Di Elisabetta Marasco. Circa un anno fa ho lanciato la proposta di un gruppo di incontro che si raccontasse e confrontasse sulle motivazioni della scrittura. Dovevano essere inizialmente tre incontri, andammo avanti fino a giugno. Ci siam rivisti a settembre… Rilancio così quest’anno l’iniziativa, per un nuovo gruppo, che si porrà nuovi interrogativi e nuove scoperte. Perché scrivo? Chi frequenta Officina Letteraria sa che da questa domanda inizia il percorso di consapevolezza e di formazione dell’allievo/scrittore. Tanto che Officina stessa custodisce gelosamente le risposte, e l’alternanza e la riproposizione della risposta e della domanda ai singoli allievi vanno a costituire dei punti di passaggio nel percorso formativo. Dietro a questo piccolo interrogativo (solo due parole!) si ingarbuglia, dipana e articola una infinita varietà di scelte, bisogni, aspettative, competenze, capacità, emozioni, pensieri, azioni, memorie, punti di vista, moltiplicate per tutte le persone, differenti per età, vissuti, esperienze che si trovano a frequentare un luogo (in questo caso lo spazio di via Cairoli) accomunate dal desiderio di alimentare, far crescere e dare spazio all’esperienza della scrittura. Il gruppo di incontro. Curiosamente anche per coltivare una pratica intima come la scrittura siamo istintivamente portati a cercare un luogo di formazione, non solo per apprendere, ma per condividere, perché nella specificità dell’aula l’esperienza del gruppo ha rimandi significativi per i singoli. Ma allora, mi viene da pensare, se questo spazio di confronto e condivisione ha una sua valenza può anche avere un suo luogo. Un suo orario. Un suo gruppo, che non ha bisogno dei criteri legittimi della formazione, ma nel quale si possono incontrare le persone che frequentano i corsi da anni, come i nuovi arrivati, chi frequenta i laboratori e chi il corso sul romanzo, chi ha già un libro nel cassetto, chi si sorprende ogni volta che gli esce una frase dalla penna. Anche persone che non si sono mai avvicinate ad Officina, com’è in parte accaduto dello scorso anno. Chi sono. Mi chiamo Elisabetta Marasco, e propongo un gruppo a tema dal titolo Perché scrivo? dove incontreremo gli altri, e forse anche un po’ noi stessi. Sono un counselor a mediazione corporea e collaboro ormai da qualche anno con Officina Letteraria. Partendo dal lavoro delle Classi di esercizi di Bioenergetica, ho intrapreso un percorso di ricerca sul processo creativo come opportunità per muovere energie, porci in una migliore connessione con noi stessi, migliorando così la qualità di vita, per noi, in relazione con gli altri e di conseguenza con un impatto positivo sulla società, aspetto da non trascurare. Come partecipare ai gruppi di incontro. La partecipazione al gruppo a tema Perché scrivo? richiede alcune semplici norme di cortesia: puntualità, riservatezza, e nei limiti del possibile volontà di presenziare agli incontri. Si svolgerà il martedì sera alle 20:30, due volte al mese, ha una durata di due ore complessive e ha bisogno di un numero minimo di 6 partecipanti. Occorre iscriversi entro una settimana dall’inizio, contattando il numero 338 4478930. Il primo incontro sarà Martedì 5 Marzo alle ore 20:30 presso Officina Letteraria, via Cairoli interno 4. Servirà al solito anche da orientamento e conoscenza per chi partecipa, e per stabilire il grado di interesse. Per informazioni: + 39 338 44 78 930 Io ci credo un sacco. Spero anche voi.
Il progetto di Cecilia Campani Ho aggiunto gli ultimi dettagli poco fa, finalmente ho finito il progetto. O almeno, ho finito di disegnarlo. Mi è arrivato l’ordine di costruire una cosa del genere una settimana fa, non ci ho messo neanche tanto. E’ stato difficile capire inizialmente come strutturare la cosa, ma credo di aver trovato il giusto compromesso. Sono delle docce, un po’ particolari. Il profilo della doccia classica è in ceramica, colorato alle volte. Queste le ho dovute fare in metallo: al passaggio del gas non avrebbe retto se no il materiale. Il tubo l’ho di collegamento l’ho fatto sottile mentre il soffione l’ho fatto un po’ più grosso, se no risultava inutile. Il tubo di collegamento dovrebbe proseguire al di sotto del pavimento, non era necessario una piazzola con il buco di scarico quindi l’ho omessa. Prosegue nel pavimento fino alla cabina energetica che lo alimenta. Accanto a essa vi sono i serbatoi: ne ho aggiunti alcuni, magari non bastano. Il resto non era di mio compito ma ho sentito i miei colleghi e dovrebbero aver quasi finito gli ultimi pezzi. Il nome tecnico delle cabine è motori, quello dei serbatoi generatori e le docce le ho nominate scaricatori. Il gas non l’ho scelto, non sta a me tale scelta. E’ stato molto divertente lavorare a questo progetto: uno potrebbe pensare sia una bazzecola per un ingegnere ma non è pr niente così. I primi giorni a ogni aggiunta spuntavano problemi di diverso tipo, sui materiali, la grandezza, l’utilità dei pezzi, la loro posizione. Un lavoro faticoso, molto, ma soddisfacente, molto, ora che l’ho finito. Il capo sarà proprio contento della mia efficienza e velocità. Forse riuscirà anche a togliermi questo dubbio: perché le docce a gas gli servono? Cioè, quelle a acqua lavano, ma queste?
