Ecco il primo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016: la cornice che abbiamo preparato per le storie dei partecipanti ad un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del gatto magico… oppure no! Il gatto magico… oppure no! I pavimenti di pietra non sono tutti uguali, eh no. Possono essere grigi, o bianchi, o neri. Possono essere lisci e rifiniti, o rustici, o colorati. Vi sfido a trovare due pavimenti di pietra identici. Vanto una certa esperienza in materia e vi garantisco una cosa: comunque sia fatto, un pavimento di pietra non è MAI un letto comodo. Uno poi si adatta, per carità, io dormo persino sui cornicioni all’occorrenza. Non sono un gatto schizzinoso. Ma nove umani addormentati per terra, in cerchio, non sono uno spettacolo che capita tutti i giorni. Stavo tornando dalla caccia notturna e sono rimasto a bocca aperta: talmente aperta che la lucertola mi è scappata. Mi sono affrettato a miagolarle dietro “vai, cara, oggi mi sento magnanimo!”, perché non si sparga la voce che sono un pasticcione, e poi mi sono acciambellato su un gradino a leccarmi le zampe. “Sento odore di bella storia. Vediamo un po’ che hanno combinato questi nove elementi…” Beh, ho aspettato a lungo: si sono svegliati che il sole era già alto, massaggiandosi le ossa doloranti. Uno dopo l’altro si sono messi a sedere e a portare in giro per la piazza nove sguardi smarriti. Sono balzato in mezzo al cerchio con l’aria di chi la sa lunga: “dormito bene, signori? Abbiamo alzato un po’ il gomito ieri sera, eh?” Una donna si è coperta la mano con la bocca mugolando: “oh mio Dio, un gatto che parla!” E qualcun altro: “un gatto magico!” E io: “…oppure no! Vi prego, signori, sono solo un normale gatto parlante. Niente di eccezionale, da queste parti. Anche il mio francese è discreto, se preferite…” Mi hanno fissato tutti e nove sbigottiti, come se non avessero mai visto un gatto parlante. Mi veniva da sbattere la coda dal nervoso. Capite, questi dormono per strada come i gatti, ma guai se un gatto parla come un uomo, sacrilegio! Due pesi e due misure, come sempre. “Voi, piuttosto. Voi chi diavolo siete?” Un altro lungo silenzio. “Miao? Un miao vi mette più a vostro agio? MIAO! Vi ho chiesto i vostri nomi! Che c’è, il gatto vi ha mangiato la lingua?” Quelli restavano zitti, e ho sentito ridacchiare dal muro di pietra la lucertola che mi era sfuggita. La mia immagine rischiava di venire decisamente compromessa dall’insubordinazione di quegli umani cafoni. Ho soffiato all’aria e sono tornato con un balzo sul gradino, pronto ad alzare i tacchi, quando uno di loro, un bambino con un forte accento straniero, ha preso la parola. “Non lo sow, chi sowno, I swear.” Gli ha fatto eco una seconda voce: “nemmeno io.” “Nemmeno io.” “Nemmeno io.” Tutti hanno alzato la mano, come a scuola, guardandosi l’un l’altro con aria interrogativa. Ecco. Perfetto. Non solo quei nove derelitti mi avevano fatto scappare la colazione, ma non avevano neanche una bella storia da raccontare! Ho sbuffato con impazienza. “Ma sì, state tranquilli. Ho capito. È la solita, noiosissima, amnesia del 3 di luglio. Mi ero scordato che giorno fosse.” “L’amnesia del 3 di luglio? Di che parli, gatto?”, ha chiesto una giovane. “ANCORA? Ancora nel 2016 il Comune di Apricale non avvisa i turisti della maledizione?” “…maledizione?” “La maledizione, maledizione, andiamo! È dal 1300 che i forestieri che si trovano ad Apricale il 3 di luglio perdono la memoria. È storia vecchia. E ancora a nessuno viene in mente di diffondere un comunicato stampa, chessò, di mettere un volantino. Turisti, tornate a visitarci domani, che se entrate nel borgo oggi vi va in pappa il cervello, una roba così.” “Ma parbleu, come è possibile? Chi ha lanciato una maledizione del genere, e perché mai?” “Senta, signorina, io sono solo un gatto parlante. Non ho le risposte a tutte le domande. E comunque nel 1300 non ero ancora nato, grazie tante. È semplicemente così. Una stupidaggine qualsiasi, credo. Qualche menestrello di passaggio che ha spezzato il cuore alla strega sbagliata. Vai a sapere. Ora, se volete scusarmi, lo stomaco brontola…”, ho concluso lanciando uno sguardo minaccioso alla lucertola irriverente. “Aspetta, gatto! Aiutaci, per favore. Come facciamo a recuperare la memoria?” “Lo sanno tutti. Dovete stanarla in paese, aiutandovi l’un l’altro. Nessuno può ritrovare la sua memoria da sé: bisogna che vi mettiate alla ricerca della memoria di qualcun altro. Ah, importantissimo: dovete riuscirci prima che il sole tramonti l’8 di luglio.” “Perché, che succede l’8 di luglio?” “Succede che o vi ricordate chi siete allora, o potete salutare per sempre i vostri ricordi. Tutto chiaro?” I nove a quel punto mi hanno riproposto la loro performance preferita: fissarmi in silenzio con aria grave. Fantastico. Ho deciso di perdere altri cinque minuti ad aiutarli perché vi giuro, erano il peggior caso di amnesia del 3 di luglio che avessi mai visto. “Ok. Dovreste ricordare qualcosa. Qualcosa di vago. In senso orario, prendete la parola e provate a darmi almeno un indizio… Può aiutare il compagno che cercherà la vostra memoria per Apricale.” Ha cominciato il bambino: “Absolutely nothing, davvero.” L’ho liquidato in fretta. “Ok, diciamo che sei un bambino. Sembri americano, dall’accento. Sarai un bambino americano, oppure no.” La giovane donna ha ammesso, timidamente: “forse je suis un’artista. Dipingo. Forse.” “Perfetto. Una pittrice francese. Oppure no. Avanti il prossimo.” Un omone dall’aria affranta ha scrollato le spalle: “Non ne ho idea. Ti direi un cavaliere, ma la situazione è talmente assurda che mi viene da dubitare della mia stessa esistenza.” “Va bene. Diciamo che sei il cavaliere inesistente. Oppure no.” L’anziano alla sua sinistra ha preso la parola con un colpo di tosse: “Musicista. Sono quasi sicuro di essere un musicista.” “Il
