“Nel dolore” – intervista a Alessandro Zannoni

Il Far West non è una vecchia storia con cavalli, cowboy, sparatorie dentro i saloon e bicchieri di whisky. Il West esiste ancora, il Texas c’è ancora, e dentro al Texas e le sue strade polverose può capitare di trovarci ancora qualche sceriffo oscuro a caccia di vendetta. Basta seguire le orme degli pneumatici, le impronte degli stivali, le scie di bossoli, ci vuole poco per caderci dentro con due piedi, come nello sterco… “Nel dolore” di Alessandro Zannoni Certo: i cowboy non viaggiano più per il paese in groppa ai loro destrieri, ma usano pickup scassati; le pistole però sono cambiate poco, e fanno sempre molto male. Questi sono i presupposti d Nel dolore (A&B editrice) di Alessandro Zannoni, autore nato a residente a Sarzana, con diverse pubblicazioni alle spalle. Nel dolore è il secondo romanzo che ha come protagonista Nick Corey, un italo-americano immigrato in Texas, figlio di una madre che parla una lingua mischiata tra inglese, italiano, il messicano e quella dei nativi. La prima volta Nick Corey è apparso nel 2011 in Le cose di cui sono capace, uscito con Perdisa Editore. La gestione della collana era già in mano a Antonio Paolacci (tra le altre cose, maestro di Officina Letteraria), erede naturale di Luigi Bernardi, e Antonio ne curò anche l’editing. «E con Stella come va». Alzo gli occhi dal piatto e la guardo serio. «Bene, ma’. Le cose vanno bene». «Cercherai anche stavolta di sposarla, io credo». «Credo che sì, quella è l’idea. Ma stavolta me lo ha chiesto lei», dico facendole un mezzo sorriso vincente. «Quindi sei tu quello che scapperà con i motociclisti», dice senza ridere. Nick Corey è sceriffo di BekereedgePass, è fidanzato con Stella, ragazza che è tornata da lui dopo averlo abbandonato all’altare e lasciato solo per sette anni, e ha un problema con l’alcol. Di recente, qualcuno ha ammazzato il suo unico e migliore amico Rudy. Quindi Nick ha anche una missione: trovare chi ha ucciso Rudy, e fare giustizia. A modo suo. Il romanzo è narrato in prima persona, da Nick, e il linguaggio è quello che ci si aspetta da lui: duro, amaro, masticato più volte come una foglia di tabacco. Dritto come la trama, un proiettile verso la fine; una brutta fine. «Pensi che finirà male, Nick?» «Credo proprio non ci sia alternativa, Stella». Ad alcuni, il nome di Nick Corey potrebbe suonare familiare. C’è un motivo, e ve lo spiega l’autore stesso, a cui abbiamo fatto alcune domande. OL: Come è nata l’idea di ambientare il romanzo nel Texas, e l’idea di utilizzare un protagonista italo-americano? Alessandro: È un’idea nata da una provocazione che avevo fatto a Luigi Bernardi su Facebook: si possono fare cover di canzoni arcinote, si possono fare remake di film straconosciuti, ma a nessuno verrebbe in mente di riscrivere un libro famoso perché verrebbe subito accusato di plagio. Bernardi venne fuori con questa proposta: avrebbe pubblicato chi si fosse cimentato a riscrivere un classico. Ci ho pensato un po’ su e mi sono reso conto che il mio classico per eccellenza, parlando di noir, è un libro scritto nel 1961, ma che ha una freschezza che sembra uscito dalla tipografia un’ora fa: Colpo di spugna di Jim Thompson. Del romanzo originale ho mantenuto l’ambientazione americana per svariati motivi, il più importante dei quali è che volevo poter giocare ad armi pari con gli autori d’oltreoceano – partono avvantaggiati, nell’inventare una storia, perché in America tutto è possibile e i lettori italiani accettano questo assioma senza storcere la bocca, cosa che non accade nelle trame ambientate in Italia, dove ti fanno le pulci su qualsiasi cosa -. L’idea di utilizzare un protagonista italo-americano è derivata dalla mia voglia di giustificare l’uso del nome di Nick Corey. Mi pareva davvero irrispettoso usare a cuor leggero un personaggio così iconico e riconoscibile, quindi mi sono immaginato che questo nome fosse in realtà davvero casuale, nato dalla traduzione dell’italianissimo Nicola Coretti, figlio di immigrati naturalizzati americani. E questa cosa la spiego perfettamente nel primo romanzo con protagonista Nick Corey. Il mistero della vita è che non c’è nessun mistero. Nasci vivi muori. Stop. OL: Come ti sei documentato su questi luoghi? Sono reali o di fantasia? Alessandro: Siamo esterofili, che ci piaccia o no, e l’America ci ha plagiato ben bene. Perciò credo proprio che ogni italiano di mezz’età abbia un ottimo background americano, grazie a libri, film e documentari, e con tutte queste informazioni non è servito andare in Texas di persona per ricreare una realtà plausibile e credibile. Ho scelto un luogo ideale dove immaginare la città di BakereedgePass, ho studiato alcune cittadine reali che sorgono in quella zona tramite Google Maps, e poi tutto mi è venuto naturale, tanto che nessun lettore si è lamentato. Anzi. E ad alcuni di quelli che mi hanno chiesto se ho vissuto in quelle zone, ho risposto di sì, per i primi quindici anni della mia vita, per non deluderli. In effetti credo di aver fatto un buon lavoro. L’amore e la vita sono una merda necessaria. OL: Perché “nel dolore”? Perché “l’amore e la vita sono una merda necessaria”? Alessandro: Per Nick il dolore è la condizione umana naturale. Lo ha messo alla prova, violento e inarrestabile, fin da quando era indifeso e innocente. Ha forgiato il suo carattere, inciso sulla sua vita. Nick non ha paura di affrontarlo, ci si butta a capofitto, perché sa che solo attraversandolo può raggiungere la sua pace. “La vita è una merda necessaria”, dice Nick, perché non può fare a meno di viverla, gliel’hanno data e non può tirarsi indietro, anche se ogni volta che si sbronza cerca di ammazzarsi ficcandosi la pistola in bocca. Sarebbe la via più breve per smettere di soffrire, ma c’è sempre un buon amico che lo aiuta a desistere, e un motivo forte per non farlo. Il motivo è l’amore, quello che prova per Stella, che crede sia la sua redenzione per diventare un uomo migliore e vivere una vita diversa e felice. In fin dei conti,