Rom, un uomo di Claudia Badaracco L’estate stava terminando quando in città arrivò una comunità rom. Svernavano nelle periferie urbane, separati da una società di cui non volevano fare parte, ma che poteva fornire un folto pubblico per i loro spettacoli. Ricordo che raggiunsero Trieste una tarda mattinata di inizio settembre. Lavoravo vicino al luogo da loro scelto e vidi che iniziarono subito a montare i loro tendoni. Mi fermai a osservarli. La loro cultura, per quanto diversa dalla mia, mi affascinava. I loro volteggi nell’aria suscitavano in me il desiderio di una leggerezza capace di smorzare le rigidità del mio carattere. Immerso in questi pensieri, soffermai il mio sguardo su una figura in lontananza, asciutta e agile: era certamente un acrobata. Si avvicinò e mi colpì l’espressione pacata, ma sicura di sé che trasmettevano quegli occhi neri e sottili. Mi salutò cortesemente con un cenno. I giorni passavano e arrivammo a scambiare anche qualche parola. Si chiamava Stevan. A poco a poco capii che tutte le tradizioni della sua comunità, dalla musica al viaggio costante, esprimevano un anelito di libertà. La libertà di movimento, tuttavia, era per loro destinata a terminare presto. L’undici settembre, infatti, il governo fascista diede disposizioni per internare tutta la gente come lui, ritenuta “geneticamente criminale”. Dopo qualche giorno non vidi più Stevan né nessuno dei suoi. Vidi che il loro accampamento era deserto e compresi che non erano riusciti a fuggire, ma che erano stati vittime di una legge assurda. Passò un anno e anche a me, oppositore politico, toccò di essere internato. Mi mandarono a Birkenau. Mi spogliarono di tutto. Mi rasarono capelli, barba e peli, tatuarono sulla mia pelle un numero che porto ancora, indelebile. Mi costrinsero a indossare una divisa a righe. Tutto era indistintamente avvolto da una aura grigia di morte. Qualcosa cambiò un giorno. Mi spostarono in una baracca vicino al settore E del campo. E lì, oltre il filo spinato, la vita sembrava diversa. C’era qualcosa che mi era familiare. Vidi che lì erano rinchiusi i Rom e i Sinti. Diversamente dagli settori del campo, lì si trovavano riuniti insieme uomini e donne con i loro figli. Avevano mantenuto i loro abiti e i loro strumenti, con i quali, a dispetto della condizione in cui si trovavano, davano voce alla nostalgia di una libertà che li aveva sempre contraddistinti. Con la loro musica e le loro danze sapevano rimanere in equilibrio in quel mondo letale. Li osservavo e loro sapevano, come un tempo, infondermi il desiderio di una vita diversa. Ma in una notte, tremenda, anche tutto questo finì. Bastarono solo due ore, bastò una decisione di chissà quale pazzo. Improvvisamente sentii cani abbaiare, bambini piangere, donne e uomini strepitare spaventati e poi dolenti. Seguì un silenzio assordante. Il giorno successivo il fumo che usciva dai forni crematori era ancora più nero. Per un attimo il mio pensiero andò a Stevan. Caro mio, nella tua lingua “rom” significa “uomo” e la tua gente non ha mai smesso di esserlo.