di Marco Usai, racconto vincitore del concorso di Officina Letteraria “Prima o poi entrerò nel cuore del mondo” era la frase che si era fatto tatuare l’estate della maturità. Parole ad effetto poco sopra le natiche, un’esca a caratteri gotici da aggiungere al piercing al sopracciglio che incorniciava lo sguardo scuro, fermo. Anche quando sorrideva, per lo più se in compagnia di qualche bella biondina glitterata, ad Alex restava appiccicato agli occhi qualcosa di malinconico. Mi faceva pensare a “Boys don’t cry”, con quel sound triste-allegro, tipo “vita innegabilmente amara ma stiamo quieti che così deve essere”. Insomma era un viveur con qualcosa di rotto dentro. Probabile che nei momenti felici gli capitasse di inciampare nel ricordo del fratello. Gli aveva insegnato i rudimenti dello stare al mondo per poi abbandonarlo senza neppure un ciao. Gente molto legata nonostante la differenza di età, con la stessa frase impressa sulla pelle, come uno stargate per l’aldilà, o forse un memo sul giungere al nocciolo di quel frutto succoso che la vita può essere solo a vent’anni. C’è chi pensava fosse solo un buffone esibizionista Alex, io credo che semplicemente provasse a seguire quel dettame lasciatogli in eredità. Certe sere s’impossessava di lui una follia gaudente e rabbiosa che a stargli accanto la vita poteva sembrare un gioco infinito. Passavamo nottate a esplorare stradine deserte, mentre la città dormiva rubavamo caschi e specchietti per rivenderli a pochi euro. Mi sentivo libero mentre gli facevo da spalla nell’ennesima rissa che scatenava per futili motivi, eravamo immortali anche nel tornare a casa con il viso segnato o mentre improvvisavamo un rally nelle mulattiere sopra Genova a bordo dell’auto sottratta a chissà quale schiavo sfortunato. Eravamo i sovrani di un mondo popolato da comparse in bianco e nero, in noi l’anarchia assumeva un significato più di stomaco che d’idea, eravamo i soli ad esser vivi… Fino a che mio padre non perse il lavoro. Quella che sarebbe dovuta essere la mia estate indimenticabile divenne quella in cui appresi le regole del giogo. Trovai impiego in un discount in periferia, la mia vita venne scandita da turni e pause caffè, pranzi cronometrati e anima scherzata da frustrati dalla vita. Era brutto ma era necessario, lavoravo molte ore e molte non mi erano pagate ma non c’era altra via. Avevo perso le ali e il mondo intorno perdeva colore, uscivo sempre meno spesso, la stanchezza veniva a riscuotere il suo conto. Alex era sempre lo stesso cercava, il cuore del mondo mentre io sistemavo scatolette. Mi veniva spesso a trovare e mi piaceva vedere come fosse ancora indomito, lui che non aveva crucci. Non lo invidiavo, era lo stendardo della mia anima sopita e adoravo quando rispondeva maleducatamente a miei superiori che mi bistrattavano nelle tediose ore salariate. Era un potenziale cliente, poteva tutto e mi tributava indirette rappresaglie che non tardarono a ritorcersi contro di me. Dovetti dirgli di non tornare a trovarmi a lavoro, la prese a male e non lo vidi più neppure fuori. I giorni passavano tutti uguali, lavoravo sempre, unica nota positiva di quei mesi fu la notizia del furto a danno del gran capo. Lo avevano alleggerito della sua moto da sogno, giusto mentre era parcheggiata sotto il discount. Una sera uscii dopo mesi di ascetismo forzato, mi sentivo spaesato ma risi di gusto quando sotto casa trovai Alex in sella a quella stessa moto. La usava da settimane come fosse sua. Mi disse che si vive davvero solo intorno ai duecento orari o facendosi una tipa diversa ogni sera. Che io stavo al mondo come un morto. Sorrideva, sembrava volermi martoriare ma aveva gli occhi tristi, forse era ferito, forse si sentiva abbandonato. Non lo vidi più. Una mattina grigia d’autunno lessi un trafiletto che parlava di lui. Aveva perso il controllo di quella bestia da cento cavalli fuggendo dalla polizia. Mi piace pensare che abbia avuto un’estate indimenticabile, che almeno lui abbia vissuto il cuore del mondo che sogno ogni mattina.
Sei sempre stato qui: recensione del romanzo di Eugenio Gardella, primo esordiente di Officina Letteraria, edito da Frassinelli
Domenica 25 settembre, contribuite ad arricchire la nostra giornata open day all’Edicolibro di piazza della Meridiana scrivendo un racconto breve ispirato dal binomio fantastico “Cinque” + “Cassetto”. Ci saranno letture dei binomi degli scrittori di Officina Letteraria Emilia Marasco, Ester Armanino, Sara Boero, Antonio Paolacci e di molti altri amici che stanno aderendo all’iniziativa. Come partecipare. Inviate una email a info@officinaletteraria.com o scrivete il vostro nome nell’evento su Facebook e noi vi metteremo in scaletta! Durante la giornata forniremo informazioni sui nostri laboratori in programma per il 2016/17. Edicolibro resterà aperto per il consueto scambio libri con i volontari di Officina Letteraria. Dalle 20:00 alle 22:00, apertura serale a cura di Collettivo Linea S. Info e FAQ: QUANDO: 25 settembre, 10:30-12:30 / 14:30-17:30; DOVE: a Genova in Piazza della Meridiana, presso Edicolibro; COME: il vostro racconto breve non deve superare le 4.000 battute e lo dovete portare già stampato; COSTO: è gratis, ma dovete prenotarvi; CHE COS’È un “Binomio Fantastico”? È un noto esercizio proposto da Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia, il binomio fantastico si basa sull’associazione di due termini che non hanno nulla a che vedere tra di loro: il compito degli scrittori è quello di riuscire a legare questi due termini inventando una breve storia. Se piove: l’evento si sposterà nella vicinissima sede di Officina Letteraria in via Cairoli 4. Scrivete, iscrivetevi al reading e condividete la notizia!
