuso. Il confronto con il buio, con i nostri peggiori incubi e con la paura è uno dei temi più toccati da Neil Gaiman in tutta la sua produzione: ricordate Coraline e i suoi mostri con bottoni al posto degli occhi? Se sì, siete preparati al peggio. E soprattutto siete pronti ad abbandonarvi a questo straordinario omaggio alla letteratura classica per ragazzi e a riscoprire luoghi della vostra infanzia che forse avevate dimenticato. Vi lancio un nome: Marchese di Carabas. La prima volta che ho letto Nessun dove alla comparsa di questo personaggio sono rimasta con un punto interrogativo in testa. Non mi ricordavo proprio dove lo avessi già sentito. E quando mi è tornato in mente mi sono detestata per essermelo scordato. Perché lo consiglio a uno scrittore: Prima di tutto perché la genesi di questo libro è molto “educativa” per chiunque scriva o voglia scrivere. Nessun dove è uscito in almeno tre versioni successive ed è nato come sceneggiatura televisiva per una serie della BBC. Gaiman non era soddisfatto del risultato sullo schermo e ne ha tratto un romanzo, su cui ha rimesso le mani più volte nel corso degli anni, facendo ristampare e ritradurre il volume in edizioni diverse. Gaiman-non-era-soddisfatto-del-suo-lavoro. Gaiman. Non so se il messaggio è chiaro. Quasi sicuramente se siete soddisfatti della prima stesura di una vostra opera state facendo un errore, perché potrebbe migliorare. Ritornare al lavoro su un libro finito è molto difficile (a volte anche psicologicamente) ma per fortuna ci sono i lettori e gli editor, quell’occhio esterno e fresco che può aiutarvi a capire dove il testo è debole. Non fidarsi di questi pareri, o pensare che la propria Opera Immortale Sia Intoccabile, è una presunzione gravissima che per il bene dei vostri libri non dovete assecondare. Fidatevi degli altri: la scrittura è condivisione, è lavoro prima di tutto individuale ma poi anche collettivo, nel momento stesso in cui qualcuno vi legge. Secondo punto di forza: la struttura del romanzo riprende le funzioni di Propp in maniera fedelissima, da manuale. Leggere “Nessun dove” è un ottimo modo per rinfrescare gli archetipi della fiaba e della narrazione tradizionale, e poterli utilizzare con maggiore scioltezza e cognizione la prossima volta che vi siederete al computer.
La Chinaski Edizioni è una casa editrice indipendente fondata a Genova nel 2004 e lentamente affermatasi come una delle più importanti in Italia nell’ambito della saggistica musicale. In questa intervista a Federico Traversa, direttore editoriale e socio fondatore di Chinaski, si parla di avventure imprenditoriali, percorsi umani, consigli ad aspiranti scrittori, crisi e ricette per uscire dalla crisi. Come nasce Chinaski Edizioni? Il nucleo originario eravamo io e un gruppo di amici: all’epoca facevamo tutti dei lavori pessimi, precari e sottopagati. Io ad esempio lavoravo in una fabbrica: scaricavo delle latte e non avevo idea di dove andassero a finire. Però tutti avevamo un sogno, il sogno di occuparci di letteratura e di far sentire la nostra voce. Io scrivevo: avevo pubblicato un libro per pura fortuna, così mi è venuta la voglia di provare a riunire tutti questi miei amici un po’ disgraziati come me in una realtà solida, di fare qualcosa di diverso. A Genova non c’era molto. Abbiamo tentato e le cose sono arrivate. Per noi è stato tutto magicamente casuale. Io ho scritto un romanzo, questo romanzo è finito nelle mani di Tonino Carotone, tramite Tonino Carotone sono stato in Spagna e ho conosciuto Manu Chao, tramite Manu Chao sono tornato a Genova sono arrivato da Don Gallo, e da lì sono nati libri importanti che hanno permesso alla casa editrice di