di Marcello Mistrangelo I triangoli rosa sono per i pederasti. Ne servono tanti. Si prende una fettuccia già tinta e si taglia in diagonale, prima in un senso e poi nell’altro. Si riprendono poi i bordi perché non si sfilaccino, ma velocemente. Non bisogna perdere tempo, non è alta confezione. Sono solo marchi con cui identificare che veste la divisa. Però è importante la fase di tintura, che il colore sia di qualità e non sbiadisca. Perché giallo è per gli ebrei, rosa per i pederasti, ma rosso per i dissidenti politici. Non deve sbiadire. Un criminale politico non è comunque un sodomita, c’è diversità anche fra i diversi. Il cerchio rosso va cucito dietro, tra le scapole. Identifica chi è stato scoperto a voler scappare. Deve aiutare il soldato di guardia a prendere la mira, se il prigioniero si mettesse a fuggire. Questa commessa ha portato molto lavoro alla sartoria, siamo grate. Era una piccola ditta e la gente ha risparmiato tanto sui vestiti in questi ultimi decenni. Hanno campato a fatica, i padroni, per tenere aperto e riconoscere un po’ di salario a noi operaie. Ripeto, è molto importante la qualità della tintura. Perché nero è per i capi dei prigionieri, marrone per gli zingari. Non è la stessa cosa. Ci sono diversi migliori di altri diversi, in qualche modo. Giallo e blu sono i colori da comprare in maggior quantità, e di buona marca. Perché giallo sono gli ebrei, e blu gli spostati. E sono la maggioranza di coloro a cui danno lavoro, in quei campi.
Grete e Anne di Patrizia Minetto Il Dr. Franz mi deve parlare. Me lo ha mandato a dire da mia madre. E’ più di un medico per noi, un amico, una persona cara. Ha detto che deve parlarmi di una cosa molto importante che riguarda Anne. Ma non so niente di più. Anne è una bambina malata. Ora ha sei anni. Ha un gigantismo cerebrale, così mi dicono. E’ nata grande, troppo grande, con la testa enorme. Non sapevo come fare. Piangevo, piangevo, la guardavo e pensavo che era mostruosa. La baciavo sulla fronte per calmare il suo e il mio pianto. Non ha fatto tutto quello che fanno i bambini della sua età e mai ci riuscirà. Anche Franz me lo ha detto. È ritardata. Poverina. Forse ci sarà qualche notizia per me. Ci spero, ho sentito dire che sono stati aperti dei nuovi centri che studiano le malattie genetiche. La medicina sta facendo passi da gigante. Che emozione! Anche la mia piccola Anne forse è stata scelta per partecipare a questi studi nuovi. Me ne ha parlato la mamma di Frederick, Frieda. Anche lei ha un bambino malato. Ha una malattia diversa da quella di Anne ma anche lui non parla, non capisce proprio tutto. Anche lui, dice Frieda, ha una malattia ereditaria. Mi sono documentata e ho letto che c’è un nuovo filone di studi chiamato eugenetica che si interessa proprio alle malattie ereditarie e che illustri medici incaricati da Hitler in persona, stanno studiando nuove cure. Chissà se anche Anne è stata scelta. Frieda ha acconsentito alla somministrazione di queste nuove cure per suo figlio e mi ha raccontato che sono pericolose. Mi farò spiegare bene dal Dr. Franz quali sono i rischi. Anche un piccolo miglioramento sarebbe meraviglioso per Anne. Piccola mia, la immagino magari giocare con gli altri bambini. Un sogno! Frieda va a trovare Frederick ogni volta che può e so che le è dura stare lontano da lui. Non so se potrei stare lontana da Anne, non ci siamo mai separate, ha bisogno di me. Qualche giorno fa Frieda mi ha detto che Frederick è stato trasferito. Ora è in un altro centro più lontano. L’ho vista molto triste. Mi ha detto che le avevano scritto una lettera ma che ancora non le sapevano dire dove si trovava. La lontananza si può superare se la speranza di una vita migliore per tuo figlio esiste. Sì, posso farcela anche se dovessimo vederci poco per qualche tempo. E poi andrei a trovarla anche fosse in un ospedale più lontano. Sono tanti i bambini che sono stati scelti per ricevere queste nuove cure ma per ora non tutti. Mentre cammino penso a come starei senza Anne e quanta paura se dovesse capitarle qualcosa. Addirittura morire. Mi hanno detto che con queste cure i bambini possono morire. A volte gli devono fare anche una dieta particolare, chiamata dieta E . non so di cosa si tratta ma so che fa parte di questi nuovi metodi che la medicina sta sperimentando. Mentre uso la parola sperimentando mi sento male. Penso che nessun bambino neppure il più malato possa essere trattato come una cavia ma poi penso che tutte le cure nuove, proprio come i vaccini, possono essere pericolosi e all’inizio vengono sperimentati, Si, speriamo che ci sia una speranza anche per Anne. Cammino verso casa e il mio passo, non so perché, sta accelerando e così anche il battito del mio cuore. Il passo si sta trasformando in una corsa. Un brivido mi percorre. Avvicinandomi a casa sento mia madre, mio marito, sento le loro voci. Sono per strada fuori dalla porta. Intravedo le loro sagome ma non vedo quella di Anne. Dov’è ? il cuore in gola, corro sempre più veloce. Anne. L’hanno portata via. Non l’ho salutata, non ho firmato niente. Un foglietto nelle mani di mia madre con il nome dell’ospedale dove la porteranno. Non ho scelto. Non avevo deciso. Volevo sapere. Non avevo deciso. Perdonami bambina mia. Ti troverò. Perdonami .