Il 20 settembre 2016 uscirà in tutte le librerie Sei sempre stato qui di Eugenio Gardella, edito da Frassinelli. Sembra una notizia normale per il sito di una scuola di scrittura, ma, invece, questa notizia è, per noi, estremamente importante, perché Eugenio Gardella è il primo scrittore che, dopo aver affrontato un percorso di crescita in Officina Letteraria, sia approdato alla meritata pubblicazione. Esordisce, si potrebbe dire. E noi con lui. Per festeggiare, mercoledì 28 settembre alle ore 18:30 la nostra coordinatrice Emilia Marasco presenterà il romanzo di Eugenio a L’Amico Ritrovato di Genova. Abbiamo chiesto a Eugenio di scrivere due righe sul libro, su di lui, su di noi. Dicembre del 2011, nasce Officina letteraria e mi iscrivo. Provo a buttarmi. Lì conosco Emilia Marasco scrittrice, fondatrice della scuola e docente di arte contemporanea e scrittura creativa. I primi giorni in aula, dopo troppi anni di solitaria scrittura da autodidatta alle spalle, trovo persone con la mia stessa passione, trovo un clima di scambio e di confronto. Scriviamo molto, ridiamo e scherziamo anche se a volte non è facile. Per me così refrattario alle regole è faticoso. Ricordo i racconti da improvvisare in cinque minuti poi in tre e poi in due. È un po’ come tornare ai primi giorni di scuola, ma è anche una ventata di freschezza e di entusiasmo. Poi leggo la Memoria impossibile il primo libro di Emilia, sull’adozione dei suoi figli, e mi colpisce per la sua verità. Anche io sono padre adottivo, certe cose non mi lasciano indifferente. Da anni voglio scrivere la storia della nostra famiglia. Dopo qualche giorno Emilia, tiene una lezione sul coraggio autobiografico. Capisco che può essere la strada per l’universalità. Inizio Sei sempre stato qui. Nel frattempo scrivo altri pezzi per Officina Letteraria. Trovare l’incipit, la voce, i punti di vista, stare nel numero di battute, asciugare, lavorare alle chiuse. Comincio a evidenziare un metodo. Comincio ad avere la sensazione che stia succedendo qualcosa. Emilia e Claudia Priano sono d’accordo nel dire che sono arrivato già fatto e finito, con già la mia cifra letteraria, ma io non sono del tutto d’accordo. Officina mi sta donando qualcosa di inestimabile, un ambiente fertile, un percorso di crescita dove il mio background viene fuori, dove imparo a essere consapevole dei meccanismi che utilizzavo da anni per scrivere. Specchiandomi in quello che le mie pagine provocano nei miei compagni, in Emilia e Claudia apprendo una lezione centrale. La consapevolezza di ciò che sto facendo. Alla fine del primo anno andiamo tutti a fare una uscita sui prati, c’è qualcosa di magico nell’aria, sappiamo che questo nostro corso è stato speciale. Durante l’estate lavoro al mio libro. Scrivo tutta la notte. Tutte le notti. A ottobre arrivo al secondo anno di Officina Letteraria pieno di aspettative, con Sei sempre stato qui più o meno finito nello zaino. Claudia non c’è più, ma la gentile anima di Emilia regge le fondamenta. Conosco Laura Bosio e lei mi colpisce con la sua umana professionalità, raccolgo il coraggio e le dò il mio romanzo, le piace e sceglie di utilizzarne il prologo per dare un prodigioso esempio di editing a tutti noi. Partecipiamo ad alcuni indimenticabili workshop, conosciamo i reading debordanti di Paolo Nori e i pazzeschi esercizi per strada, bendati, proposti da Giulio Mozzi. Poi anche questo anno finisce, porto a termine l’editing del mio libro con Laura Bosio e ancora qualche reading con Officina. Un po’ soffro di nostalgia. Passa un anno, ho il tempo di scrivere un altro romanzo e alla fine Emilia mi dà il contatto di un agente letterario. Le mando Sei sempre stato qui. Chissà, mi dico, magari un colpo di fortuna. Dopo qualche giorno ricevo una miracolosa telefonata. Grazie Officina.
Lavoro impegnativo. Full time. Moglie, figli, amici, nonni. Famiglia ingombrante. Blocco dello scrittore. Sindrome da foglio bianco. Mancanza di tempo. Cassetto inchiodato. L’idea non è abbastanza buona. L’idea non è abbastanza nuova. L’idea non è abbastanza scioccante. E, per chiudere, il classico “gomito che fa contatto con il piede”. Ci sono almeno mille motivi per cui non stai utlimando il tuo manoscritto, ma, siccome vogliamo essere positivi, ecco cinque buoni motivi per portare a termine il tuo primo romanzo. 1. Altrimenti non potrai mai scrivere il secondo. Sembra una battuta – e di certo lo è – ma forse non ci avevi mai davvero pensato bene: se sei tra quelli che tergiversano pensando che un romanzo sia un’impresa difficile, pensa invece che potrebbe essere solo l’inizio di una serie. Così è stato per tutti gli scrittori, perché per diventare autori bisogna certo iniziare a scrivere, ma non basta. Per diventare autori bisogna sapere quando e come chiudere il tuo primo lavoro. 2. Stai facendo più fatica a non finirlo di quanta dovresti farne per finirlo. Per alcuni è proprio così: un romanzo può essere un impegno tanto grande da sembrare impossibile da portare a termine. Ma portare avanti la storia che stai scrivendo significa fare delle scelte e ogni scelta comporta che le possibilità si riducono. Alla fine, arriverà un momento in cui non avrai più scelta e non potrai fare altro che finire. Alle volte basta superare uno scoglio che sembrava insormontabile, ma non lo era affatto, per vedere il resto della strada in discesa. 3. Non hai risposte, ma sai porre le domande giuste. Per altri accade questo: si inizia a scrivere un romanzo pensando che si debbano comunicare delle verità assolute, ma scrivere significa anche esercitare il dubbio, e può succedere di arrivare a perdere ogni certezza. Allora ricorda: la letteratura non ha il compito di fornire risposte. La scrittura è figlia del racconto e il racconto nasce per porre domande. Lo scrittore è colui che sa porre le domande giuste. 4. Quello che hai da raccontare non interessa a nessuno, finché non riesci a raccontarlo. Quindi àrmati di sincerità, affronta il tuo demone, quello che tieni chissà da quanto tempo chiuso nel cassetto, e abbi il coraggio di chiederti se a te interessa sapere cosa accadrà ai personaggi che hai ideato, alla trama che hai in testa, quell’idea che spinge per farsi scrivere. Se la risposta è sì, hai già trovato la prima persona che vuole leggerti: sei tu. 5. Perché, in fondo, quello che più conta è come va a finire la storia. O no?