consolidarsi… è stata una cosa un po’ pionieristica. E fatta a nostro modo. Accennavi ad alcune importanti collaborazioni, come quella con Don Andrea Gallo… Beh, è un po’ difficile parlare di Don Gallo, lui era un gigante… Quando andai da lui la prima volta, proprio mandato da Manu Chao, lui aveva appena pubblicato con Mondadori il libro “Angelicamente anarchico”, che era stato un bestseller. Dopo un po’ che chiacchieravamo io, quasi scherzando, o forse con l’imprudenza della giovane età, gli dissi “dovremmo fare un libro insieme”. E lui mi disse di sì. Non ero assolutamente pronto a questo sì. Però iniziai ad incontrarlo, ad andarlo a trovare, di settimana in settimana, e ad entrare in quella sua umanità senza confini. Un trafficante di sogni a tutto tondo… il frutto di quegli incontri è stato il libro scritto con Andrea, ma anche l’evolversi del progetto Chinaski. Noi siamo un’attività commerciale, che deve vendere libri per campare e pagare gli stipendi, ma dentro abbiamo anche questa voglia di conoscere e camminare con gli altri. Ci sono state altre collaborazioni importanti, con gli Africa Unite ci siamo divertiti, Tonino Carotone è diventato per me un fratello, idem il rapper Vacca, Fabri Fibra, tanta gente. Però Don Gallo… è Don Gallo. In questo momento stiamo vivendo una grande crisi economica mondiale. Quanto viene avvertita nel mondo dell’editoria e che influenza ha? Si sa, tutte le volte che c’è crisi la prima cosa che si va a toccare è la cultura… già così si parte male. Se poi aggiungiamo il fatto che l’Italia è uno dei paesi europei in cui si legge meno il quadro è allarmante. Le grosse catene sono in crisi, le piccole librerie io le chiamo librerie partigiane perché fanno una resistenza incredibile, ma ormai è dura. In Italia tutti scrivono e pochissimi leggono, c’è una situazione disarmante. Però va bene, nessuno ci ha detto che sarebbe stato facile. Io parlo per Chinaski ma anche per tanti amici editori piccoli che conosco… noi sappiamo di essere in trincea e di lottare, e che nessuno di noi si comprerà mai le piscine e le ville, ma neanche ci importa molto. Il fatto però di dare testimonianza di questi tempi, di far sentire le voci interessanti che escono e si alzano oggi è sicuramente di per sé appagante. Detto questo, speriamo che ci mettano una pezza. A proposito delle “voci interessanti” di cui parlavi prima: c’è qualche autore emergente che sei particolarmente orgoglioso di avere pubblicato? In realtà io credo che l’opera sia sempre più importante di chi la crea, fondamentalmente sono orgoglioso di tutti i libri che abbiamo pubblicato. Anche perché mi sono reso conto – ragionando anche sul mondo della musica – che molte volte un musicista ti conquista per un disco ma il successivo è deludente. La stessa cosa per la scrittura o per qualsiasi forma d’arte. Quindi in realtà mi piace pensare all’universo della cultura come a un luogo in cui è sempre più importante l’opera di chi l’ha creata. Anche perché poi, con la mercificazione delle immagini che viviamo oggi, appena qualcuno diventa un “personaggio” viene subito inglobato dal sistema televisivo. Finisce che ti dimentichi perché ci sei arrivato, cioè scrivere libri o fare musica. Ne ho visti troppi ed è un peccato. Ricette, idee per uscire da questa crisi – da un punto di vista editoriale? Dal mio punto di vista non è più una crisi del mondo editoriale, è una crisi di sistema e purtroppo dalla crisi di sistema non si esce tanto facilmente. Bisognerebbe ripartire, per così dire, dall’ABC. Far innamorare di nuovo la gente della letteratura , della buona musica. Far innamorare di nuovo la gente della letteratura , della buona musica. E questo