Noi che abbiamo passato una notte a Orio

Noi non ce la volevamo passare la notte a Orio. Noi, con i nostri bagagli a mano, le valige piene di caciotte e capicolli come sul Torino-Reggio Calabria, gli zaini che sapevano di strada e la biancheria di sapone sciacquato, noi avevamo orari e mete precise: arrivo a Francoforte alle 22, recupero bagagli, baci, abbracci, e via, a casa. E invece… Noi che abbiamo passato una notte a Orio di Emilia Cesiro … E invece, quel giorno lì, che era luglio, era umido. D’estate. Capita. L’aeroporto rimbombava, completamente isolato dall’esterno. Decolli, atterraggi, annunci, chiacchiere, scherzi, bambini,musica dalle cuffiette, dagli altoparlanti, dai negozi. E poi il tuono. E poi la pioggia. Quella pioggia obliqua e dura, che danneggia le foglie e le ali. Tutti i voli, subito, come se non aspettassero altro, erano annullati. E c’era una grande calma. Un minuto prima tutti a guardar su, i monitor, gli orari, gli annunci,. E un minuto dopo, quasi in silenzio, quasi obbedienti, eravamo tutti in fila, quasi ordinati, ognuno verso la sua compagnia. Eravamo educati. Tutti noi, ormai, sapevamo che c’era di peggio, ma la rapidità e l’efficienza ci avevano stordito. E qualcuno vagava, non sapeva cosa fare. C’eravamo accalcati alle porte a vetro dell’aeroporto, imbambolati, col broncio o col sorriso, a guardare quella pioggia obliqua, da cartone animato, a sud di Bergamo, a guardare i taxi che passavano, ed eravamo sempre di meno, sempre di meno. E poi siamo rimasti in cinque, o quasi. Avevamo un posto sul volo delle 6 per Francoforte. Non eravamo gli unici passeggeri, ma… Gli altri, qualcuno aveva preso la macchina e era tornato a casa perché abitava vicino, qualcun altro magari più avvezzo, s’era procurato una stanza in albergo. Perché c’erano gli alberghi attorno all’aeroporto. Però noi no, perché noi avevamo la testa in altre faccende, nella pioggia, nel broncio, nelle caciotte, nell’Italia a piedi che è tanto bella, e poi qualcuno di noi, i soldi in più, per quell’albergo, per quella macchina che poteva farla dormire su un materasso e sotto delle lenzuola pulite, e niente, i soldi per gli imprevisti non ce li aveva. C’era chi, tra di noi, era stato derubato proprio quel mattino lì, prima di partire, prima di prendere il treno, prima ancora di chiudere la valigia, i soldi dell’affitto, i soldi del viaggio, e allora di corsa in banca, di corsa a denunciare e a chiudere la valigia. E chi invece, tra di noi, aveva girato a piedi e in autostop e non vedeva proprio la differenza tra una sala d’aspetto in stazione, le stelle e l’aeroporto. E c’era chi era innamorato e allora troppi stupori per pensare pure a dove dormire. Tra noi, c’era anche qualcuno che, con grande sapienza, aveva fatto solo viaggi sul ponte, senza cabina, arrangiandosi per terra, anche se non aveva più l’età. Così, alla fine eravamo rimasti in cinque, in tutto l’aeroporto. C’eravamo guardati, noi cinque, e avevamo i capelli di chi viaggia da troppo tempo, e c’eravamo scelti e come i musicanti di Brema, aveva detto qualcuno, che però erano in quattro, avevamo cercato un riparo per la notte. Tra noi c’era qualcuno che aveva visto la cappella e allora aveva detto che si poteva dormire lì, e tra noi era stata quella innamorata a tradurre e quello derubato di noi aveva detto “vediamo”, gli altri due che avevano camminato tanto avevano già capito e erano pronti, ma la cappella era piccola e piena. Allora quella innamorata e quello derubato avevano detto, corriamo al duty free, perché c’era solo un bar e non aveva più neppure le pringles, e bisognava mangiare qualcosa, perché le caciotte e i capicolli nella sua valigia erano per il suo amore, ce l’aveva detto per onestà, e non si potevano toccare, e noi avevamo capito perché l’amore è fatto di formaggio, aveva detto in tedesco uno di noi. Avevamo comprato l’acqua e i tuc e la cioccolata e avevamo diviso, e quello di noi che era stato derubato ci aveva raccontato quando usciva da calcio con i suoi compagni e andavano a comprare l’estathè e le merendine, e niente, gli era piaciuto e noi ci sentivamo così, che ci sorridevamo a vicenda, pensando tutti che era una cosa così strana e così piacevole che forse ce la saremmo ricordata per sempre. Era una cosa così strana e così piacevole che forse ce la saremmo ricordata per sempre. Ma non c’era dove potersi sdraiare perché c’erano dei sedili ma erano saldati a terra e avevano i braccioli. smembravano fatti apposta per impedire che qualcuno ci si sdraiasse, come nei parchi i barboni, ma quale barbone prende e arriva fino a Orio, che non c’è nulla se non l’aeroporto e le sue aiuole strettissime e gli alberghi che i barboni non li fanno entrare. E allora, come barboni, come adolescenti le ultime sere di agosto avevamo trovato un posto, uno qualsiasi che ci stessimo tutti, perché è un aeroporto non una stazione e gli aeroporti una volta erano posti sicuri, c’eravamo seduti e avevamo tirato fuori dalla valigia qualcosa di più pesante e qualche asciugamano e a avevamo dormito lì, uno accanto all’altro, ma non proprio dormito perché magari si perdeva l’aereo e c’era una di noi che si preoccupava che le guardie ci cacciassero e che allora sarebbe stato un problema ma chi tra noi era innamorato e chi tra noi era derubato e chi tra noi aveva camminato tanto sapeva che non era così, e allora noi c’eravamo abbracciati tutti, e alla fine un po’ avevamo anche dormito. E poi al mattino, che aveva la stessa luce della notte, perché negli aeroporti è come all’autogrill, c’eravamo tranquilli messi in fila, prima al bar, poi al check in e al terminal, quasi in silenzio, e sull’aereo eravamo tutti separati e all’inizio ci guardavamo sereni, poi abbiamo smesso. Ad Amburgo, ci siamo aspettati e ci siamo abbracciati di nuovo, in una luce ancora più asettica e strana e non ci siamo visti mai più.

Apricale 2016 – Epilogo

Epilogo del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Epilogo di Sara Boero Alla fine ce l’avevano davvero, delle belle storie, quei nove smemorati. Mi liscio la punta della coda senza perderli di vista: Il bambino, senza fretta, si allontana in bicicletta; La pittrice e i suoi decori, ricchi d’animo e colori; Cavaliere immaginato, torna donna trasformato; Canta il vecchio musicista col suo buon cuore d’artista; Il barone truffaldino torna a casa col bottino; L’oste onesto è un’eccezione per le regole d’amore; Si confronta l’eremita con la svolta di una vita; C’era il boia e il suo mistero, s’è scoperto molto vero; Si dilegua la contessa che non era più se stessa. E io posso salutarli. Posso finalmente riprendere la caccia alla mia lucertola, che nelle ultime notti m’è sfuggita. La vedo tra le pietre del suo castello, la inseguo sulla terrazza. Si nasconde dietro a un vaso cercando di mimetizzarsi tra la lavanda e il timo ma questa volta non mi scappa sotto ai baffi: la fermo tenendola saldamente con la zampa. Non per la coda, come l’ultima volta, no: faccio per affondare gli artigli nel suo corpicino delizioso. E lei parla, con voce felina. La lucertola magica oppure no? “Gatto, anche sulla tua storia il sole sta per tramontare. Sono due giorni che ti scappo per fare indagini sul tuo conto. La mosca curiosa oppure no di me mi ha già detto tutto. Vuoi cenare o vuoi scoprire chi sei? A te la scelta.” Leggi i racconti di Apricale dall’inizio!

La contessa e il bambino americano – Apricale 2016

Decimo e ultimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! La contessa decaduta e il bambino americano di Angela Gambardella … 5, 6, 7, 8 perbacco! I rintocchi mi dicono che sono in ritardo oggi. Che sbadata! Devo correre in cima alla terrazza a salutare Perinaldo. Chiudo gli occhi e mentre canticchio nella mente una marcetta nuziale, un piccione in atterraggio mi sfiora la sciarpa avvolta intorno al collo. Subito dopo mi arriva una pallonata. Al mio solito strillo di spavento risponde una risata dalla piazza. Mi affaccio e ti vedo sghignazzare con insolenza. “Moccioso, vieni a riprenderti la tua palla!” Ti materializzi subito al mio cospetto e ti guardo con una smorfia di disgusto: da quanti giorni non fai una doccia? E quella macchia attorno al labbro è un principio di pubertà precoce o tracce paleolitiche di gelato al cioccolato? I capelli sono biondi ma aggrovigliati come dreadlock. “Non ti avvicinare, carino”, ti dico facendo un passo indietro e un sorriso di circostanza. Tu mi guardi con aria di sfida e cominci a canzonarmi: “hai paura dei piccioni, cosí grande!” Riconosco un accento americano e ti domando da dove vieni. Miami: mi spieghi che la Florida è un’appendice a sud degli USA. Che saputello! Indignata ribatto: “Beh certo, so benissimo dov’é la Florida. Ma cosa ti ha portato qui? Dove sono i tuoi genitori?” Dici di non ricordare nulla ma non sembra essere un problema per te. Ti volti di scatto verso il campanile e noti la bicicletta parcheggiata sulla guglia. Mi chiedi di custodirti la palla perché adesso vuoi andare a prenderti la bicicletta. Ne hai bisogno per raggiungere il confine francese: 2 ruote sono meglio di 2 gambe. Io invece prima vorrei recuperare dei guanti in lattice e del CIF per pulirti il muso. È così che si lavano i bambini, vero? Istintivamente chiamo la servitú in cerca di aiuto ma non risponde nessuno. Cerco di stabilire una relazione con te mentre tenti di parare i colpi di spugna. Nella colluttazione mi chiami maestra, poi ti correggi, teacher. Non faccio caso a questi dettagli, l’importante è renderti annusabile. Continui a parlare della Francia e mi pare di intendere che vuoi andare lí per raggiungere la tua famiglia. Ma perché ti hanno lasciato solo? Nel frattempo sei più calmo e pulito. Parli poco, ma quello che dici è deformato dall’accento, che comunque sembra forzato. Mi domando se tu non lo faccia apposta. Pian piano inizi a fidarti di me, forse perché sotto sotto in qualcosa ci assomigliamo. Ti prometto che farò tirare la bici giù dal campanile. Sembri più sereno adesso, e inizi a lanciarmi la palla, ma questa volta per giocare. Io son goffa ma ci sto. Inizi a fare sfoggio della tua sapienza e mi citi a memoria la catena montuosa alpina da levante a ponente, non omettendo il numero di pagina in cui inizia il capitolo. Nonostante la perdita di memoria temporanea mi sovviene il ricordo di essere una donna distratta. Eppure mi appare bizzarro che in America si studino i giovanissimi frammenti lapidei che svettano in Europa. Man mano che parli tradisci sempre più un gioco furbo che hai deliberatamente deciso di applicare. Fai finire tutte le parole con la W… Una sorta di alfabeto farfallino rivisitato. Con quell’accento bugiardo continui a chiedermi quando potrai avere la bicicletta appesa al campanile. Che sia questo l’indizio rilevante? Ti lascio lì e provo a chiedere aiuto a qualcuno in paese. Mentre cammino per le strade un cartello che indica il vicolo Ristretto mi attira a sé. Lì trovo uno zainetto azzurro dov’è disegnato uno stemma che racchiude una grande N. Deve trattarsi di una stirpe nobiliare a me sconosciuta, quindi di scarso interesse. Accanto c’è una scritta infantile: FORZA NAPOLI Apro la borsa e trovo i seguenti oggetti:  un pupazzo dalle sembianze di Shrek vestito da calciatore con la maglia azzurra numero 10; un sacco a pelo logoro;  3 ovetti Kinder di cui 2 aperti e ricomposti ma senza la sorpresa dentro;  2 sorprese Kinder smembrate, evidente segno di scarso interesse del fortunato proprietario, oppure no;  una borraccia con un liquido giallastro, forse succo d’arancia allo 0,3%;  una cartina spiegazzata delle Alpi Marittime dove è stata tratteggiata a pennarello una pista ciclabile che parte dal Col di Tenda e arriva a Marsiglia passando per Apricale;  un portafogli contenente ben 250 euro. Mi accorgo che è annotato il numero di un cellulare. Lo compongo speranzosa e all’altro capo della cornetta mi risponde una signora dalla voce afflitta: non ci metto molto a scoprire che si tratta della tua mamma. Povera donna, è disperata: sei scappato di casa in bicicletta due giorni fa per compiere un’impresa ardimentosa. Volevi arrivare fino a Marsiglia per vedere la semifinale degli europei. E hai pure pensato bene di spacciarti per americano, riciclando le quattro parole in croce che hai imparato alla TV! Un piano a prova di bomba: ma stasera qualcosa mi dice che la partita te la perdi…   Leggi l’epilogo dei racconti di Apricale! Leggi i racconti di Apricale dall’inizio!