Ecco i cinque racconti finalisti! Votate il vostro preferito per mezzo di un like alla foto corrispondente sulla pagina Facebook di Officina entro le ore 12:00 del 10 settembre 2016. L’autore o l’autrice del racconto con il maggior numero di voti vincerà un’iscrizione gratuita al Laboratorio di Primo livello “Grammatica delle Storie” 2016/17. Gli altri quattro finalisti potranno invece usufruire dello sconto del 15% sul costo del Laboratorio. Grazie ai numerosi partecipanti e all’amico Alberto Casiraghy per averci ispirato con il suo incipit. Buona lettura! “Ora di buio su un pianeta intraprendente” (Giulia Badano) Prima o poi entrerò nel cuore del mondo, ma lasciate almeno che mi presenti, così che la mia speranza a tinte fosche e amare abbia il privilegio dell’identità. Sono rinata circa quattro miliardi di anni fa dopo un’esplosione cosmica che ha sconvolto tutto. Non ho memoria di cosa fossi prima, probabilmente un pianeta come adesso, abitata da altri organismi che mi hanno amata e odiata fino al nebuloso collasso. Nella lenta ma costante dilatazione dell’universo ho vagato per lunghi eoni del tempo, senza meta, senza soluzione, in guisa di particella abbandonata a sé stessa ad oscillare per exametri indefiniti. Vita dura, quella della particella. I più massicci residui di materiale cosmico ti prendono a spallate per accaparrarsi il posto ritenuto migliore a loro unica discrezione, senza riuscire ad ammettere di essere più confusi di me. In realtà, in un mare di polveri bollenti, avevamo tutti perso l’orientamento e lo scopo della nostra esistenza, quale che fosse. E’ stato durante questa situazione di profonda incertezza e smarrimento che ho perso particelle a cui sentivo di voler bene. Annichilite dal calore infernale, hanno varcato la linea congelata e abbracciato il ghiaccio, scoprendo quanto quell’elemento possa essere magnifico e terribile e bastare di per sé. Una di loro si è guadagnata il nome di Nettuno. Dal canto mio, vagabonda errante e solitaria, non ho saputo scegliermi un angolo di universo senza prima chiedermi cosa volessi diventare. Ho impiegato meno tempo del previsto: qualche millennio, per sfiorare l’idea della completezza delle forme e dei climi. Nelle infinite pieghe del cosmo ho incontrato un granello brillante, circondato da un alone di argentata luce riflessa e discreta, con cui ho deciso di trascorrere il resto della mia esistenza a tre passi dalla nuova Fiamma che ci intiepidiva senza bruciarci. Io e il granello abbiamo trovato il nostro posto nello stesso isolato e cominciato a formarci al ritmo scandito dai suoi sorrisi un po’ sghembi, un po’ malinconici, dalle sue forme ciclicamente tonde, sbeccate, consumate, frizzanti, stanche. Crescendo accompagnata dai suoi umori mutevoli, ho dato forma all’esistenza, ho partorito terre e mari, ho innalzato montagne spruzzandole di neve, ho sguinzagliato il vento, ho addensato le nuvole e liberato il fulmine, ho rinfocolato il mio cuore con fluidi incandescenti e l’ho protetto avvolgendolo in mantelli solidi e compatti. Ho eretto templi ombrosi con radici, tronchi e rami, ho soffiato la sabbia su vaste distese di deserti ostili, ho generato microrganismi e vegliato sulla loro costante evoluzione. Anche sulla vostra. Così nudi. Senza denti aguzzi né artigli, senza ali per volare né branchie per immergersi, avete costruito armi, inventato scafandri per le profondità abissali e uccelli di ferro per solcare i cieli. Io ho amato la vostra astuzia, ho ammirato il vostro ingegno, ma ho sofferto nel vedervi ergervi a padroni miei e di voi stessi. Ho pianto lacrime di pioggia, mentre i vulcani hanno rovesciato la mia collera rovente. Mi sono spezzata gridando di dolore sotto scosse di terremoti violenti. Ho provato a vegliare su di voi, e quante vite ho visto accendersi e spegnersi, quanti passi ho sostenuto. Ma quante ruote, e chiglie, e rotaie, e trivelle e bombe mi hanno segnata. Quanto sangue ho dovuto bere e nascondere, quant’acqua ho dovuto accogliere per sentirmi pulita. Non so come faccio a essere così stanca e paziente, come sopporto di essere stata divisa in confini, tagliata da muri, frazionata da recinti e cancelli, a perdonare l’arroganza che vi rende indifferenti a ciò che calpestate. Prima o poi entrerò nel cuore del mondo, nel vostro cuore, e ricambierete l’amore che vi ho offerto senza pretese. Ma forse sarà tardi. Prima o poi vi guarderete indietro, e nella triste desolazione che avrete lasciato scoprirete l’impronta indelebile delle vostre colpe. “Orfeo ed Euridice” (Ilaria Carrozzo) Prima o poi entrerò nel cuore del mondo. “Si inizia scavando”, mi dicesti, seduta di fronte a me al tavolo della cucina, palpebre calde, girasoli al tramonto, il profumo di una bambina, le mani tese sopra la tovaglia ruvida come un’anziana cartomante, mostrandomi le unghie, tanto gialle da sembrare l’escrescenza dell’osso. Io cominciai da ragazza, grattando la porta di casa, impaziente di uscire come un cane d’appartamento, scattando fuori con una violenza nuova, la stessa di chi calpesta i gradini per raggiungere il proprio sedile in cima allo stadio. Le dita galleggiavano nell’aria, confuse, in attesa di impulsi. Fissavo atomi annoiati e scintillanti muoversi davanti alle pupille come nubili sospiranti a una festa. “Graffia le persone, i muri, le strade”. Le sillabe si attaccavano tra loro, mescolandosi, il tuo profilo era quello di una madre determinata che parlava con la voce di chi ha fumato l’ansia di essere schiacciata dal corpo morto di una vita che non ha mai sentito sua. Raggiungevo la scuola con l’energia rumorosa di un’onda, mi abbattevo su fiori che volevano essere forti, felpe e camicette orgogliose, ricordo che avevano profumi invincibili. Incidevo lettere sui banchi e li osservavo, rumorosi come canoni in una cattedrale durante una messa di Natale. “Lascia segni su tutto quello che vedi, solleva la superficie, delicatamente, come la corteccia di un albero, poi ruba un pezzetto dell’anima, sbriciolalo sui polpastrelli e usalo per tracciare il tuo rifugio, fuori di qui, perché in fondo scappare è trovare il proprio posto nel mondo, il tuo centro, il suo cuore, pulsante e chiassoso, rumore di zoccoli che ti porta via”, i tuoi occhi grandi, alieni, iridi blu scure ricordavano notti d’agosto sull’asfalto umido, ombre che
Ecco, ci siamo. Entro pochi giorni quasi tutti sarete in ferie o vi prenderete almeno mentalmente un po’ di pausa. Si semplifica, si stacca anche dai social. La pienezza dell’estate ci basta. Sconto per chi si iscrive subito. Però noi ci siamo, con i nuovi programmi. Se entro Ferragosto riuscite a decidere quale Laboratorio frequentare da ottobre, scriveteci una email a info@officinaletteraria.com Prenotando il Laboratorio e pagando l’anticipo potrete usufruire di uno sconto: se non siete ancora soci di Officina Letteraria avrete lo sconto 10%; se siete già soci, avrete uno sconto del 15% (invece del consueto 10%). La normale scadenza per iscriversi ai Laboratori è il 20 settembre 2016. Il Triennio. I Laboratori di primo, secondo e terzo livello durano più a lungo e compongo un Triennio di formazione; abbiamo risposto all’esigenza di molti di avere un impegno più continuativo. Scrivere al Mattino. Abbiamo una nuova tipologia di Laboratori organizzati il venerdì mattina: Scrivere al Mattino. Partiranno con La mia Storia, Laboratorio di scrittura autobiografica con Elena Mearini, e proseguirà con Le Storie degli altri con Sara Rattaro. Le conferme. Il lavoro sulla scrittura a Officina Letteraria non dimentica il corpo, l’Allenamento dello scrittore e le classi di Bioenergetica ne sono la prova. Il Laboratorio sulla narrativa per infanzia e ragazzi, Oltre le fiabe, si svolge in alcuni fine settimana: un lavoro intensivo, rivolto a chi è interessato a questo ambito che – lo ricordiamo – è uno dei pochi in salute dell’editoria. Un’esperienza rivolta in modo particolare a chi insegna o è a contatto come educatore con bambini e ragazzi. Il Laboratorio Leggere e Scrivere propone un programma tutto nuovo, con tre maestri che metteranno ali alle vostre parole. L’ospite. Chi frequenterà il Laboratorio di primo livello, alla fine lavorerà sulla lettura dei propri testi con la guida di Giuseppe Cederna, attore e scrittore. Lo ricorderete in Mediterraneo di Salvatores, ma, naturalmente, lui è molto di più. Il nostro primo esordiente. A proposito di romanzi, vi ricordiamo che il 20 settembre troverete in libreria il romanzo di Eugenio Gardella, nostro primo esordiente: Sei sempre stato qui (Edizioni Frassinelli). Concorso Pulcinoelefante. E poi c’è il concorso. Potete vincere un Laboratorio di primo livello scrivendo un racconto da un incipit che Edizioni Pulcinoelefante ci ha regalato per i nostri cinque anni di vita. Partecipate!