non può andare a braccetto con un rilancio economico immediato.. Una “ripartenza”, se ci sarà, verrà dalle nuove leve, che vanno educate a riscoprire la bellezza e gli insegnamenti che ti può dare un buon lavoro artistico.Andrebbe anche ripensata la filiera editoriale: persistono situazioni veramente insensate. Faccio un esempio: escono valanghe di libri ogni mese. Questo cosa implica? Implica che la libreria è talmente “dopata” da tutte queste uscite che poi è costretta a rendere in tempo zero. Il libro non ha modo di maturare: non c’è neanche il tempo del passaparola, come si faceva una volta. Per il semplice fatto che un libro in libreria – se vendicchia qualcosa – resta che vada bene un paio di mesi. Se parte male quindici giorni e te lo rendono. Addirittura ci sono dei libri che non vengono neanche sballati. Altro problema è la questione che ormai il libraio fa gli ordini in relazione alla popolarità
Questo racconto breve è estratto dalla raccolta “Senza Amore” che ha inaugurato la collana Academy della casa editrice Emma Books. Le parole tabù che hanno dato origine al testo sono: passione, dolcezza, nostalgia, dolore e, ovviamente, amore. “A brandelli” di Federica Kessisoglu. La prima volta che lui la notò era seduto sui gradini della chiesa di fronte al supermercato COOP di via Lazio. Aveva appena finito di controllare i suoi sacchetti, soprattutto quello blu dell’IKEA dove teneva gli oggetti più ingombranti, fragili e preziosi. Un’asse di legno che aveva trovato appoggiata al cassonetto di corso Garibaldi, la statuina in porcellana del pagliaccio che era appartenuta a sua madre, una coperta di lana che gli avevano dato al dormitorio e che non aveva restituito. La borsa blu dell’IKEA era di gran lunga la più resistente tra tutte quelle che aveva avuto, doveva stare molto attento che non gliela rubassero. Era una mattina di fine febbraio e si stava godendo il tepore di un sole pallido e nuovo. Lei era là, in piedi, dall’altra parte della strada, che guardava alternativamente a destra e poi l’orologio. Stava aspettando un autobus con una busta della spesa stretta in una mano e la borsa a tracolla. Fu un particolare preciso che attirò la sua attenzione. Le dita sottili di un vento leggero le avevano sciolto la sciarpa di seta scoprendole il collo bianco e lungo Le dita sottili di un vento leggero le avevano sciolto la sciarpa di seta scoprendole il collo bianco e lungo: una calla, la calla bianca che strappò dal giardino dei vicini per portarla in dono a sua madre. La mamma lo rimproverò e lo punì. Pianse per ore senza capire la sua colpa. La prima volta che lei lo notò era seduta sulla panca di pietra del binario tre in attesa del treno. Quella mattina di marzo era fredda e soffocava una promessa di nuvole blu. Lo vide passare ricoperto di roba: uno zaino unto e sdrucito dal colore indefinibile appoggiato alla spalla destra, un grosso sacchetto blu dell’IKEA su quella sinistra, un altro sacco di tela stretto in una mano e una sporta di plastica mezza rotta legata allo zaino. Si rese conto di averlo fissato troppo a lungo e distolse lo sguardo. L’uomo si sedette all’estremità opposta della sua panca di pietra. Sistemò le sue cose con cura e attenzione di fronte a sé. Continuava a seguirlo con la coda dell’occhio e fu la lentezza studiata dei suoi movimenti ad attirare la sua attenzione. Le ricordò un maestro di Tai Chi. Si girò del tutto nella sua direzione quando lo scorse estrarre un piccolo libro dallo zaino. Il titolo era troppo lontano e, per quanto si sforzasse, non riusciva a distinguere le lettere. L’altoparlante della stazione annunciò il suo treno: il Regionale 342 per… Scattò in piedi anche se