il mio vestito logo

“La Non-moglie”: la giornata di Angela

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  La Non-moglie la giornata di Angela Sotto la vernice del presente, una donna non-moglie e non-madre è guardata come un oggetto ignoto, un ufo sociale. Il ruolo di ufo può suscitare senso di meraviglia, come nei film di fantascienza, ma talvolta origina diffidenza e pregiudizio. Ne riconosco lo sguardo quando la conversazione s’interrompe, poco dopo il mio atterraggio, nel momento in cui appare chiaro che non ho una fede al dito e non ho una prole speranzosa del mio ritorno a casa. Uno sguardo come se avessi disertato qualcosa e che mi sorprende sempre. Non avevamo già superato questa storia dei ruoli? Manco per niente. Anzi, insospettabili amiche coetanee, divorziate e nei guai con il lavoro, parlano del loro passato matrimonio come di un progetto cui hanno creduto e che hanno coltivato in gioventù, senza dedicarsi ad altro – lavoro, carriera, interessi. Il ruolo di “moglie di…” appare nei loro discorsi carico di una pienezza esistenziale che è stata in grado di celare altre possibilità e la cui perdita, adesso, le sconcerta. Lavoro come insegnante in una scuola media. Affrontare ogni giorno una quarantina di persone diverse non è semplice. Anche perché io sono la nemica e non devo farmi impallinare. Suona la campanella. Si va in scena o in trincea, secondo le classi. In entrambi i casi, mi considero fortunata perché posso osservare agevolmente persone molto più giovani di me. Saluto alunni e alunne, che mi ricambiano con un’espressione del viso o una battuta peculiare, a volte con un silenzio speciale. Se ci si sofferma su di loro, queste ragazzine e ragazzini promettono bene. Non è vero che sono pessimi, come dicono tante persone adulte e invecchiate male. Non è vero che non capiscono nulla. Siamo noi che pretendiamo molto da loro ed esigiamo che, in un mondo in delirio, siano perfetti, responsabili, irreprensibili. Nel nostro mondo. Irreprensibili. Nel nostro mondo, dove tutti si-prendono-le-loro-responsabilità e poi le trattano come zerbini. Mi viene da ridere. Penso alle colleghe, non tutte per fortuna, subito pronte con parole dure verso di loro. Le capisco anche, magari dopo tanti anni di lavoro avrò anch’io esaurito la pazienza e la comprensione, oltre che le energie, ma si sono da tempo dimenticate cosa significhi avere tredici anni e dover stare seduti per sei ore. Non era facile nemmeno per me, che ero seguita da genitori attenti senza i quali non sarei riuscita a ottenere-buoni-risultati. Che poi, l’unico risultato davvero importante è essere felici. Alcuni ragazzini e alcune ragazzine non lo sono. A volte, mentre spiego qualcosa, una parte di me si diverte a immaginare come diventeranno. Sicura che non indovinerò mai. Arriva una circolare da dettare: “Il Dirigente Scolastico… i professori… i coordinatori… i rappresentanti”. Loro mi guardano, ghignando sotto i baffi. Sanno cosa sto per dire. E infatti. “Siamo quasi tutte donne e questi nomi sono tutti maschili. Io sono una professoressa e una coordinatrice”. Proteste scherzose da parte di alcuni ragazzini: “È giusto, siamo più importanti noi maschi!” Le ragazzine rintuzzano i compagni e li accusano di essere i soliti che non capiscono niente perché ragionano “con quello”. Dico loro che si tratta di uno stereotipo. “Però un po’ è vero”, ribadisce un’alunna, “non pensano ad altro”. “Tu non ci pensi?” “Be’, sì, ma loro… e poi io non sono mica una di quelle!” Affermo che ogni essere umano, donna o uomo, ha dei desideri e che questo per una donna non significa essere una-di-quelle. Non è facile. L’antico pregiudizio è inciso nelle loro menti, tenace e sempre nuovo. E la sorpresa mi coglie di nuovo. Non avevamo abbandonato queste prigioni? Quando sono state ricostruite? A pensarci, non sono mai state demolite davvero. Una collega mi domanda se posso sostituirla il giorno dopo. Deve andare dal pediatra e suo marito non può perché ha da lavorare. E lei che sta facendo? Coltiva compiti in classe per hobby? Le dico che la sostituirò. Suo marito ricopre un importante incarico in un’azienda e non può prendere un permesso per seguire i bambini. Ovvio. Naturale. Quindi il lavoro di lei è meno importante. E anche il mio. Mentre i mariti costruivano carriere da dirigenti nelle multinazionali, molte donne sceglievano l’insegnamento come ripiego, per potersi prendere cura della famiglia. Terza sorpresa. E’ ancora giusto così, per alcune. Il pomeriggio, correggo compiti in classe. Lotto contro gli anacoluti. E penso agli anacoluti del mondo, alle contraddizioni in cui siamo tutti e tutte invischiate, ai suoi pensieri torti. Abbiamo fatto dei passi avanti? Il mio compagno ascolta e condivide le mie riflessioni, e mi sembra già un magnifico dono. Mia madre è più ottimista di me e ne tengo conto. Forse ha ragione.

“Un lunedì”: la giornata di Elisabetta

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Un lunedì la giornata di Elisabetta Non voglio svegliarmi, non ancora. Devo finire il mio sogno. La sveglia si insinua maligna, a volte con una musica dolce piena di promesse; quasi sempre, invece, snocciola un concentrato di notizie volte a suscitare malumore. La disgrazia del giorno, l’aumento delle tasse, la dichiarazione insensata e autocelebrativa del politico di turno. Mi alzo, già consapevole che anche oggi arriverò in ritardo a lavorare. Del resto, non posso uscire di casa senza aver fatto colazione, cambiato idea un paio di volte su come vestirmi, dato da mangiare al gatto, controllato che le finestre siano chiuse, trovato chiavi di casa e cellulare, che si nascondono sempre quando li cerchi. Speriamo che la Capa sia di buonumore, oggi, altrimenti saranno rimbrotti generalizzati per tutti. Non che mi importi tanto, ma anche questo peggiora il tono dell’umore. Mentre lavoro, cresce sempre di più la sensazione di pestare l’acqua nel mortaio: non c’è una fine né un inizio, ma soprattutto nessun ritorno su quello che fai. Pazienza, che tanto mi tocca questo fino alla vecchiaia. Intanto penso già a quello che devo fare nel tragitto verso casa e poi a casa. Comprare il caffè solidale, prelevare i soldi al bancomat, far la spesa sotto casa, controllare le scadenze, pagare on line la multa per divieto di sosta di mia figlia, ritirare il bucato asciutto e metterne su un altro, pensare a cosa faccio per cena, sedermi per un quarto d’ora e poi mettermi a cucinare. Incombenze nel vero senso del termine, che gravano sulle mie spalle costantemente contratte. È un lunedì, ma potrebbe essere anche martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e, parzialmente, anche domenica, giornata in cui ormai mi tocca la visita alla suocera ultraottantenne, che, ostinatamente, vuol restare a casa sua da sola. Così mi ha delegato, bontà sua, la gestione della sua vita, badanti e relative bizzarrie comprese. Sabato no: finalmente posso sognare fino alla fine e concedermi tutto il tempo che voglio. Il tempo è scivolato via come una goccia di pioggia sui vetri, e a quasi sessant’anni – che pensiero orribile – a volte mi chiedo se valga la pena metterci tanto impegno. Poi penso alle mie bambine, che sono pezzi del mio cuore e dico che sì, ne è valsa la pena.