Per i nostri primi cinque anni l’amico Alberto Casiraghy di Edizioni Pulcinoelefante ci ha regalato un incipit. Mettete alla prova la vostra creatività e noi vi regaleremo un laboratorio! Regolamento del concorso Si partecipa con un racconto di massimo 4000 battute, a tema libero e che abbia come frase d’incipit: “Prima o poi entrerò nel cuore del mondo” Inviare il racconto all’indirizzo info@officinaletteraria.com, in formato .doc, entro e non oltre il 25 agosto 2016. Oggetto della mail: Partecipazione al concorso. Nel corpo della mail specificare il proprio nome e cognome, il titolo del racconto con cui si partecipa al concorso e la frase “Autorizzo Officina Letteraria a pubblicare il racconto allegato alla presente, nel caso risultasse tra i cinque finalisti”. I cinque racconti selezionati dallo staff di Officina come finalisti verranno pubblicati sulla nostra pagina Facebook, dove saranno votabili da ogni utente per mezzo di un like entro il 10 settembre 2016. Il racconto più votato dalla “giuria social” vincerà un’iscrizione al Laboratorio di primo livello “La Grammatica delle Storie” 2016/17. Agli altri quattro finalisti, lo sconto del 15% sul costo del laboratorio.
Proprio come in una vera officina, stiamo aspettando il carico di materiali e attrezzature per il prossimo anno. Questione di poco. Officina Letteraria sta per compiere cinque anni di vita e il 2017 sarà un anno di festeggiamenti, di riflessioni e di bilanci. Anche di cambiamenti, magari piccoli ma dettati dall’esperienza acquisita. Qualche anticipazione? Leggere e Scrivere. Abbiamo capito che il gruppo Leggere e Scrivere è diventato il laboratorio per chi vuole parlare di libri e scrivere un po’, ma senza impegnarsi in un percorso di formazione, è un modo per continuare a rimanere in Officina divertendosi e ricevendo degli stimoli interessanti anche se si sono già frequentati quasi tutti gli altri laboratori, è un modo per ritagliarsi uno spazio settimanale per un’attività che piace insieme a persone che in genere si piacciono vicendevolmente. Leggere e Scrivere è diventato il cuore di Officina, il nostro “Circolo Pickwick”. Abbiamo perciò deciso di affidare il cuore di Officina a tre maestri che mettono molto cuore nelle cose che fanno: Chicca Gagliardo, Pino Petruzzelli e Francesca Biasetton. Il triennio. Abbiamo capito che chi sceglie la formazione in tre livelli preferisce avere tempo davanti a sé, vuole usufruire il più possibile della relazione con i maestri perciò quest’anno allungheremo i laboratori di primo, secondo e terzo livello in onore alla lentezza necessaria per un progetto di scrittura. Ci saranno i maestri, gli scrittori che portano un contributo di esperienza o di tecnica relativa a un genere specifico, gli editor. E ci sarà anche un servizio di Writing help per chi, quando si trova da solo davanti al proprio schermo o al foglio bianco, scopre di avere un problema difficile da risolvere. Allenarsi alla scrittura. Abbiamo deciso di riproporre l’Allenamento dello scrittore, sperimentato lo scorso anno con risultati interessanti. Un training di tre mesi collocato a metà percorso, quando, poste le premesse e ancora lontano il raggiungimento dell’obiettivo, ci si può trovare nella fase più critica o si avverte l’esigenza di una sollecitazione a trovare nuovi modi per far scattare l’immaginazione e sostenere la creatività. Prossimamente. Continueremo con il Laboratorio di Editoria e Scrittura rivolto a chi desidera un primo bagaglio di informazioni ed esperienze sulle professioni che si occupano di libri. Un maestro e un avvicendamento di professionisti più un’esperienza pratica: la realizzazione di un libro. Con l’intento di fornire un training a chi vuol fare un uso professionale della scrittura, attiveremo Scrivere per i social network, sarà un laboratorio serale. Per chi ha tempo solo nei fine settimana o viene da fuori Genova o non vuole impegnarsi con laboratori di lunga durata, ci sarà un programma di workshop e sabati in Officina. E chi vuole scrivere al mattino, perché lavora in altri momenti della giornata o perché ha bisogno di uno spazio per sé perché si occupa di altri, il venerdì mattina ci sarà Dentro le immagini, arte e storytelling, in pratica due corsi in uno: arte contemporanea e scrittura. L’Ora di Officina è invece il nostro laboratorio online, che prevede alcuni momenti di collegamento via Skype sia collettivi che individuali, per chi proprio non riesce a trovare il tempo per venire da noi. È tutto. Ci si iscrive entro settembre, per chi si iscrive entro il 31 luglio c’è uno sconto. A ottobre comincia l’anno di Officina, si va avanti fino a maggio e chi non riuscirà a separarsi da noi in estate verrà in vacanza ad Apricale per continuare a scrivere.