Ester che ama una donna di Nadia Carì La amo. Ci amiamo. Ci amiamo di un amore che per noi è sincero, ma anche puro. Cosa che non è, oggi, agli occhi del mondo. Ma cosa esiste di più bello, nel creato, dell’amore? E chi lo ha detto che l’unico amore possibile debba essere solo quello tra un uomo e una donna? Se il sentimento dell’amore è proprio di ogni uomo e ogni donna, e ognuno di loro ha nella sua disponibilità quel meraviglioso sentimento, esso può poter essere elargito a qualcun altro che lo ricambi. A chiunque altro. E allora che differenza può mai fare se io, donna, esprimo il mio, verso un’altra donna? E se un’altra donna fa lo stesso, con me? E noi ci amiamo di un amore sincero e puro. Come solo il VERO amore, può essere: PURO E SINCERO. Io, Ester, lesbica ed ebrea. Questo, per il mondo in cui vivo è un binomio inaccettabile. Oh, non è che essere “solo” lesbica, o “solo” ebrea, non sia un problema nel mondo in cui vivo. Il mondo in cui vivo non è il mio mondo.
Ero solo un farmacista di Elena Gallia Ero solo un farmacista, oggi sono criminale Da quel momento divenni responsabile dell’approvvigionamento e della formulazione di nuove preparazioni a base di morfina, scopolamina, luminal e verolan. Mi chiamo Albert Keller, sono nato nel 1901 nel distretto di Wiesbaden. Ho studiato chimica, come mio padre e prima di lui mio nonno, per diventare farmacista e rilevare l’attività di famiglia. Mio fratello maggiore è morto durante la grande guerra, mia sorella è entrata in seminario per divenire suora di clausura, quindi in un certo qual modo sono rimasto l’unico figlio. All’età di sedici anni mi è stata diagnosticata una distrofia della retina all’occhio destro, che mi ha impedito di entrare nell’esercito, fanteria, come è stato per mio fratello. Nel 1924 mi sono sposato e mia moglie ha dato alla luce 4 bellissimi bambini, Alfred, Erich, Helmut e la piccola Annette. Era il 4 marzo del 1936 quando mi venne recapitata a casa una lettera dal Ministero della Sanità, nella quale mi veniva richiesto di prendere servizio presso il centro di Eichberg come responsabile chimico-farmaceutico. Dal 1936 al 1940 la Farmacia Keller venne gestita ad orario ridotto da mia moglie, mentre io tutte le mattine dal lunedì al sabato, timbravo la presenza presso l’Istituto di Salute Pubblica. Dapprima mi venne chiesto di riorganizzare i magazzini, inventariando e trovando nuovo destino ai farmaci scaduti. In un secondo momento mi venne chiesto di firmare un plico di documenti nel quale garantivo segretezza e discrezione circa il mio operato al servizio del governo. Da quel momento divenni responsabile dell’approvvigionamento e della formulazione di nuove preparazioni a base di morfina, scopolamina, luminal e verolan. Ogni settimana arrivavano ricarichi di materia prima, era quindi mio compito saggiarli, stoccarli e via via formularli in mono-somministrazioni iniettabili. Avevo a disposizione un laboratorio non più grande di 12 metri quadri, adiacente a un magazzino grande tre volte tanto. Trascorrevo le mie giornate li dentro, scandite da 4 campane. La prima del mattino all’arrivo del carico. La seconda a distanza di circa tre ore, per il ritiro del primo lotto di siringhe. In 2 ore riuscivo a preparare all’incirca 30 mono dosi. La terza a metà giornata indicava la pausa pranzo. E con l’ultima veniva ritirata la seconda tornata. A quel punto potevo rientrare a casa. Non mi era concesso di parlare con nessuno, non disponevo di nessun collaboratore. Gli stock di monodose pronti all’uso dovevano essere lasciati al suono della campana sul carrello metallico dell’anticamera. Sarebbero stati recapitati pochi minuti dopo da un’infermiera. Per molto tempo non conobbi il destino di quelle fiale. Un giorno chiesi al mio superiore, l’uomo che in origine mi fece firmare le carte, e rispose che l’ospedale aveva aumentato i posti letto accogliendo pazienti in fase terminale. La mattina dovevo entrare dalla porta sul retro, quella dell’ala nord ovest, e dovevo obbligatoriamente accedere al mio laboratorio attraverso le scale interne. Non mi era permesso transitare per i corridoi, accedere ai reparti. Dissero per ragioni di sicurezza e riservatezza. Venni a sapere per caso. Non si accorsero che la porta dell’ultimo bagno in fondo era chiusa e che in quel momento non mi trovavo in laboratorio. Stavano in piedi davanti all’orinatoio con l’uccello tra le mani. – Nelle ultime due settimane abbiamo avuto 32 decessi e nessuno dei genitori può sospettare non si tratti di morte naturale. Quelle iniezioni discrete sono miracolose, la polmonite è salvifica .- Scrollarono l’uccello, chiusero i bottoni e risero come rapaci appagati. Dopo allora ricordo solo la puzza di vomito tra i piedi.