La contessa decaduta – Apricale 2016

Nono e penultimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il boia in attività e la contessa decaduta di Clara Negro Bastardo d’un gatto! Già, cosa diavolo potevo aspettarmi da un animale? A me, un boia, essere accoppiato a una contessa, dover trovare addirittura il suo passato. Che tu sia una contessa non ci piove. Ti guardo, stai sola in mezzo alla piazza, il naso all’insù, fin troppo all’insù. Come lo chiamano? Alla francese? No, all’insù come quelli che hanno la puzza al naso, narici strette per non sentire l’odore dell’umanità. La puzza della paura e del sangue. Che io amo invece. Ti muovi e cammini, la testa alta, lo sguardo che non sfiora mai terra. Guarda che così rischi grosso, bella mia, le pietre irregolari sono ingannevoli, non vorrei sbattessi il tuo bel nasino a terra. Ti seguo verso il Castello della Lucertola. Mentre sali sorridi, come il viaggiatore che, lontano da troppo tempo, torna a casa, e ritrova la sensazione di posti conosciuti. Tentenni sulla porta del castello, ti fermi a guardare per essere sicura che nessuno ti segua. La porta è sbarrata: oggi non è giorno di visita. Appoggi le mani bianche allo stipite scuro, mormori qualcosa poi ti afflosci, come se, quell’abito che porti con sussiego ed eleganza, si fosse improvvisamente svuotato di te. Ti afferro prima che tu cada sulle pietre calde di sole. Cosa credi bellezza che ti lasci andar giù così, a peso morto? Mi basta un braccio per sollevarti, un corpo troppo leggero, quasi fossi fatta di fumo e non di carne, ossa e sangue, cose di cui io son esperto. Mi siedo nell’umidità dell’ombra, in modo tu possa sentire l’aria fredda che sgorga dalla bocca della cantina, e ti trattengo tra le braccia. Sento che stai riprendendo coscienza, apri gli occhi e mi vedi: “Chi sei?” Non scappi, non ti agiti, non urli come mi aspettavo, mi guardi dritto negli occhi. “Chi sei?” ripeti. “Ecco, questo è il mio problema, proprio uguale al tuo. Io sono un boia, e tu una contessa, mi sembra di aver capito.” Sollevo la mano e l’avvicino al suo collo bianco. “E questa cos’è?” “Questa cosa?” “La cicatrice intendo.” Non finisco la frase che sei già in piedi. “Di cosa parli? Quale cicatrice? Sono i tuoi occhi di boia vecchio e pazzo a farti vedere cose che non esistono?” In quel momento la porta del castello si apre. È il custode che finisce il suo giro di ispezione e torna a casa. Lo spingi di lato e sgusci nell’androne buio. Ti seguo e il poveretto mi grida dietro:“Ma dove va? Oggi è chiuso.” Non mi fermo, entro e sbarro la porta con il ferro morto. Sono sicuro che qui dentro è successo qualcosa. I tuoi e i miei passi rimbombano nelle stanze, sulle mattonelle decorate, tra i mobili antichi, nella corsa rovesci qualche sedia, cadono oggetti che non posso fermarmi a raccogliere. Stanza dopo stanza, corridoio dopo corridoio, sembra persino tu sappia dove andare, come cercassi rifugio o fuggissi da qualcuno. “Fermati!” Grido. L’ultima camera si apre su un giardino pensile. “Dove sei caruccia? Che ti nascondi a fare? Mica avrai paura di me? Sono il boia, ma tu che hai da temere?” “E che ne sai? Magari potrei essere la prossima condannata alla forca, al ceppo.” “Ehi sei rimasta indietro bella mia! È finita l’epoca delle barbarie. Adesso civili come siamo usiamo i vapori di cianuro, le iniezioni letali. Niente più sangue, purtroppo.” “Va via boia o mi butto. Giuro mi butto di sotto.” Si avvicina alla balaustra. “Me ne vado, me ne vado. Tu però non fare sciocchezze!” Le tende a fiori svolazzano, gonfie di brezza della sera. Anche la luce si smorza, tenera e rosata illumina i ritratti alle pareti. Mi avvicino a un dipinto, una cornice dorata chiude un paesaggio marino attorno al corpo di una donna sottile, flessuosa, lo sguardo alto, buttato lontano sull’orizzonte e il naso…il naso all’insù. Troppo all’insù. Leggo il cartellino alla base del quadro: Cristina Belforte, contessa di Apricale,15 maggio 1840 – 8 settembre 1865. Cristina Belforte, sei tu allora, tu: la contessa di Apricale. Mi avvicino alla finestra, sei ancora là: il viso rivolto alla valle, le spalle curve di un peso senza memoria. Torno al dipinto, accanto c’è un tavolo e sopra al piano lucido libri antichi, documenti dai margini consumati e un quaderno. Lo apro: pagine ingiallite, fitte di una scrittura leggera e incerta. Leggo e la stanza si riempie di voci e di ombre, il passato diventa presente. Apricale, 12 marzo 1865 Il ventre si è gonfiato, ne spio la curva nel grande specchio della stanza. E faccio del mio meglio per schiacciare la protuberanza maligna con i palmi aperti. Che fare? Alfonso, mio marito, manca da otto mesi. Non posso fargli credere che sia frutto dei suoi lombi. E poi i soli ricordi che mi ha lasciato sono i segni della sua violenza. A lui, la colpa del mio tradimento. A lui e agli occhi e alle mani di Carlo. Alle sue parole di miele, al suo tocco leggero. Scorro veloce le righe: senti dentro di te quell’essere indesiderato e lo odi. Non sarai mai una madre.   Apricale, 12 luglio 1865 Tutti al castello lo sanno e tutto il paese ne parla. Li odio. Odio me e lui, e Carlo Ratti che è felice, invece. “Fuggiremo lontano!” Mi dice. Ma dove? Gli dico. Di che vivremo? “D’amore, mia adorata, d’amore e di baci.” Povero pazzo!   8 agosto 1865 È arrivata notizia: Alfonso tornerà prima di Natale. Per allora dovrebbe essere nato. Lo sento scalciare sempre più forte. Ho costretto Mariuccia a legarmi stretto il ventre con una fascia. Stringi, tira forte. Troppo tardi, non servirà a far scomparire la pancia, ha detto. Si avvicina

“Due lune”: la giornata di Laura

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Due lune la giornata di Laura Ora sono a casa, la mia giornata si sta avvolgendo ed è piena, come una luna che deve riuscire a contenerne due, una luna piena doppia. Tutto quello che faccio voglio che stia in qualche angolo, in qualche spazio, in un contenitore estensibile. Mi sono alzata presto. Oggi: uscita con i miei alunni. Uno sguardo alle figlie, che solo a pensarle un tasto automatico parte e inizia a far scorrere il nastro, fatto di fotogrammi già pieni e di altri ancora da impressionare. Quelli impressionati hanno tanti colori, suoni, toni. Quelli ancora vuoti hanno riflessi che basta poco a cambiare. E mentre esco attacco un altro passo, quello che mi porta al lavoro, sull’autobus do il via con il mio collega al prossimo possibile sciopero della scuola, sì o no. Cosa s’ intende per scuola, cosa per società, cosa per… e arriviamo. La sera prima non sono riuscita a scrivere, mi devo mettere a studiare, è deciso. Porto con me le mie forbici invisibili, mi servono per il mio passatempo preferito, ritagliare. Ritagliare tempo per me, trovare piccole asole, scucire un po’ qua e un po’ là e aggiungere delle tasche, dove mettere parti di me stessa. La mia giornata intanto scorre. Faccio turno doppio. Ma non mi spetta, ma non è previsto che non mi spetti. Mi spetta o no? Intanto lo faccio e buonanotte. Arrivo a casa e trovo ad attendermi qualcuno, o meglio qualcosa. Le cose che mi hanno salutata quando sono uscita stamattina: no, non posso, oggi sto fuori tutto il giorno; non posso neanch’io, Conservatorio e Università, ma come faccio? E io ho già dato, una riunione che mi aspetta. E poi devo fare la spesa. Allora le cose mi si affezionano, mi aspettano affettuosamente, mi scodinzolano quasi, quando arrivo a casa. Quanto gli sono mancata! Il gatto viene trotterellando in ingresso, quando mi sente, e si butta per terra, ama che gli gratti la pancia. Arrivo con le pile sul rosso, magari diciamo ancora sull’arancione, il rosso arriva dopo cena. E non è che rosso di sera buona giornata si spera. E due lune sono troppe, ci vorrebbero delle nuvole a coprirne almeno una.