Alcune domande a Yasmin Incretolli, giovanissima autrice di Mescolo Tutto, ultima pubblicazione di Tunuè Edizioni. “Non è affar mio, far finta che non esisto.” Quello che ho letto non è un libro “tipico”. L’ultima pubblicata dalla giovane casa editrice Tunué è un’autrice ancora più giovane: Yasmin Incretolli, classe 1994, nel suo Mescolo Tutto si esprime in modo inusuale. Inusuale, ma necessario; perché la lingua di Maria (la sua protagonista) è programmatica alla storia. Facciamo alcune domande a Yasmin, per addentrarci maggiormente in questo strano mondo racchiuso nel suo romanzo. Officina Letteraria: Mescolo Tutto fu menzione speciale al Premio Italo Calvino del 2015. Quanto è cambiata la stesura del romanzo dal concorso letterario all’edizione con Tunué? Yasmin Incretolli: Assieme a Vanni Santoni [curatore della collana “Romanzi” di Tunué n.d.r.] abbiamo escluso subito un’eventuale e importante alterazione della natura sperimentale dell’opera, che a suo avviso andava anzi mantenuta. Ero diffidente a causa di offerte editoriali arrivate in precedenza, che richiedevano come condizione la ‘‘commercializzazione’’, e quindi semplificazione a livello di lingua e struttura, nonché edulcorazione a livello di contenuti, del testo. Il romanzo è stato emendato gradualmente, attraverso scambi d’email durati alcuni mesi. Sebbene io sia molto giovane, Vanni ha accettato di buon grado le proposte e tenuto conto delle obiezioni che avanzavo. Quello che lo premeva di più era sopratutto far emergere la storia, che nella stesura iniziale accusava un po’ l’intransigenza dello stile. Inoltre il libro era più scarno nella seconda metà, che mi ha chiesto di ampliare. Ho sposato all’istante la prospettiva, lavorando su nuovi testi da integrare. “[…] l’amore, proprio mai l’avevo immaginata tale. Malgrado ne dicessero, a proposito, ch’era strozzafiato e ti metteva in ginocchio, come un’esecuzione. Alla domanda di cosa fosse la sostanza percepita riversarsi a fiotti lungo la gola, «Marmellata», rispose, pizzicandomi il mento.” OL: Nel tuo libro le parole hanno una grande importanza. Quelle che vengono scelte da Maria, la tua protagonista, sono studiate e meditate. Quale sforzo ti ha richiesto la scelta di un titolo per questo lavoro? Quali erano le motivazioni del primo titolo, Ultrantropo(rno)morfismo, con cui concorresti al Premio Italo Calvino, e quali sono state le ragioni del cambio in Mescolo tutto? Yasmin: L’evoluzione del titolo del libro è stata particolarmente faticosa, prima d’arrivare a quello finalmente scelto c’è stato un furoreggiare di brutture: questo già in prima stesura, tant’è che arrivata all’esasperazione le ho fatte implodere ottenendo: Ultrantropo(rno)morfismo. Chiaramente questo titolo non potevo lasciarlo, Vanni allora mi ha chiesto di stilarne una lista di una ventina diversi, e tra quelli a spuntarla è stato Mescolo tutto. Ispirato all’azione omonima dell’artista pioniera della body art Gina Pane. OL: Come hai scelto questa performance di Gina Pane, e qual è la relazione con la storia che racconti? Yasmin: Come Maria, la protagonista di Mescolo tutto, Gina Pane ha utilizzato il corpo nel tentativo di stabilire un dialogo con l’altro. Nel 1972 lambisce il suo viso con una lametta nell’azione Il bianco non esiste, dimostrando come la faccia sia il tabù dell’estetica umana. Molte delle sue performance cercano infatti di destrutturare un certo principio assai diffuso nella società: ‘‘non mettere in discussione’’. Anche Maria opera sulla propria pelle una personale verità fatta di stimoli violenti: di fatto, preferisce essere definita dalle ferite autoinflitte, piuttosto che dall’etichettamento sistematico (donna-corpo-figlia di madre single, etc.) in cui vogliono confinarla, un’immagine sulla quale non ha ne controllo né respiro. Mi piace ricordare anche un’altra azione di Gina Pane, Escalade non anesthésiée, dove s’arrampica su una scala chiodata: trovo che anche quella sia riconducibile alla postura che Maria assume durante la storia, ovvero quella di procedere malgrado il dolore. “I tagli, nient’altro che incantate fessure, ante socchiuse: spioncini dai quali è concesso sbirciare un pezzo d’archè.” OL: Come hai sentito il bisogno di raccontare di Maria, una diciannovenne autolesionista? Hai sentito necessaria una vicinanza di età con il tuo personaggio? Hai sentito la necessità, o semplicemente la voglia, di raccontare il dolore adolescenziale in una forma nuova? Yasmin: Scrivo da quando ho sette anni. Maria e la sua storia sono il risultato della mediazione tra un’adolescenza piegata all’elaborazione/proiezione di figure di donne forti (si scrive del resto anche per provare a ridisegnare il mondo e noi stessi), e la realtà dei fatti nella nostra contemporaneità, che vede la donna sempre come corpo o vittima, o le due cose assieme. Ho deciso d’introdurre una protagonista ‘‘cutter’’ perché è una forma fortemente simbolica di introiettamento della sofferenza, e anche perché si dice che l’autolesionismo sarebbe tipico nelle persone di talento, magari non riconosciuto, alla costante (e spesso ossessiva) ricerca del consenso da parte di chi non gli vuole bene (ahimè). Era un tratto particolarmente adatto, quindi, per caratterizzare una ragazza in continuo contrasto con una società sempre tesa a limitarla e incasellarla: perché donna, perché portatrice d’un aspetto che riconduce a una determinata condizione sociale, perché proveniente da una storia familiare travagliata, verso cui, come sempre accade, la comunità assume un ruolo inquisitorio, gioca a fare il tribunale invisibile. Quest’anno è giunto un nuovo alunno, espulso dall’antecedentemente frequentato I.P.S. Il suo nome è Jesus Fernando Rodriguez, si fa chiamare Chus. […] Nonna spifferò che un buon modo per regolarsi sulla cattiveria delle persone è controllare la storia traumatica del loro mento: Chus l’ha rotto due volte.” OL: Maria è il nome della protagonista, Jesus il nome del suo amato. Si tratta di un accostamento casuale? Yasmin: Sono emersi in modo naturale, scrivendo, e non credo che le dimensioni simboliche debbano emergere troppo o imporsi sulla storia. Maria è un nome comune in Italia, e Jesus in America latina non è inusuale. Verso la fine del romanzo la protagonista si paragona alla Maria Maddalena, la peccatrice penitente che attraverso la devozione al Cristo vuole espiare le sue colpe. Si potrebbe dire che nella ‘‘mia’’ Maria scatti qualcosa di molto simile con Jesus/Chus, il ragazzo argentino appena trasferito nella sua classe, e che in qualche modo diventa una sorta di incarnazione d’un purgatorio sociale – anche perché in lui non c’è niente di
