Racconto per ragazzi al Premio Anna Osti

Officina Letteraria al Premio Anna Osti

Laura di Biase conquista il podio del Premio letterario Anna Osti, dedicato alla letteratura per l’infanzia e per ragazzi, e lo fa con un racconto che ha iniziato a scrivere durante uno dei nostri laboratori. Ne siamo orgogliosi e vogliamo raccontarvi come è andata, con la voce di Laura. Prologo Quando un maestro di Officina Letteraria parla è sempre bene starlo ad ascoltare. Così quando Anselmo (Roveda, docente di “Oltre le fiabe” ndr) ci ha proposto il gioco “scriviamo una storia con un segreto” ci siamo guardati, abbiamo fatto vagare gli sguardi sul soffitto, per fortuna alto così ci stavano tutti, e poi giù, a scrivere. Una paginetta striminzita, per me. Poi vado a casa, curiosa di vedere come va a finire questa storia fatta di gatti, puntini rossi e peli bianchi. E quando l’ho scoperto decido di inviarla al “Premio Anna Osti“, dedicato alla letteratura per l’infanzia. Incipit “Ciao, mi chiamo Artemisia. Non ditemi niente sul mio nome, non so cosa sia preso ai miei di chiamarmi così. Mi hanno detto che è il nome di una famosa pittrice. Sì, ma di quattrocento anni fa! Così mi faccio chiamare Mimì, non è che mi piace tanto, ma è sempre meglio di Artemisia. Ho nove anni, i capelli neri ricci e gli occhi blu come quelli di nonna Gina. Ho una sorella più grande, si chiama Dafne. Anche lei, che nome… E ho un segreto.” Questo era l’incipit del racconto che ho iniziato a Officina Letteraria durante una lezione di laboratorio. Non sapevo cosa ne sarebbe uscito, e invece? Epilogo E invece sono arrivata finalista al “Premio Anna Osti”: piccoli grandi dispetti tra sorelle e, alla fine, un segreto troppo difficile da raccontare. La buona struttura del testo, l’ottimo utilizzo del linguaggio, il ritmo incalzante, la forza delle emozioni suscitate: ogni aspetto del testo è funzionale ad una narrazione calibrata sullo sguardo tipico dei bambini che evidenzia una chiara capacità di osservazione del vissuto infantile. Questo ha detto di me la giuria. Grazie Officina Letteraria e grazie alla Giuria che ha scelto di giocare insieme a me con un gatto e i suoi peli bianchi! Laura di Biase  

Immagine dal film Le nostre anime di notte.