Diversa di Cristina Colombo Bolla Non avrei mai pensato che la mia ribellione giovanile si potesse concretizzare in una stella gialla. “Io sarò diversa” era la mia frase preferita, quella che concludeva la discussione, quando litigavo con i miei genitori e uscivo dalla stanza sbattendo la porta. Ora lo sono davvero – diversa – ma come hanno deciso loro, non come intendevo io. Mi sentivo diversa perché a diciotto anni volevo continuare a studiare invece di accasarmi con un marito scelto dai miei genitori e crescere pargoli. Invece mi hanno detto che non potrò più andare a scuola, nè tantomeno iscrivermi all’università. Mi sentivo diversa perchè avevo cominciato a lavorare come cameriera in un ristorante per guadagnare qualcosa per i miei studi. Invece mi hanno licenziata, perchè il ristorante ora è riservato agli ariani. Mi sentivo diversa perchè alla sera non stavo chiusa in casa a ricamare e pregare come mia madre ma uscivo con i miei amici e andavamo a ballare. Ora non è più possibile. Molti di loro non mi possono più frequentare ed il buio è diventato pericoloso perché questa stella gialla brilla più di quelle nel cielo e rischio di essere aggredita e insultata senza che nessuno muova un dito per difendermi. Volevo essere diversa e ora vorrei solo urlare: “Non mi riconoscete più? Sono sempre io, sono la stessa di prima. Che cosa è cambiato? Che cosa ho fatto di male? Io sono uguale a voi”.
Famiglia mista di Silvia Casaccio Mio marito è di razza ariana, io sono ebrea. Il nostro è un matrimonio misto privilegiato, come lo definiscono loro. Non sono stata costretta ad abbandonare casa né i nostri figli e portare la stella, ma i vicini non ci rivolgono più la parola e siamo isolati. A me non pesa, mi ferisce il comportamento di Frank che mi costringe a stare lontana dalla mia famiglia. “E’ pericoloso, non possiamo fare mosse false” dice lui. Protegge i nostri figli. Frank mi riferisce che al lavoro i colleghi lo ignorano. Li sente parlare della nostra situazione. Lui non ha il coraggio di affrontarli. Non è mai stato un uomo coraggioso e si fa forza attribuendomi delle colpe. Non apertamente ma coi fatti: cenando in silenzio, non guardandomi negli occhi, non sfiorandomi. Sono sempre io! Vorrei gridarglielo ma le parole mi si strozzano in gola e scoppio a piangere. Ottengo così solo il suo biasimo. Avrei dovuto ascoltare mio padre quando mi diceva di non sposarlo “non è l’uomo per te”. Io però ne ero innamorata. Le persone appaiono migliori quando non ci sono criticità. Con mia madre ci scambiamo delle lettere. Le nascondiamo ogni volta in un posto diverso. In ogni nostra corrispondenza c’è l’indicazione di dove si trova il messaggio successivo. Frank non sospetta nulla. I miei genitori se la passano male, sono senza lavoro nonostante siano due medici stimati. Almeno prima. Ora praticano la professione di nascosto e solo per gli ebrei come noi. Sono stati costretti a vendere i quadri e le porcellane per pochi soldi. Patiscono la fame, mia madre è molto dimagrita anche se non lo ammette. I vestiti gli stanno grandi. Potessi abbracciarla, dirle quanto le voglio bene, portarla via dalla Germania. Non esiterei a lasciare tutto e tutti ma il tempo per fuggire ormai è passato, lasciandoci increduli e senza speranze.