Alla presentazione de “L’invenzione delle personagge”, libro edito da Iacobelli, ovviamente sono l’unico maschio. Non c’è di che stupirsi, e nel luogo comune ci stiamo anche un po’ comodi. Il libro, curato da Roberta Mazzanti, Silvia Neonato e Bia Sarasini, rilega opinioni e osservazioni di 23 autrici di varia estrazione disciplinare, orbitanti attorno al mondo della scrittura. Sempre che non si offendano a essere chiamate autrici, per la volgarità di questa declinazione del sostantivo maschile. Se è nato prima “autore”, ci sarà un motivo. Se Elsa Morante voleva essere definita “scrittore”, anziché scrittrice, aveva le sue ragioni. E certo. Io non è che sono maschilista. Ma un po’ contro il femminismo, sì. Poi tutte queste parole che finiscono in “ice”, come stanno male. Ricordano un po’ meretrice, non trovate? Le donne dovrebbero tenersi stretta la loro vera coniugazione: – inga. Da casalinga. Lasciamo stare i luoghi comuni? No. Non le lasciamo stare, perché è questo ciò di cui si è parlato. La discriminazione della donna in ambito letterario. Perché le donne, per quanto si sforzino, non possono che scrivere letteratura femminile. Esatto. Rosa. Lo scrittore, e intendo lo scrittore maschio, può scrivere di tutto. Già. Peccato che non legga di tutto. Gli uomini leggono uomini. Le donne leggono sia donne che uomini. E sarà per questo che ci capiscono un po’ di più, in fatto di relazioni sentimentali. Mentre Silvia Neonato parla, cerco di estraniarmi dal mio confortevole luogo comune. Provo a mettermi dietro agli occhi di tutte queste donne che mi circondano. Provo a sentire dalle loro orecchie. E scopro in effetti una scrittura fatta di sensibilità, di un sottotesto difficile da descrivere, perché spesso contiene anche questa piccola rivincita: sono donna e scrivo. Le donne sono un elemento recente, nella letteratura moderna. Hanno iniziato a leggere, e poi a scrivere, intorno al 1700. Sono nuove quanto gli smartphone, per capirci. E infatti c’è chi ancora non le capisce, in ambito letterario. Per sicurezza le confina nella letteratura di genere. Donne che scrivono gialli. Donne che scrivono di donne. Donne che scrivono di amore carnale molto passionale con qualche sfumatura. Come quando non sai cosa sono le app, e usi il nuovo iPhone solo per le chiamate. Che va benissimo, ma gli altri 500€ che hai speso rimangono sprecati dietro l’indifferenza. Va detto che gli uomini scrivono da sempre, e partono con qualche secolo di vantaggio sulle scrittrici. E anche in fatto di personaggi maschili, la letteratura si spreca. E i personaggi femminili? Esistono? Certo. E se esistono le scrittrici, le infermiere, le avvocate, le architette (anche se questo è un po’ osè), perché non ci sono le personagge? Da oggi ci sono, e ce l’ha insegnato Silvia Neonato. Le personagge sono più complesse dei personaggi. Ai personaggi basta che gli dai il calcetto il venerdì sera, una birra, un po’ di scollatura, e sono a posto. Le personagge vogliono qualcosa di più. “Sono di carta, ma vogliono essere amate come donne in carne e ossa”; amate finché morte non vi separi, e fortunatamente da qualche anno le trame stanno lasciando sopravvivere le nostre protagoniste, troppo spesso vittime di strazianti suicidi nella classicità. Ora che anche i nonni si sono abituati allo schermo touch, le donne sono diventate una realtà letteraria non ignorabile. E infatti le loro personagge vivono, sfidano, osano! Perché “la letteratura, specialmente quella pop che non passerà alla storia, è il ventre molle che rispecchia i cambiamenti del mondo”. Pensiamo a alcune delle più recenti eroine. Lisbeth Salander della saga Millenium di Stieg Larsson, che ci dimostra “quanto possa essere feroce una donna abusata”. Katniss Everdeen degli Hunger Games di Suzanne Collins (personaggia che non mi aspettavo di sentire nominare da una donna che non portasse jeans strappati a vita bassa e maglietta sopra l’ombelico). Questa protagonista che finalmente non è una ragazza che deve farsi maschio, ma diventerà una giovane donna, completa e vincitrice nella sua femminilità, e senza alcuna invidia del pene. Il libro raccoglie anche diverse dichiarazioni sulle personagge più amate dalle diverse interlocutrici. Ester Armanino confessa una passione per Salomè Otterbourne, un’eccentrica, vulcanica e alcolizzata scrittrice di mezz’età di discutibili romanzi del genere rosa-piccante, personaggio minore di Assassinio sul Nilo della celebre Agatha. E una chicca così poteva scovarla solo Ester, che ha uno spirito di osservazione maniacale per le donne in letteratura. Lei, che delle personagge ha fatto sempre le protagoniste (in Storia naturale di una famiglia, primo romanzo, e ne L’arca, appena uscito per Einaudi), ci confessa la sua scoperta: “le mie personagge sono sempre sdoppiate. La mia protagonista, se è donna, non è mai unica, ma è costituita da una traiettoria tra due donne differenti. Come Antigone e Ismene”. Le donne che scrivono donne, non le dipingono mai sole. Sono sempre in amicizia, o in antitesi, comunque in stretto legame. Questo perché le scrittrici portano con loro i ricordi dei rapporti intrecciati con altre donne. Motivo per cui “gli uomini, quando scrivono di una donna, la lasciano sola. E anche motivo per cui i miei uomini (quelli di cui scrive Ester) risultano sempre un po’ dispari”. Il mondo editoriale moderno, per fortuna, sembra riconoscere le potenzialità – meramente commerciali – della scrittura femminile (non rosa!). Pensiamo alla campionessa di traduzioni L’amica geniale e tutti i suoi seguiti. Annamaria Fassio, giallista genovese di successo, ci dice che “è stato il suo editor a chiederle di fare diventare Erica Franzoni, inizialmente personaggio secondario, protagonista assoluta dei suoi gialli”. Meno male. C’è speranza per il mondo maschile, che potrà leggere sempre più scrittrici (con la “ici”) di qualità. E di conseguenza, forse, capire meglio le donne. E sapere cosa a rispondere a “cosa guardi in una donna?”. Un buon libro per aprire nuovi punti di vista. Io non l’ho ancora letto. Sono pur sempre un maschio. L’invenzione delle personagge a cura di Roberta Mazzanti, Silvia Neonato, Bia Sarasini Iacobelli Editore
Valeria Dimaggio, Stefano Isidoro Radoani, Annalisa Pisoni raccontano ognuno con la propria poetica un’esperienza molto privata, attraverso momenti simbolici che rivelano la vita interiore del soggetto. Sono narrazioni di temi che spesso oscillano fra l’elusione e l’esibizione: il cambio d’identità sessuale e la malattia, qui sono affrontati senza ricerca di fascinazione, e con interpretazioni molto personali. Valeria Dimaggio con Io sono Roberto ci conduce con grazia verso la rinascita di Roberto, libero dalla gabbia di un corpo in cui non si riconosceva e che ora mostra con disinvoltura e ironia. Stefano Isidoro Radoani con Exit, parla di sé autoritraendosi e ci mostra la possibilità di poter convivere col dolore fisico, con la paura di non poter più controllare il proprio corpo, trovando una via d’uscita. Annalisa Pisoni con il video, dal linguaggio più onirico, Anatomia di un battito rappresenta come ricordi e pensieri, anche in un fisico esanime, abbiano la forza di modellare le cose della realtà, anche oltre i limiti della vita individuale. In queste narrazioni il corpo è al centro di paure e tabù di noi contemporanei, oggi più che mai alla ricerca dell’eterna giovinezza e di una salute e di una forma perfette, e così davanti a queste immagini è probabile uno smarrimento iniziale destinato a mutarsi in una sottile sensazione benefica, che deriva forse dall’empatia con i soggetti, con la loro intensità che ci fa diventare non più solo spettatori ma anche partecipi della loro storia. Piera Cavalieri