“Eldorado” (2a parte) – Monologo per il Giorno della memoria

Paragrafo Centosettantacinque: La fornicazione contro natura, cioè tra persone di sesso maschile ovvero tra esseri umani ed animali, è punita con la reclusione. […] Eldorado di Camilla Tomiolo Quando è stata l’ultima volta? Due sere fa. E come è stato? Le luci sul palco, il semi buio intorno, euforia nelle gambe, paura nei polsi. E poi? Lo sai: prendi il respiro. Ti tuffi. È qui che ti voglio. Ci sei riuscito? Sì. Di nuovo. Sì! E che mi dici dei pezzi di faccia da gentleman che ti sei portato dietro? Li abbandoni pian piano. Un pezzo al guardaroba, un pezzo sotto a un tavolo, un altro pezzo sul bancone del bar. Qualche frammento microscopico sul vestito nero della folla. Tutto il trucco del mondo non basta mai. No, hai ragione. È un processo più fondo, quando cominci a dimenticarti che sono i tuoi gli occhi che guardano, allora sei libero: sei dentro la folla. Centinaia di persone che sudano, ballano, si baciano. Si spogliano. Scopano qua e là. Sì. È un’altra Legge lì dentro. Maschile femminile. Femminile maschile. (ride) Mostri! (pausa) Se potessi liberarmi di te senza perdere me stesso. Giusto e sbagliato. Bianco e nero. Verità assolute… (ride) Tradizione. Ciò che è sempre stato non può essere cambiato. Il pensiero si disfa di fronte alla realtà. La realtà è una e tu devi rispettarla. Tutto si trasforma. Questo non sono io. Io non sono te. L’unico peccato che ho mai commesso è di pensare di non sapere chi sono. Mi sono messo un paio di calze velate l’altra sera. Ero eccitato e nello stesso istante arrabbiato con me stesso. Nello stesso istante. L’eccitazione dal basso si espandeva, arrivava a sfiorare la rabbia che a quel punto non aspettava altro che scatenarsi contro di lei, ma, senza rendersene conto, tutto ciò che faceva era mescolare se stessa alla voglia: dare forza alla spinta. Le labbra le ho fatte di un rosso violento, troppo acceso per restare dov’era: nel cuore della notte mi è scivolato fuori dalla bocca, una strisciata che mi ha allargato il sorriso. (ride) O forse un livido. Un bacio senza amore. Un morso. Rosso innaturale diventerà viola. Non capisco perché lo fai. Cosa non capisci? Libertà o distruzione? (ride) Tu vuoi offenderci. (ride) Rispondi. Che cosa vuoi?! E tu? (pausa) Chi sei? Chi sei piccola voce che riempi le nostre teste? Da dove arrivi? Da quanto sei qui? (silenzio) Sei la morale? O sei la Legge? Di quale Dio? O sei solo un uomo, come me? Nemmeno. Tu sei un occhio impreparato che tenta di spiare l’universo da un buco di una serratura. Che cosa credi di vedere? (silenzio) Che cosa hai visto? Dillo! Che cosa credi di avere visto?! (silenzio) Non tutto ciò che non conosci è sbagliato, sai? Forse è perfino il contrario! Ci hai mai pensato? Eh?! Che cosa senti? Rabbia? Sì! Vorresti infilare tutto questo fango di nuovo dentro al secchio! Sì! (pausa) Io ho questo senso sulla lingua, che non è il senso comune, è la colpa. Io ho fame. E non posso farci niente. La mia anima c’è, e c’è, e c’è. Riesci a capirlo? Forse mi sono innamorato. Guarda come ti sei ridotto. Mi sono innamorato della libertà. Tutta questa libertà è solo una follia. Tu sei cattivo. Ero affamato. Avevo sete. La sete che avevo era una lama rovente. Ma volevo la luce. Volevi il buio. Volevo la luce. La tua luce è una terribile illusione. (silenzio) Tu non sai amare. È quello che dicono. Ma nessuno mi odia più di quanto io mi odi. Dentro di me c’è una voce che parla come loro, sei tu. È la mia guerra, è proprio qui. Se perderò… la perderò solo qui dentro. Tu amami piuttosto. Mostrami l’Amore. Si può insegnare? E se lo insegni a me, imparerai anche tu? Dicono che si deve educare al bene attraverso il male. Che siamo deboli. Tollerati. Per quanto ancora? (pausa) Se solo potessi essere quello che sono. Ma io non posso sopravvivere a te. E tu a me. Solo uno, solo uno di noi può restare. (pausa) Io non voglio morire.     Monologo teatrale scritto da Camilla Tomiolo, rappresentato durante l’evento Blackout – giorno della memoria al Munizioniere di Palazzo Ducale il 29 gennaio 2017, organizzato da Arcigay Genova.

“Eldorado” (1a parte) – Monologo per il Giorno della memoria

Un calcio alla porta e sono dentro. La guardia con un occhio blu e l’altro grigio grida: “hey tu, invertito, in piedi!”. “Si, signore”, risponde Hans, con quella sua vocina sottile da topolino. “Qui! In ginocchio!”. “Si, signore”, il topolino si mette giù, in ginocchio, con la testa tra le mani. Eldorado di Michela Armenia Il trucco, è non reagire, recitare una parte. E io sono bravo a recitare, Sei nato per questo mi diceva mia madre. Meine Liebe. E’ semplice. Io faccio la valigia e pouff, me ne vado. E mi infilo, piccino come sono diventato, in quella fessura nell’asse di legno che ho un palmo sopra la faccia. Proprio lì, sotto le ossa del bacino di Otto. Prima il polso, poi il braccio e la spalla, poi l’altro polso, l’altro braccio e l’altra spalla, e poi qualcuno da sotto mi spinge su, sotto i piedi, e appoggio le mani su travi di abete ruvido. Abbasso anche io la testa, e annuso questo palcoscenico e mi alzo in piedi sui miei tacchi di vernice, neri. Sistemo le calze, velatissime, l’abito è quello di raso, rosso, con lo spacco, profondo. I pendenti di brillanti e il decolletè, liscio. Le perle dorate. Sono pronta. C’è il mio pubblico, qui, all’Eldorado. Il giovedì è la mia serata, la serata di Evah. Ho messo un velo di cipria sotto il rossetto, me lo ha consigliato Constance, così non sbava, nel caso ti sudassero i baffi sotto le luci forti della scena. Constance, l’unica puttana ebrea di cui ti potevi fidare. Piccolo angelo, c’eri anche tu su quel vagone. Stella gialla a te, triangolo rosa, a me. A me, che nemmeno piace il rosa. Non ha passione. Rosso doveva essere. Rosso, come l’inferno. Come questo vestito di raso che scivola sulle mie gambe e odora di tabacco e di rum. La parrucca è quella nera, ondulata. Sono pronta, tra il pubblico ci sono tutti quanti, ancora una sniffata di cocaina. Sapessi, Guardia, come fa star bene un po’ di coca, una sigaretta e un bicchiere di vino rosso. Mi aiuterebbe, sai, Guardia, quando ti chiedo una porzione in più di sardine e tu mi spingi la faccia contro il tuo grosso cazzo ariano, non sai quanto mi aiuterebbe un po’ di coca, una sigaretta e un buon bicchiere. Inizio a cantare, ieri si è esibita Marlene, l’Angelo Azzurro, Dietrich su questo stesso palco e adesso tocca a me, ho cancellato le mie sopracciglia, con la cipria, e le ho ridisegnate sottili, due sorrisi sottili, all’ingiù, proprio come le sue. Ma il boa di struzzo no, io no, io sono Eva e voglio che mi vedano per bene, la mia faccia, la mia bella faccia tutta intera, con i miei zigomi forti e gli occhi allungati. Le mie gambe. E la mia voce. Inizio la mia canzone. Ridi, Guardia? Ridi della mia testa rasata da un barbiere distratto? dei miei capelli castani e lucidi lì per terra, sopra mucchi di capelli di criminali, pazzi, di comunisti, ebrei e zingari? Ridi dei miei denti che sembrano così grandi e gialli tra queste labbra cotte dal sole e dalla neve, tagliate da solchi dove scorre sangue e pus? Ridi delle mie mani che non sanno stare ferme? E’ il mio segreto, sai Guardia? Io sento la musica, io la seguo sulla punta delle dita. Dovevo stare più attento, oh lo so. Lo! So! Me lo diceva sempre lo Zio, sai Guardia? Mi diceva che dovevo essere un finocchio discreto. Tu puoi essere un finocchio ma non puoi vivere come un finocchio, diceva lo Zio. Non devi nemmeno sognare o immaginare come un finocchio. Il caro, vecchio, Zio. Era così infelice povero Zio, si eccitava come un bimbo davanti a un treno a vapore, per uno sguardo rubato, per una mano sfiorata, Ogni sua stretta di mano era il ristagno di una carezza, povero Zio. E ogni suo respiro, il ristagno di un grido. Io, Io la volevo tutta, questa mia vita, tutta così, come mi chiedeva di essere vissuta, io non volevo rosicchiare gli angoli. Io ho baciato, abbracciato, ho toccato e scopato così tanto e non ho mai dovuto pagare, sai Guardia? Ma certo che lo sai, quanta bella carne c’era attaccata a queste ossa. Io sono pronta, ora inizio la mia canzone, in prima fila c’è Christopher, che mi sorride, il mio piccolo Chris, con quel suo accento inglese, era adorabile. Avrei dovuto seguirlo, “Scappa con me a Londra”, mi ripeteva, “la mia vita è qui, all’Eldorado, dolcezza”, gli rispondevo. Chissà dove sei con i tuoi occhi verdi, mio piccolo Chris. Chissà se ci pensi ogni tanto… ti ricordi? Berlino. 1930… autunno. Io ti posso ancora sentire mio dolce Chris, nelle mie mani c’è il ricordo della tua pelle, nelle mie dita, la linea del tuo profilo. Mi sorridevi, dalla prima fila. Cherie. “Qualcuno porti via Hans”. Vogliono che ce ne occupiamo noi dei corpi. Non ci vogliono toccare. Non c’è nessuno che ci tocchi qui. Per noi con il triangolo rosa non ci sono più abbracci o carezze. Noi con il triangolo rosa sappiamo che siamo ancora vivi perché quando tossiamo, pisciamo o caghiamo sentiamo fitte di dolore. Quando ci bastonano le gambe se non scattiamo subito al suono della sirena, Fitte di dolore quando ci spingono per terra per vedere quanti secondi impiega un invertito a cadere, rialzarsi, cadere, rialzarsi, cadere. Il dolore dell’amore che se ne va, E’ la mia canzone. Meine Liebe. Mi dicevi “Scappa con me a Londra” “La mia vita è qui, all’Eldorado, dolcezza”, ti rispondevo sempre. Mi dicevi con il tuo adorabile accento inglese, mi dicevi “Questa non è la Terra Promessa” La Legge, mi dicevi, “We are bandits”.   [Voce fuori campo] Paragrafo Centosettantacinque: La fornicazione contro natura, cioè tra persone di sesso maschile ovvero tra esseri umani ed animali, è punita con la reclusione; può essere emessa anche una sentenza di interdizione dai diritti civili.   (ride e canta) Sei andato via da solo, meine