mancavano ancora una manciata di minuti prima del suo arrivo. L’uomo rimase seduto e continuò a leggere, gli occhi affondati nelle pagine. D’improvviso sollevò la testa e i loro sguardi si scontrarono. Trasalirono entrambi: la calla e il maestro di Tai Chi. «Le notti bianche di Dostoevskij» disse piano sollevando il libro. «Mi scusi?» «Credo che questa sia la mia cinquantesima ripassata.» Il treno arrivò in quel momento e si intromise di prepotenza. Vi salirono entrambi. Lei lo precedeva e scelse un posto libero accanto al finestrino. I suoi sacchetti occuparono tutte le altre sedute, tranne una dove si accomodò timido di fronte a lei. Aveva l’urgenza di finire una frase e iniziarne un’altra e ancora e ancora. Una signora con cappello maculato e soprabito coordinato gettava loro occhiate oblique. Le raccontò di Dostoevskij e delle Notti bianche, di come la bellezza lo tenesse fuori dai guai, di come il passato lo tormentasse e di come il presente fosse una distesa di acqua profonda e oscura. Lei lo ascoltava stupita, vedeva le sue mani sottolineare le parole, gli occhi chiari sempre alla rincorsa di immagini, la barba incolta e i capelli schiacciati dal berretto di lana blu, che si era tolto poco dopo essersi seduto di fronte a lei. Lei ricambiò parole e gesti. Raccontò della sua vita un po’ solitaria come quella dell’albero spoglio nel cortile. Il passato era prossimo e non la toccava, il futuro un punto di domanda sulla porta di casa. Il treno attraversò tunnel oscuri, luci sottili sui binari, mattoni di fuliggine, nero riflesso sui vetri. All’improvviso cielo e nuvole resero tutto più leggero. Si separarono con calma e sorrisi. All’improvviso cielo e nuvole resero tutto più leggero. Si separarono con calma e sorrisi. La prima volta che lui pensò a lei era una giornata bianca e silenziosa. La temperatura a zero gradi e la neve che cadeva leggera. Quella leggerezza si era fatta pesante quando aveva dovuto raggiungere i gradini della chiesa di fronte al supermercato. Con le mani gelide aveva spazzato via il soffice manto bianco per far posto a sé e alla sua casa racchiusa in zaino e sacchetti. La prima volta che lei pensò a lui si trovava in piedi di fronte alla finestra e fissava un cristallo sciogliersi sul vetro. «Starà bene?» Questo pensiero le sfuggì e arrivò dritto alla bocca dello stomaco. Afferrò la borsa e uscì. Lo trovò lì, lo sguardo perso in mezzo ai fiocchi che gli tingevano barba e berretto. Accanto a lui montagnole di neve nascondevano il suo privato. «Vieni con me? Ti offro un posto caldo dove poter leggere.» Sollevò la testa, la vide, poi si alzò. Si sistemò lo zaino sulla spalla e frugò in mezzo alla neve per afferrare i manici degli altri sacchetti. La seguì in silenzio. Si fermarono di fronte a un portone verde con due pomelli di ottone. Lei faticò un poco a trovare la serratura e a girare la chiave. Lui lo capì. La sua casa lo sorprese: era tutta colorata. Pareti, oggetti, tappeti, mobili. Lui la sognava spesso in bianco e nero. Lo fece accomodare su un divano di stoffa rossa con cuscini verde prato. «Ti
Un bravo scrittore deve scrivere tutti i giorni? Se sì, quante ore bisogna scrivere al giorno? Alzi la mano chi non si è mai posto questa domanda. Proviamo però con questa, più difficile: quante parole bisogna scrivere al giorno? Una cartella sono 1.800 battute, fate voi i conti in base al tempo, alle energie e all’ispirazione che quotidianamente potete dedicare. C’è chi ha trasformato la costanza nella scrittura in un gioco, forse un po’ sadico ma interessante: nel 1999 una ventina di scrittori californiani si sono radunati a San Francisco e si sono impegnati a scrivere, ciascuno, 50.000 