Quando ho preso per la prima volta in mano L’Arca le mie dita infreddolite si sono posate sulla copertina di carta opaca e dalla consistenza spessa e hanno cominciato a fare su e giù, incapaci di smettere, come tirate da una forza di piccoli fili invisibili, lungo e dentro l’azzurro che dalla superficie del libro promana. Credo fosse il modo di riconoscere qualcosa che si stava aspettando da un po’. Inutile fingere, ho letto il primo romanzo di Ester Armanino esattamente cinque anni fa, quasi in questo periodo, inutile fingere che non sia stato uno dei libri che più ho desiderato che ognuna delle persone che ci teneva a sapere qualcosa di me leggesse. Ai tempi non la conoscevo, se non tramite la familiarità che sentivo per Bianca, la sua protagonista, quel pezzo autentico di lei finito tra le pagine. E poi quella scrittura, quella scrittura così delicata e chirurgica allo stesso tempo, quella scrittura che non risparmiava niente, nessun dettaglio, nessuna emozione: sentivo vicina anche lei. Diceva le cose come si dovevano dire. Come capita quando incontri il libro e lo scrittore giusti al momento giusto. Una volta un ragazzo con cui uscivo, dopo aver letto il libro su mio suggerimento, con aria seria mi aveva allungato una domanda che non mi sono dimenticata: ma come fa a raccontare così lucidamente quei particolari dell’infanzia che quasi tutti si dimenticano? I casi sono due, si era risposto: o ha una macchina del tempo oppure è davvero brava. Sono abbastanza sicura che Ester Armanino non viaggi sulle macchine del tempo, anche se, forse, le piacerebbe. Comunque sì, la considerazione rimane la stessa, anche dopo aver letto L’Arca: non ha perso il dono, gli occhi del “bambino”. Questa volta li infila nello sguardo luminoso di Pietro, figlio di Nadia, sei anni, cucciolo dalla personalità acuta. È lui che, tirando il cordino della storia, ci porta a bordo dell’arca. Accanto e vicino ai suoi genitori, a sua zia, ai suoi cugini, al cane Barba e a un amico speciale. Pagina dopo pagina, ci presta i suoi occhi, che sanno ancora credere ai draghi e ci fa entrare dentro a una metafora che, con la potenza del simbolo, ha la capacità di rendere tutto più chiaro. Parlavo dell’azzurro della bellissima copertina, illustrata da Cecilia Campironi. Sì, le mie dita si sono tuffate, assetate, in quell’azzurro, perché in questo libro la pioggia è il più importante dei quattro elementi. L’acqua. L’acqua che scorre e minaccia. L’acqua che arriva violenta e lascia senza via di scampo. L’acqua di Genova, a volte, e di tutti quei posti in cui si è imparato a temerla. Ma la temevano già gli antichi ed è proprio così che il libro comincia: con Noè e la grande imbarcazione. Ma non è del tutto corretto, perché il libro comincia, a dir la verità, con la moglie di Noè, che, rannicchiata come una cimice nella barba del suo importante uomo, vuole raccontare per noi una prospettiva inconsueta di quella stessa storia che tutti, più o meno, conosciamo: ci tiene a dire perché anche lei è lì. La storia:“Io, hai detto sollevando le spalle. Come sono?” Teresa e Nadia. Due sorelle. La norma e la trasgressione. Sventatezza e Avvedutezza, come le chiamavano da piccole. Due poli al cui interno si cela anche l’opposto. Divise per anni dalla paura del giudizio dell’altra. “Volevo essere come te” E Pietro, figlio di Nadia, che “vorrebbe essere nell’arca” perché “vuole stare dove succedono le cose, anche quelle che non capisce”. Teresa, che non lascia affondare la nave, non la lascerà. Nadia, che ora ha bisogno di lei. E poi il significato della malattia “La radiazione elettromagnetica attraversa le sue diverse strutture anatomiche, quelle più dense e quelle meno dense, viene captata da piccole camere di ionizzazione, poi diventa un segnale elettrico, è elaborata dagli algoritmi, fornisce un’immagine. È quella la donna che sta cercando.” Una storia sull’identità. E sulle differenze. E su cosa vuol dire crescere sempre davanti alla propria ombra, come la intendeva Jung: il proprio opposto. “Ma non ho più paura a esserti compagna nella tempesta… Sorella, non negarmi il privilegio di morire insieme a te… Che vita sarà la mia, quando non ci sarai più?… In parti uguali è divisa la colpa.” (Antigone, tradotto da Ester Armanino e Maria Rosaria Di Garbo) Nel libro compaiono alcuni versi, tradotti personalmente dal greco antico all’italiano dalla nostra autrice, della tragedia di Sofocle, Antigone. Antigone ed Ismene, sono due sorelle che aiuteranno le due sorelle, Nadia e Teresa, a mettere a confronto le loro personali posizioni, i loro personali equilibri nella storia. Due cuori speculari. L’ordine e la rivoluzione. E allora che cosa sarebbe Teresa senza Nadia? E cosa Nadia senza Teresa? Sono state libere di scegliere i loro ruoli e i loro “difetti tragici” oppure si sono determinate vicendevolmente al contrario? Chi ha scelto meglio? Chi ha fatto meglio? Chi si merita di restare? Chi decide di andare? Chi di salvarsi? “Quale sarà la mia felicità? Che donna felice diventerà la piccola Antigone? Quali miserie bisognerà che compia anche lei, giorno per giorno, per strappare coi suoi denti il suo piccolo brandello di felicità? Ditemi, a chi dovrà mentire, a chi sorridere, a chi vendersi? Chi dovrà lasciare morire voltando lo sguardo?” (Antigone, di Jean Anouilh) L’Arca di Ester Armanino racconta, ancora una volta, del dolore e della separazione, della meraviglia e dell’intensità di ogni piccola scheggia di quotidiana realtà come di qualcosa di vitale importanza. Auguro anche a voi di poter sentire nella sua scrittura tutta la dedizione e la scelta fine e accurata che, cinque anni fa come oggi, ho percepito nelle sue parole. Una volta, poco tempo fa, mi ha detto che a volte si chiede che cosa pensino le sue parole di lei: lei che le sposta, le cambia, le aggiunge, le accorcia, le unisce, le lima, le taglia… all’infinito. Si sentiranno maltrattate forse, sottoposte a torture turche! Io, che sono qui a leggerne la composizione finale, credo che si sentano felici di stare dove lei le ha messe.
La nostra recensione di Volevamo essere Jo, romanzo di Emilia Marasco in uscita per Mondadori il 29 aprile 2016