Il boia in attività – Apricale 2016

Ottavo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il frate alcolizzato e il boia in attività di Francesca Carlaccini Quest’uomo turba la mia quiete. Ha un sorriso titubante e ingenuo che stride con i suo i gesti netti e il modo in cui si tormenta le mani. Come se le sue mani ruvide e vecchie di duecento anni ancora ricordassero gesti realizzati con maestria e conclusi con raffinatezza. Tutti abbiamo una vocazione in un dato luogo e un dato tempo. La mia ad Apricale è questa: scoprire i segreti di quest’uomo che si fa chiamare Il Boia. L’ho già incontrato un po’ di volte: il luogo e l’ora sono sempre gli stessi. Sei del mattino, al tavolo che guarda verso Perinaldo. Il barista gli porta 2 litri di latte in una caraffa di vetro. Lui, religiosamente rivolto verso il panorama, beve bicchiere dopo bicchiere con una determinazione inquietante, fino a svuotare la caraffa. Risparmia solo le ultime gocce che fanno resistenza e che alla fine del rituale scivolano discretamente sulle pareti trasparenti. Sento di essere in una posizione privilegiata e di poter disturbare le sue abitudini solitarie. Mi siedo al tavolo con lui per osservare da vicino i suoi automatismi fedeli, che mi vengono consegnati con la stessa discrezione, goccia dopo goccia. E cosi goccia dopo goccia, ha confessato di sentire il bisogno del latte e dei paesaggi immobili e pacifici del mattino per contrastare gli incubi notturni. Le sue spalle formano un perfetto angolo retto con il collo e nascondono una tensione muscolare tale da farlo sembrare una macchina da guerra, capace di attutire i colpi di una vita lunghissima. Ma non mi basta, ho bisogno di più informazioni. Devo afferrare l’essenza nascosta di questo sguardo taciturno, le storie sotterrate e ripudiate dalla sua memoria, ma registrate sottobanco dai suoi tessuti muscolari. Perciò l’ho invitato a mangiare al ristorante credendo che un buon pasto e del buon vino gli avrebbero sciolto la lingua. Arriva in tavola lo stinco di maiale locale. Lo vedo frugare nella tasca dei pantaloni e recuperare un coltello. Incide un primo taglio nella carne morta servita nel suo piatto e poi mi porge il coltello perché lo osservi meglio. Il manico di legno sembra molto antico, la lama consumata. Me lo riprende e si rimette a sezionare il porco con chirurgica precisione. Comincia a parlare solo una volta terminata la prima bottiglia di vino, quando le mie gote sono ormai infuocate e io provo un misto tra terrore ed eccitazione. Prima di parlarmi lascia passare un interminabile silenzio. “Se sei veramente un uomo di chiesa, dovresti essere abbastanza colto per sapere cosa rappresentano le incisioni sul coltello.” “Non cercare di ingannarmi: intanto i boia non incidevano le tacche delle loro esecuzioni su un semplice coltellaccio, ma bensì sulla mannaia. E poi non scherziamo, cosa ci farebbe un boia nel 2016?” Il pasto ormai è terminato, nel poco tempo che rimane riesco solo ripetergli frasi fatte sulla bontà degli uomini a cui nemmeno io credo più. Pago il conto e comincio a vagare alla ricerca di un rifugio: mi sento come un bimbo terrorizzato dal buio. Cammino tra scaglie di calcare, ruscelli borbottanti, cortecce antiche, lucertole indolenti, formiche, libellule che tentano di persuadermi dell’equilibrio perfetto del ciclo universale. Ma tutta questa bellezza è illusoria di fronte alla crudeltà umana. Ho bisogno di immergermi in acqua gelida, ho bisogno di sentirmi immobile e in pace per contrastare i miei tormenti. Scendo al torrente, ai piedi di un sentiero che sembra porti lontano, dietro i monti e ancora oltre. Mi siedo su una rudimentale panchina, tentato dall’idea di scomparire dietro i monti come il sentiero. È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola… È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola: noto un libro nascosto sotto la panchina. L’autore è una certa Giada Prestanza. Il titolo è Ultime scuse del boia. Comincio a sfogliarlo con ritmo convulso, ogni capitolo è illustrato da un ritratto fotografico in bianco e nero. Lo richiudo e faccio un lungo respiro. Sembra incredibile ma è proprio la storia che stavo cercando. Riapro il libro al prologo e comincio a leggere. È la vita di un ex partigiano e delle sue esecuzioni antifasciste. “Dedico questo libro a chi questo libro me lo ha raccontato: mio nonno Aldo Prestanza.” Scorro le pagine fitte di foto in bianco e nero, datate dal ‘43 al ‘45, alcune anonime, altre eccentriche, altre ancora malinconiche. Durante la Resistenza non tutti erano pronti a sporcarsi le mani, anche se in nome della giustizia. Se nei tempi antichi il boia serviva a far rispettare la legge, per i partigiani della zona il boia serviva a far rispettare la giustizia. Ma la giustizia era illegale. Aldo Prestanza era quindi il mio boia. La mano che aveva sgozzato i ragazzi delle foto era la stessa che aveva stretto la mia. Allora era giovane come loro. Portavano i fascisti su per i monti di Rocchetta Nervina dove già abitavano i fantasmi. Lassù avvenivano le esecuzioni. Per ogni testa, una tacca sul coltello. Richiudo il libro. Se la Provvidenza non ci aiuta a ritrovare la nostra storia, può venirci in soccorso per il bene di qualcun altro.

“Tempo da cani”: la giornata di Marianna

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.    Tempo da cani la giornata di Marianna I cani non hanno tempo e non perdono tempo. Zompano sul letto, guaiscono piano annusando umido e affettuoso; calpestano le lenzuola di lino ricamate da zia Carmela, travolgono i cuscini ergonomici spaziali e mi ammaccano svariati organi interni. Puzzano di macaia, sale e marciume tiepido. Quindi non ho bisogno di aprire le persiane per sapere che fuori c’è un tempo di merda. Non esiste una puzza meno confortante, meteorologicamente parlando. Sbadiglio svogliata, il mastino più grosso mi sta masticando un calzino. Troppo tardi, è già scurito, intriso di bava. So già che nel pacchetto, di biscotti, non ce ne sono per tutti, li lascio a loro, farò colazione al bar. Non ho tempo da perdere. Costa, il mio compagno, occhi verdi, la mia parte psicologicamente sana. Mi osserva come se fossi un unicorno comparso improvvisamente in cucina. Forse dovremmo parlarne “Costa” è il suo cognome, non il suo nome, ma penso che non si debba dare mai troppa confidenza, anche al principe azzurro. Infilo indumenti a caso, denti e deodorante contemporaneamente. I capelli… sono viola, non esiste un modo per sistemare correttamente capelli color addobbo funebre. Mente locale. Michelangelo, il mio bambino, è in bagno che canta a squarciagola Radio Gaga inventando le parole e intanto si lava la faccia con un metodo da lui stesso inventato e brevettato. Riempie (cantando) il lavandino di acqua tiepida e poi , serio come un sufi turco, immerge il muso più e più volte, senza strofinare, senza massaggiare, senza sapone. Fa il sottomarino, riemerge, si asciuga. Passando per il corridoio intuisco attraverso la porta vetrata la sagoma di Federico, il più grande dei miei due figli non miei. Li ho ereditati dalla moglie di Costa che ha preferito disfarsi anche di loro anziché stare li a centellinare. Sta dormendo arrotolato come un fagotto e sta sognando la sua bionda, ne sono sicura. Alessia, la più complicata, ha dormito dalla sua amica Erica, tornerà più tardi. È come se fosse sempre a casa, aleggia nei pensieri di tutti, ha una personalità decisamente ingombrante, usa il mio profumo di nascosto, ma a me non dispiace. La casa è un casino, ma faccio finta di niente. Sono in ritardo. Ora le scarpe e via. Non ho calzini puliti. Io guardo il mastino, lui guarda me. Abbaia. Poi molla la presa.