parole in un mese. Calcolatrice alla mano, tenendo a mente i pochi dati numerici a disposizione e il fatto che (come ci insegna la filastrocca) 30 giorni ha novembre, significa una media di 1.667 parole al giorno. Da qui è nato NaNoWriMo, acronimo di National Novel Writing Month. Ogni anno, a novembre, scrittori di tutto il mondo si cimentano in questa sfida. Scrivere in un mese una storia di almeno 50.000 parole. Un giorno, un amico trova James Joyce riverso sullo scrittoio, in atteggiamento di profonda disperazione: «James, che cosa c’è che non va? È il lavoro?» James asserì, senza nemmeno alzare la testa. «Quante parole hai scritto oggi?» «Sette» «Sette? Ma James… è ottimo, almeno per te!» «Suppongo di sì, ma non so in che ordine vanno.» Il tema e il genere sono liberi, l’unico requisito è appunto la lunghezza. Chiunque può partecipare: basta iscriversi al sito web di NaNoWriMo e caricare man mano il proprio lavoro su un apposito spazio, che automaticamente produce il conto alla rovescia verso l’obiettivo delle 50.000 parole. NaNoWriMo è l’esperimento ideale per chi ha un romanzo in testa – o comunque un’idea narrativa di un certo spessore – ma per un motivo o l’altro ha sempre rimandato l’inizio della scrittura vera e propria. Ogni anno partecipano circa 200.000 persone, per un totale (dato riferito al 2010) di 2.872.682.109 parole scritte in un mese. L’obiettivo è ambizioso e non c’è tempo per fermarsi a valutare dove mettere la virgola, se quella parola lì è giusta o se la trama regge. Per la qualità della storia ci sarà tempo. Lo scopo di NaNoWriMo è dare valore alla scrittura di pancia, di getto. Non si vince niente, a parte una considerevole dose si soddisfazione personale: chi supera la sfida arriva alle 23:59 del 30 novembre con un romanzo fatto e finito, da revisionare prima di tentare la fortuna della pubblicazione. Dal 2006 a oggi, oltre 100 romanzi NaNoWriMo sono stati pubblicati da case editrici in vari Paesi. Chissà se Bukowski, Roth, Borges e così via ci arrivavano, a scrivere 1.667 parole al giorno.
In questo breve post, Federica Pontremoli svela lo spirito con cui intende condurre Scrivere un corto, il laboratorio sul cortometraggio in partenza il 16 novembre 2013. Piccolo film, grande impresa. di Federica Pontremoli Un cortometraggio è un piccolo film. Ma piccolo non significa facile, anzi. Fare un piccolo film è una grande impresa! E allora partiamo dalle fondamenta dell’impresa: la scrittura. Prenderemo una storia: una storia che avete dentro e che avreste sempre voluto raccontare, una storia che avete sentito da un amico e pensate che sia una buona idea per un film, una storia rubata dai racconti di nonni, zie, figli e nipoti. Oppure una storia che, semplicemente, vi siete inventati. Insieme faremo un percorso per costruire al meglio la struttura di questa storia, scegliere il miglior punto di vista, descrivere i personaggi e creare un copione che possa diventare un grande piccolo film di dieci minuti. Vedremo film lunghi e corti da cui impareremo a riconoscere la buona scrittura al di là delle immagini, inizieremo a scrivere poche righe per distinguere una buona idea da una meno buona. Poi scriveremo sempre più pagine per definire i nostri personaggi, poi scriveremo ancora più pagine per trovare un buon inizio, un buon finale… fino a quando avremo le migliori dieci pagine di sceneggiatura che mai avremmo potuto immaginare di scrivere. Dimentichiamo le definizioni di scuola, corso, seminario, laboratorio… Il nostro sarà un viaggio nel mondo delle idee in cui la scrittura sarà l’ultimo passo di un processo largo, creativo divertente e intelligente. Vai al laboratorio “Scrivere un corto”