La moglie di un soldato tedesco di Sabrina Branchi Franz dice che è giusto, bisogna farlo per il bene della patria, per la nostra Germania. Come ogni mattina gli ho lasciato la divisa pulita sopra il letto. Quando non la indossa sembra diventare un’altra persona, un padre amorevole che gioca ai soldatini insieme a nostro figlio Thomas. Gli racconta che la sua uniforme è magica perché l’aiuta a sconfiggere gli orchi malvagi. Gli è sufficiente metterla indosso per diventare ancor più forte e coraggioso sebbene non sia lui a dettare le regole. È una guardia ubbidiente e responsabile, qualunque gesto o azione gli vengono ordinati di fare procede senza biasimare perché è un bravo soldato e come tale non si fa troppe domande, non ricerca inutili spiegazioni. Deve soltanto agire in un certo modo, in quel modo considerato da chi sta ben al di sopra di lui come l’unica soluzione possibile ed efficace. Thomas lo ammira e vorrebbe poter avere anche lui una divisa dai simili poteri così da diventare ubbidiente quando mi fa arrabbiare. Ogni sera quando torna a casa il mio caro marito mi bacia sulla fronte, accarezza il viso del nostro bambino e poi ci mettiamo a tavola per cenare. Ogni tanto senza che se ne accorga lo osservo e mi viene in mente proprio la sua favola dell’uniforme magica: “Chissà a quante persone quella bocca calda e carnosa che mi bacia alla mattina e alla sera avrà urlato, umiliato e sputato contro? E le sue mani grandi e forti che fa scorrere lungo la mia pelle nei nostri momenti d’intimità quante frustate avranno dato? Quanti individui avranno impiccato? A quanti esseri umani avranno sparato? Non lo so, meglio non sapere; preferisco pensarla anch’io come la fiaba dell’eroe che salva il suo popolo dai mostri cattivi. Adesso sono stanca e per giunta ho mal di piedi per via di quel paio di decolté nuove. Finisco di riassettare la cucina, metto a dormire il mio piccolo e mi distendo sul divano accanto a Franz.
Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, uno spettacolo itinerante di parole, musiche e installazioni, ci aiuterà ancora una volta a riflettere su quanto accaduto, sulla necessità di ricordare, di mantenere vivo il passaggio di generazione in generazione della conoscenza dei fatti, delle conseguenze, del grado di disumanità che è stato possibile e che è sempre potenzialmente ripetibile. Una responsabilità, quella della memoria, che ci coinvolge tutti. Lo spettacolo Lo spettacolo si intitola Countdown ed è organizzato da Arcigay con la collaborazione dell’Accademia Linguistica di Belle Arti, dell’Università di Genova e di Officina Letteraria Gli allievi di primo livello, insieme ad alcuni maestri di Officina e scrittori genovesi, hanno scritto i testi dello spettacolo. Gli allievi del laboratorio Grammatica delle Storie, condotto da Emilia Marasco, sono: Sabrina Branchi, Claudia Baldracco, Cecilia Campani, Nadia Carì, Silvia Casaccio, Cristina Colombo Bolla, Elena Gallia,Patrizia Minetto, Marcello Mistrangelo. Hanno lavorato su alcuni passaggi dello studio “The ten stage of genocide” di Gregory H. Stanton. Hanno scritto brevi, a volte brevissimi monologhi, e ne hanno prodotti più di quanti servissero per lo spettacolo per entrare profondamente in un clima. I racconti Ne pubblichiamo alcuni, fino al 27 gennaio, come nostro piccolo contributo al Giorno della Memoria. Quelli selezionati per lo spettacolo sono sul sito www.omocausto.it Leggi i racconti. Dove e quando? Lo spettacolo sarà domenica 27 gennaio 2019 alle 17.30 all’Albergo dei Poveri, piazzale E. Brignole, Genova.
Questo che puoi leggere di seguito è uno dei racconti finalisti al concorso “Scrivere apre i corsi”, organizzato da Officina Letteraria per l’anno 2018/2019. I racconti possono essere votati utilizzando il pulsante che trovi in fondo all’articolo. Potrai votare ogni racconto una sola volta, fino alle 24:00 di domenica 23 settembre 2018. Al termine del concorso, l’autore del racconto che avrà ricevuto più voti, vincerà l’iscrizione gratuita al laboratorio di scrittura di 1° livello La grammatica delle storie. A questo link puoi leggere tutti gli altri racconti in concorso. Buona lettura! Scrivere il futuro di Silvia Casaccio “Che fatica, come ho potuto lasciarmi convincere a raggiungere la vetta di Pianfoglia” pensò Bianca mentre si arrampicava per lo stretto sentiero. Gli unici rumori a farle compagnia erano i propri passi veloci sui ciottoli disconnessi e i battiti del suo cuore. “Ecco quel che capita a stare a sentire il vecchio pazzo Sam”. Bianca da qualche tempo era ossessionata dalla conoscenza del futuro e si era rivolta esasperata al vecchio del paese. “La strada per la conoscenza è piena d’insidie. Arriva alla vetta più alta ed interroga il dio Chiochio” aveva risposto Sam. “Chi sarebbe Chiochio?” provò a chiedere inutilmente Bianca. “Non arriverò mai prima che faccia buio. Forse la fatica è già una prima insidia da superare, così come saper dominare l’ansia”. La pazienza è un’arte che va allenata poco alla volta e Bianca sapeva che era un suo limite. Avrebbe voluto conoscere l’evoluzione dei propri studi, le aspettative di vita dei suoi cari. A nulla erano valse le parole di suo padre: “il presente è l’unico tempo che puoi vivere”. Nel frattempo il cielo si stava facendo sempre più cupo e uno strano vento le accarezzava il viso. Era tardi per tornare indietro, doveva resistere ancora un po’. Dopo una mezz’ora di salita Bianca giunse finalmente al punto più alto della montagna, dal quale poteva dominare tutta la costa sottostante. “Ci siamo, è il momento di interrogare il dio di Sam”. Quali parole avrebbe dovuto pronunciare per farlo? La ragazza si guardò dentro per cercare la giusta ispirazione ed infine urlò a gran voce “Chiochio svelami il futuro!”. Bianca si mise in ascolto e proprio in quel momento il vento prese forma tramutandosi in uccello “Chi sei?” tuonò. “sono un’anima in cerca della propria rotta” “Hai avuto fede e coraggio ad arrivare fino qui. Sei libera di scrivere il tuo futuro” e svanì tra le nuvole. Bianca rimase turbata ed incerta del significato di quelle parole ma tornò a casa più serena. Il suo futuro restò sì un mistero e questa volta lo accettò.