L’oste onesto e il frate alcolizzato – Apricale 2016

Settimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! L’oste onesto (oppure no) e il frate alcolizzato (oppure no) di Elena Genisio Percorro faticosamente la salita che porta alla parrocchia; è ripida e le pietre sono arse dal sole, così come la mia testa; provo un senso di vertigine. Arrivo ad appoggiarmi al portone e finalmente entro. Mi investe una folata d’aria fresca, che mi rigenera. Intravedo quel frate solitario osservare con sguardo vacuo, quasi assente, l’altare della chiesa di Apricale. Sembra fuori posto, guarda gli affreschi alle spalle dell’altare come se non li vedesse davvero. Poi abbassa lo sguardo verso i mosaici colorati del pavimento e intravedo in lui un guizzo di ammirazione. Si muove lentamente, trascinando il suo ruvido saio con passo greve, tocca spesso il cordone che gli stringe la vita, aggiustandolo in continuazione, come se non ne fosse mai soddisfatto. La sua statura supera quella di un uomo di media altezza e la sua magrezza lo fa apparire anche più alto. Percorrendo la navata centrale, incrocio il suo sguardo acuto e penetrante; il naso affilato e un po’ adunco gli conferisce un’espressione vigile, precisa. Possiede un mento pronunciato, segno di volontà salda… Possiede un mento pronunciato, segno di volontà salda; il viso è allungato e coperto di efelidi, che sbocciano da una barba grigia scolpita con cura. Ritengo possa avere cinquanta primavere, ma il suo corpo si muove agile. All’improvviso lo vedo cambiare direzione per dirigersi deciso verso l’altare, sale velocemente i gradini che lo separano dal tabernacolo e compie un gesto inaspettato. A fianco del tabernacolo, dove vengono custodite le ostie da consacrare, qualcuno deve aver dimenticato il vassoio d’argento su cui è appoggiata la bottiglia contenente il vino per la messa. Il frate solleva il tovagliolo di lino bianco appoggiato sulla bottiglia, ma si arresta per guardarsi rapidamente attorno, furtivo, per verificare se ci sia qualcuno in chiesa. Io, nel frattempo, mi ero già nascosto dietro una colonna marmorea, in modo da osservare la scena senza essere visto da lui. Il frate, certo d’essere solo, afferra la bottiglia e, avido, beve il vino fino all’ultima goccia. Questa scena mi lascia esterrefatto. Finito di bere, porta le mani al cordone in vita per aggiustarlo compulsivamente, un movimento che sembra rassicurarlo. Fatto questo, si dirige a lunghe falcate verso l’uscita della chiesa, con lo sguardo basso. Nel frattempo, sono uscito dal mio nascondiglio, lui, passandomi accanto, senza vedermi, mi investe con un odore peculiare, aspro, direi alcolico, a me familiare e mi accorgo che il suo colorito è pallido ma acceso solo sulle guance di un rossore innaturale. Ho la sensazione di conoscere questo frate sgualcito. Questo frate, sotto il suo vecchio saio sciupato dal tempo, sembra custodire e celare con fatica un segreto. Forse la ragione che lo ha guidato verso la bottiglia. Sempre più incuriosito e attratto da quest’uomo, decido di continuare a seguirlo con discrezione per scoprire cosa gli sia accaduto, quale sia il suo segreto. Lo vedo sparire in un vicolo stretto. Entrato a mia volta nel caruggio, non vedo più il frate. Evidentemente ha allungato il passo e ha inforcato uno dei sentieri che portano fuori dal paese. Non provo a seguirlo per strade più scoscese, mi volto per tornare in piazza. Nei pressi dell’antico forno, incontro una donna con lunghi capelli corvini, che tiene per mano un bambino che potrà avere una decina d’anni. Dalla tenerezza che c’è tra loro è evidente che si tratti di madre e figlio. La donna è bella, ma un po’ sfiorita, sembra stanca; il bimbo mi colpisce particolarmente, non le somiglia affatto, ha colori diversi, capelli rossi e una pioggia di efelidi sulle guance. Quei caratteri mi risultano familiari: riconosco in lui i tratti di quel frate misterioso, anzi sembra lui in miniatura. “Ma come mai? È possibile che tra loro esista un qualche vincolo di parentela?” La donna trasporta con fatica una borsa pesante, vedendola in difficoltà le offro il mio aiuto. Intanto ne approfitto per scrutare meglio il bambino. “Signora, mi permetta di aiutarla… posso fare le veci di suo marito e portarle la borsa fino a casa? È pesante e lei deve badare anche al suo bambino.” E lei: “La ringrazio molto, abitiamo qui vicino” e guardando il bambino “è Francesco l’uomo di casa, siamo soli io e lui”. Dopo una discesa di pochi passi, raggiungiamo una casa graziosa, con un piccolo giardino e con finestre fiorite di gerani. “Eccoci arrivati!” esclama Francesco. Deposta a terra la borsa, mi congedo dalla donna e mi allontano. Nel frattempo, appare il frate, assorto, di ritorno dal suo vagare. Mi fermo di nuovo a osservarlo. All’improvviso viene investito da una palla: è Francesco che gioca con la sua mamma nel giardino. Il frate raccoglie la palla, alza lo sguardo e vede la donna. Lo vedo trasalire, immediatamente porta le mani al cordone del saio e le sorride istintivamente. Lei lo saluta con dolcezza: “Bernardo! Sono dieci anni che aspetto” dice. Un vecchio, seduto su una panca di legno poco lontana, assiste alla scena e si rivolge a me come se mi conoscesse: “Hai visto? Ti ricordi quando dieci anni fa Frate Bernardo è stato allontanato da Apricale? Ha vissuto per anni come un eremita, non si sa dove…”. Io che non ricordo nulla, guardo il vecchio con sorpresa, senza parlare. Il vecchio prosegue: “Ma sì… non era mai stata data una motivazione ufficiale per la sua partenza forzata, un esilio durato dieci anni. Poi è arrivato quell’angelo dai riccioli rossi, cresciuto solo con la mamma.” Ecco svelato il mistero di quella somiglianza. Il frate si avvicina quasi timoroso alla donna e al bambino, aggiustandosi il cordone del saio più nervosamente del solito. Allora il bambino prende l’iniziativa e gli corre incontro. Frate Bernardo toglie finalmente le mani dal

“La casalinga perfetta”: la giornata di Angela

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  La casalinga perfetta la giornata di Angela La casalinga perfetta si alza presto, prepara colazione, caffè fresco, pane tostato, cereali, spremuta; sia che abbia una famiglia o che sia sola. Entro le ore nove la casa è pronta per un ricevimento. Cucina a posto, letto fatto, aspirapolvere passato, bagno disinfettato adatto a qualsiasi operazione chirurgica. Lei docciata, vestita, truccata, con la lista della spesa in mano e le buste riciclabili, si dirige al supermercato anzi ai supermercati. Perché ha chiarissimo in testa dove e cosa costa meno, dove e cosa è di migliore qualità, dove la raccolta punti offre regali più allettanti. Un paio di giorni alla settimana, prima della spesa, fa un’oretta di palestra: bisogna pur mantenersi in forma. Ecco, io, io no. Penso che quelle che ci riescono, come minimo fanno uso di qualche sostanza poco legale. Io appartengo alla categoria casalinghe single, quasi divorziate e scrause come direbbe una mia amica. E la vita è dura per donne come me, nonostante il grande privilegio di non dover combattere per il pane quotidiano. All’alba di ore che variano, ma sempre si avvicinano al mezzodì, apro il primo occhio annebbiato vuoi da quella quantità di alcool vagamente superiore alle dosi consigliate ingurgitata la sera prima, vuoi dalla notte insonne o da una dose di Lexotan presa un po’ troppo tardi. Apro un occhio, poi l’altro, inforco gli occhiali e cerco di capire dall’orologio o dal cellulare quanta parte di giornata ho già sprecato. “Non devo dormire così tanto, ci sono un mucchio di cose da fare in casa…” Inciampando nella bottiglia dell’acqua, negli stivali e nelle borse della spesa dimenticate in corridoio, raggiungo il bagno. Sulla tazza richiudo un attimo gli occhi, non sono ancora pronta ad affrontare la giungla. Libera dalle prime urgenze corporali, in vestaglia rosa pallido, punto il radar verso la cucina dove un avanzo di caffè mi aspetta e lo sparo dritto nel microonde, accasciandomi poi sulla panca per inzuppare un paio di biscotti, molli perché il pacchetto era rimasto aperto, in quel rimasuglio di liquido nero. Tirato il fiato per l’immane fatica, ci vuole ancora un po’ di caffè per mettersi in moto e ne faccio mezzo litro di quello lungo, tipo americano. Se avanza, domani è già pronto. Se non sono obbligata a uscire per impellenti ragioni, volontariato, corsi, visite mediche, pratiche burocratiche, infilo una tuta con cui ginnastica non l’ho davvero mai fatta. Un’ occhiata in giro e un sacro fuoco mi prende. “Ora metto tutto a posto, Sì!” Prima, però, meglio sedersi un attimo sul divano a controllare i messaggi del cellulare, un’occhiata alle mail per quell’ordine di tavolette di cioccolato ai cristalli di rosa di cui proprio non posso più fare a meno. L’occhio cade in basso a destra sullo schermo del p.c.: le 14.00? Ma, come è possibile ? Sarà rotto. No, sono proprio le due, forse dovrei mangiare ma ora non ho fame, ho fatto colazione da poco. E poi dovrei andare a fare la spesa, o scongelare qualcosa. C’è un po’ di polvere sulla libreria, ora pulisco. Scala, mangia polvere, straccetto magico, salgo. Porca…, i guanti, scendo per prenderli, il campanello della porta suona: lettura gas. Non ricordo di aver visto il cartello ma apro, è la signora che viene sempre. Mi scuso per il caos, è una misera finzione, non me ne frega niente, ma si fa così. Se ne va. Cosa stavo facendo prima? Mi scappa la pipì, vado in bagno, studio il bidet, sarà il caso di spruzzare un po’ di Cif, ma la spugnetta dov’è? Ho buttato quella vecchia tre giorni fa e quelle nuove sono ancora nel sacchetto. In soggiorno la scala aspetta, in corridoio i sacchetti aspettano. Il computer è ancora acceso, ricontrollo le mail. Mi ha scritto la mia amica dall’Olanda, devo assolutamente risponderle. Ok fatto. Ora spugnetta e pulire bidet. Il Cif si è seccato e la crosticina biancastra è dura da levare ma il risultato è ottimo: bidet come nuovo. A ben vedere anche il resto del bagno avrebbe bisogno di una passata, prima però ci vuole un po’ di aspirapolvere altrimenti poi cade l’acqua e faccio un pasticcio. Fuori l’aspirapolvere dallo sgabuzzino, già che ci sono lo passo anche in corridoio. Suona il telefono, è mia mamma che vuol sapere se vado a cena, se domani l’accompagno dal dentista, cosa sto facendo, se posso darle una mano con i vasi in giardino. “No mamma, oggi non ce la faccio, ho troppo da fare, magari domani ci risentiamo”. In soggiorno la scala aspetta, in corridoio i sacchetti aspettano in compagnia dell’aspirapolvere. Ora un certo languorino lo sento. Le 17:00? Ma, com’è possibile? Va bè, farò merenda: un tè ,un budino, un mandarino per le vitamine. Mia mamma ha parlato di piante, e le mie piante? Sul balcone un po’ ammosciate aspettano l’acqua e una buona

Non scrivo favole – Anselmo Roveda

  “No, non scrivo favole”. E non ho occhi a cuoricino. Luoghi comuni e letteratura per l’infanzia di Anselmo Roveda Prima di sentirmi dire che sono uno scrittore dovrete durare fatica. Anche per i miei vicini di casa è scoperta recente. Di solito ci giro intorno, non sono uno di quelli che si presenta come ‘scrittore’, anche se i libri sono, ormai da parecchio, parte rilevante del mio mestiere letterario – ché poi si fa pure cronaca e critica letteraria, traduzioni, formazioni, conferenze… I primi tempi evitavo solo per timidezza. E timore. Temevo che vista la assai nutrita compagnia circolante di autoproclamati scrittori, in ragione magari di un solo titolo variamente pubblicato (self, stamperia sotto casa, EPA, minuscoli editori mai o mal distribuiti…), si potesse scambiare l’affermazione per millanteria, vanteria, mancato senso delle proporzioni o, peggio, della realtà. Poi si cresce, i titoli si moltiplicano, le occasioni pubbliche ti smascherano e così ho smesso di negarlo. Certo, ci giro intorno un po’. Ma lo dico. Mi dilungo e infine, in una sorta di coming out, lo dico: “Sono uno scrittore”. E la cosa piace, un po’ ovunque, perfino nei baracci che amo frequentare e nelle sale operatorie che mi è toccato visitare di recente. Ora però c’è un problema, sia con l’avventore da “gotti” sia con il chirurgo ortopedico. Le domande seguenti, infatti, sono “quali libri hai scritto” e “quale tipo di cose scrivi”. Ecco, tanto più avendo presente i livelli di lettura nazionali, citare un proprio titolo non funziona, a meno che, a seconda dei gusti, non siate l’autore di Gomorra, Tre metri sopra la cielo, La strada verso casa, Seta o Il cane di terracotta. Sul “cosa scrivi” è più facile e difficile. Evito di dire che credo e pratico l’idea di ‘autore totale’, come dice Andruetto. E cioè che scrivo ‘di tutto’, anche prendendomi il rischio di non essere efficace in ‘tutto’ allo stesso modo. Dico direttamente che scrivo ‘di tutto’. Perché le storie, spiego, prendono strade e forme diverse: alcune cose riesco a dirle solo in poesia (e in genovese); altre solo in forma rappresentabile ad alta voce, magari in radio; altre hanno forma narrativa più tradizionale, racconti, talvolta con sfumature nere o fantascientifiche; altre storie ancora, e sono la più parte del pubblicato, mi viene voglia di accostarle a lettori giovani o giovanissimi. Anche qui declinando le forme: dal testo per l’albo illustrato, al soggetto per fumetti, alla narrativa. Insomma, scrivo soprattutto “per bambini e ragazzi”. Ecco, l’ho detto. L’interlocutore, primario e/o alcolista, di solito dissimula la delusione con un sorriso: troppo articolata la risposta per dirgli, alla fin fine, che scrivo per mocciosi e brufolosi. Poi come in un’illuminazione, sinceramente entusiasta, aggiunge: «Ah! Che bello! Scrivi favole». Ecco, no. Non scrivo favole. Le favole sono una forma ben specifica della narrazione, fin dagli antichi, e a dirlo tutta, al di là dell’ampia proposizione a ricaduta sul pubblico dei bambini, non sono esattamente un genere letterario dedicato in modo esclusivo all’infanzia, anzi. Ad ogni buon conto, sbirciando alla voce favola nell’Enciclopedia Treccani (disponibile anche online) troverete: “Breve narrazione per lo più in versi. Quando si parla di f. come genere letterario, ci si riferisce comunemente a quella i cui caratteri fondamentali furono segnati già da Esopo e universalmente diffusi da Fedro: essenziale è che essa racchiuda una verità morale o un insegnamento di saggezza pratica e che vi agiscano (a volte insieme a uomini e dei) animali o esseri inanimati, sempre però tipizzazioni e quasi stilizzazioni di virtù e di vizi umani”. Appunto. Non ho nessuna verità morale o saggezza pratica da propugnare. Non rappresento di solito nelle mie narrazioni bestie; e tanto meno, qualora le usassi, le caricherei allegoricamente di vizi e umane virtù. Mi è capitato di rinarrare favole e fiabe, ma questo è un’altro discorso, anzi due (e già: oltre al tema della riscrittura, bisognerebbe pure mettersi d’accordo su cosa sono le fiabe; chi è stato al corso di Officina me ne ha sentito parlare). Io faccio semplicemente letteratura, che diventa per l’infanzia o per i ragazzi quando incontra soprattutto lettori di quelle età. Racconto, di solito, storie di uomini e donne, di diverse età, che si muovono in un tempo e in un ambiente, talvolta reali talaltra fantastici. E sebbene non abbia verità morali o saggezze ad orientare la mia opera, sono costituto come ogni autore (ed essere umano) da esperienze e desideri capaci di ricomporsi in una visione del mondo e in un sistema di valori. La scrittura di ciascuno, così come ogni azione umana (autori e no), trae senso, forza e peculiarità proprio da questi elementi. È quello che cerchiamo come lettori. Quindi, certo, dentro la letteratura per l’infanzia troverete visioni del mondo, ma non diversamente che in tutta la letteratura e sicuramente non ridotte a schematismi moraleggianti. Almeno nella buona letteratura per l’infanzia; delle cose di poco conto è inutile dire (e quelle abbondano anche nelle altre forme di letteratura). In breve: non scrivo favole. E a dirla tutta detesto le storielle edificanti, a maggior ragione con animali che sanno perfettamente se stare dalla parte del bene o del male. C’è però in agguato un’altra conseguenza sociale nell’aver affermato di scrivere per bambini e ragazzi. Insidiosa, scivolosa. E già, perché il nostro interlocutore, quale che sia la sua cultura, di solito ha una seconda prepotente inferenza. Infatti, oltre a farsi convinto che tu scriva favole, riterrà immediatamente che tu sia bravo, nel senso di buono: dal cuore gonfio di buoni sentimenti e dalla testa piena di leggeri lineari corretti pensieri. Una persona con una vita leggiadra e colorata come immagina siano (e per fortuna non sono) le illustrazioni per bambini. Del resto – pensa, in vasta compagnia, il nostro interlocutore – chi si occupa di bambini, fosse anche solo per scrivere storie loro dedicate, è sicuramente una persona buona, semplice, forse anch’essa infantile, libera dalle preoccupazioni e dalle miserie del mondo adulto. Spiace dirlo, ma oltre a non scrivere favole non sono neppure buono. Chi scrive per bambini fa