Questo che puoi leggere di seguito è uno dei racconti finalisti al concorso “Scrivere apre i corsi”, organizzato da Officina Letteraria per l’anno 2018/2019. I racconti possono essere votati utilizzando il pulsante che trovi in fondo all’articolo. Potrai votare ogni racconto una sola volta, fino alle 24:00 di domenica 23 settembre 2018. Al termine del concorso, l’autore del racconto che avrà ricevuto più voti, vincerà l’iscrizione gratuita al laboratorio di scrittura di 1° livello La grammatica delle storie. A questo link puoi leggere tutti gli altri racconti in concorso. Buona lettura! Scrivere apre i porti di Annalisa Aiello “Vorrei rivederti in un giorno d’estate”. Iniziava così la sua lettera, scritta in corsivo stretto. L’inchiostro inverdito dal freddo d’inverno, una macchia di caffè all’angolo. Un cerchio sbavato e perfetto, due lacrime a capoverso. Erano già passate sei intere stagioni e non lo si vedeva tornare, tanto da dubitare che fosse davvero mai esistito. Iniziava così la lettera di Giova, -in un giorno d’estate- e d’attesa. Qualcuno partiva dal porto sotto la scogliera, trascinando una valigia dalle ruote plasticate. Qualcuno ancora dava un ultimo bacio, un abbraccio. Giova rimase a guardare la vita sotto i suoi occhi, riflettendo sul significato della parola “porto”. Chi partiva, in effetti, qualcosa portava con sé. Ma non sono più le cose che si lasciano, quando si parte, rispetto alle cose che si portano? “Un Porto è soltanto un Lascio di un ottimista, pensava.” E attendeva ancora. Alcuni pescatori amatoriali ormeggiavano le piccole imbarcazioni ai pilastri, sbrogliando le reti intricate di nodi e pescame. Una linea sottile divideva la strada trafficata dal pontile poco vicino. Una macchina nera si fermava un istante a respirare l’odore del sale mischiato alla pelle, per poi ripartire verso la città intasata. Un’aria di calma e malinconia si appoggiava ai capelli di chi si salutava per l’ultima volta. Una folata di vento strappava un cappello rosso ad una bionda e lo trascinava verso la strada. L’architettura di una partenza sembrava fatta di cose che lottano per cambiare strada, per invertire le rotte e – una volta aperto-, un porto non era altro che un costato fatto di vita che viene, battente. Giova strinse la sua lettera fra le mani, stropicciandola appena.
Questo che puoi leggere di seguito è uno dei racconti finalisti al concorso “Scrivere apre i corsi”, organizzato da Officina Letteraria per l’anno 2018/2019. I racconti possono essere votati utilizzando il pulsante che trovi in fondo all’articolo. Potrai votare ogni racconto una sola volta, fino alle 24:00 di domenica 23 settembre 2018. Al termine del concorso, l’autore del racconto che avrà ricevuto più voti, vincerà l’iscrizione gratuita al laboratorio di scrittura di 1° livello La grammatica delle storie. A questo link puoi leggere tutti gli altri racconti in concorso. Buona lettura! La questione di Giovannamaria Daccà D’in s’un acquarello antico una fanciulla s’intravedea. Ella l’infinito scorciava ed una rondinella, lì presente, le annunciava la fatidica nova primavera. Ella, Cercopiteca, era una giovine sposa promessa, che attendea sommessa il ritorno del suo amato, invano con lo sguardo cercato. Il baldo giovine in questione di nome facea Atteone. Egli, garzone alla bottega del maniscalco era stato, ma, arrivati gli Ussari a depredare il villaggino, costretto fu a salir sul primo galeone, che lo avrebbe tratto di fuori la questione. All’amata, accorsa subito al porto, egli promise, in un bagno di lacrime s’intende, che la fortuna avrebbe cercata e, trovatala, ad ella si sarebbe ricondotto per salvarla da tutto quel bailamme. La damigella, rimasta al villaggio sotto il giogo ussaro, costretta fu a lavorare alla filanda e, presto, con un ussaro avrebbe dovuto sortire, perdendo così il poco tempo che avea al vespro per sperare ancor nel suo dolce futuro maldestro. Trascorse erano alcune primavere e di Atteone nemmeno un bel veder. Dunque, miei cari curiosi lettori, qui vi si dispiegherà la solinga vicenda dell’astante giovinetta, che si credea perduta… oh ma qual disdetta! Ogne mattina, compresi i dì di festa, Cercopiteca al lavoro si recava lesta e mesta. Certo sì, ella alla filanda tenea qualche comare a cui gli affanni confidare, ma, in vero, la damigella era proprio una solinga fringuella. Ella, non volendosi ad un ussaro maritare, un piede si sarebbe fatta amputare! Con ogne inganno ella evitava le fiere, sciagura di tutte le paesanelle più fiere. Tuttavia, la primavera nova arrivò e all’orizzonte si scorse, ahimè giammai fosse, un epoichia di ussari arrivare. Allora tutti si diedero un gran da fare: e briga e tira e molla, i nuovi ussari anche sta volta la spuntaron e le sabine rattaron. Qual gaudio fu a Cercopiteca, tuttavia, nello scoprir che la Bendata cieca mai è… Al finir si dice che la sbarbatella rapita fu dal suo Atteone, che in salvo la portò da gran birbone!
Questo che puoi leggere di seguito è uno dei racconti finalisti al concorso “Scrivere apre i corsi”, organizzato da Officina Letteraria per l’anno 2018/2019. I racconti possono essere votati utilizzando il pulsante che trovi in fondo all’articolo. Potrai votare ogni racconto una sola volta, fino alle 24:00 di domenica 23 settembre 2018. Al termine del concorso, l’autore del racconto che avrà ricevuto più voti, vincerà l’iscrizione gratuita al laboratorio di scrittura di 1° livello La grammatica delle storie. A questo link puoi leggere tutti gli altri racconti in concorso. Buona lettura! 4 settembre 2010 di Maurilio Tavormina Sono le 19 e 41 e il pensiero di lei mi ha appena sconquassato come se fossi stato tamponato da un blindato portavalori. Ho dovuto accostare la mia Duna come per scendere e constatare il danno. Parabrezza annebbiato dalla salsedine, litoranea deserta e il vento che rincorre sabbia e lattine vuote su questo straccio d’asfalto. Un’altra estate pugnalata a morte da Settembre. Come ha fatto lei con me, lei che per me era sacra come una vacca in India. Colpa di quell’idiota dagli occhi a mezz’asta anche da sobrio e la camicia da boscaiolo pure al mare. Ma assomigliava a Guccini quando abitava in via Fabbri 43 ed è per quello che me l’ha portata via. Recitava la parte di un novello Thoreau, tutto alpeggi e legna da tagliare, ferrate, formaggio di malga e grandi silenzi con daini e caprioli. Ma non disdegnava la villa al mare dei suoi vecchi e i loro conti in banca. E Sara amava i conti in banca forse più di Guccini e adorava chi fingeva di non averli. Io non ho mai finto, non ne avevo bisogno. Credevo che tenere un diario aiutasse a buttare fuori i propri pensieri, ma sono fesserie: la penso sempre. E allora sì, ora la penserò ancora più forte, penserò ai nostri giorni, ai nostri posti, alle nostre parole, penserò a tutte queste cose e le affiderò a quel gabbiano laggiù che pare ubriaco di salmastro ma è solo annoiato dal vento. Ecco, proprio ora scompare dietro il promontorio. La cercherà e la troverà perché i pensieri non li puoi fermare e arrivano sempre a destinazione. La troverà, forse in baita, ad aspettare il sosia di Guccini perso tra i boschi a parlare con i lupi, o forse sul pizzo di un monte, a chiedersi come c’è finita lì, lei, la mia vacca indiana senza più India. E quando, perduta nei suoi orizzonti senza blu, vedrà quella nuvola a forma di gabbiano, le arriverà il mio pensiero e si ricorderà del nostro mare, della nostra Fiat Duna giallo positano, di me e di quanto le ho voluto bene. La radio passa il tormentone dell’estate, fuori tempo massimo. E pure per me si è fatto tardi.