Le nostre anime di notte: dal libro al film in mostra a Venezia

Fino a una settimana fa non avevo mai sentito parlare di Kent Haruf. Poi sono successe un paio di cose. Il 1 settembre, Robert Redford e Jane Fonda hanno ricevuto il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia e dopo la premiazione è stato proiettato Our souls at night, tratto dall’ ultimo romanzo di Haruf, di cui sono protagonisti. La cosa non mi ha impressionato più di tanto ma un amico, dopo la mia confessione di ignoranza, mi ha guardato come se fossi una che adotta cani solo per lasciarli sul ciglio dell’autostrada. Allora ho letto Le nostre anime di notte. Un piccolo miracolo. Le nostre anime di notte: ho letto il libro, non so se guarderò il film di Emilia Cesiro La trama Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare. Addie Moore e Louis Walters sono due vedovi sulla settantina, abitano nella cittadina di Holt, Colorado, a un isolato di distanza. Si conoscono da molti anni, ma non sono mai stati intimi. Una sera di maggio, prima che faccia del tutto buio, Addie va a trovare Louis e gli fa una proposta: andare a dormire da lei la notte, e parlare. Louis le risponde che ci deve pensare. Mentre osserva Addie tornare a casa, Louis raccomanda a se stesso di non essere precipitoso. Il giorno dopo, va dal parrucchiere, si fa sistemare i capelli, si fa radere e poi chiama Addie. Passano la notte insieme. E quella dopo. E poi altre ancora. La storia è questa: due persone che passano la notte insieme, per non stare da soli, sdraiate nello stesso letto, al buio, come buoni amici e si raccontano la vita, perché vogliono sapere tutto. Man mano che la relazione tra Addie e Louis si sviluppa in amore, la narrazione si allarga a comprendere qualche amico, le reazioni della cittadina (piccola, la gente mormora), le vicende dei rispettivi figli, l’arrivo del nipote di Addie, Jamie, una cagnolina abbandonata e poi adottata, e altre cose ancora che non dico perché sennò che lo leggete a fare… In realtà, anche a conoscere la trama, queste 170 pagine andrebbero lette perché, ripeto, sono un piccolo miracolo. Basta poco che un racconto del genere cada nel grottesco o nel melenso, e invece il risultato è delicato, luminoso e dolcissimo grazie a uno stile pulito, semplice, che non perde tempo nelle descrizioni o nell’uso delle virgolette, scivolando dal dialogo alla narrazione come evidenti conseguenze uno dell’altra e rivelando, senza aggettivi, un grande affetto per tutti i suoi personaggi. Non abbiamo fretta, disse lui. No, prendiamoci il tempo che ci serve. L’ultimo libro di Kent Haruf Il tempo è un elemento essenziale del romanzo. Nella Nota del traduttore, Franco Cremonesi (bravissimo) parla del senso di urgenza che pervade il romanzo. Haruf stava morendo mentre scriveva Le nostre anime di notte: si sente la necessità di completare la storia che ha dentro, ed è vero che questa urgenza informa il romanzo e i suoi personaggi. Però le cose hanno una loro naturale evoluzione, anche a settant’anni. Durante una delle prime notti, Louis si fa prendere, nelle sue domande, da una curiosità e una gelosia inopportune. Se ne rende conto e si dà dello stronzo. Addie conferma. Urgenza non significa essere precipitosi o avventati. Nel caso di Addie e Louis, urgenza significa rivendicare pacatamente il diritto a questo amore, alla sua naturale evoluzione e al futuro. Bello, no? Uno scrittore sta morendo e scrive un romanzo sul futuro. Note sparse Kent Haruf (1943-2016) oltre che romanziere, è stato un insegnante, un obiettore di coscienza durante la guerra del Vietnam, un bracciante, un bidello e un docente universitario. Ha pubblicato il suo primo romanzo a 41 anni. Le nostre anime di notte è stato un bel successo editoriale, e il libro più venduto in libreria nella settimana tra il 13 e il 19 febbraio 2017 Gli altri romanzi di Kent Haruf, pubblicati in Italia da NN Editore, sono Canto della pianura, Crepuscolo e Benedizione, che compongono la Trilogia della pianura. In comune hanno l’ambientazione nella cittadina immaginaria di Holt. Una mappa di Holt è allegata sia al cofanetto che raccoglie la Trilogia sia a Le nostre anime di notte. Qui Marco Denti, autore della mappa, spiega come ha fatto.     Il film Le nostre anime di notte con Jane Fonda e Robert Redford, diretto da Ritesh Batra, sarà disponibile su Netflix il 29 settembre. Le recensioni vanno dal bellino al proprio bello. Qualcuno l’ha stroncato, qualcuno ha detto che se non fosse per l’aura dorata dei due protagonisti, non se ne sarebbe proprio parlato. Io l’abbonamento a Netflix ce l’ho e lo guarderò, anche se con un filino di preoccupazione, perché quell’atmosfera dolce e luminosa che pervade il romanzo è facile da rovinare. Nel caso, posso sempre rileggermi il libro.

Loro chi? – I cinque finalisti

  Partendo dallo stesso incipit, regalato a Officina Letteraria da Marco Peano, 78 scrittori si sono cimentati in storie tutt’altro che simili. 78 racconti sviluppati in una forma brevissima (appena 2.000 caratteri), ognuno con lo stesso inizio, ma con un finale diverso e sorprendente. Sveliamo ora i cinque finalisti che potranno contendersi l’iscrizione gratuita al laboratorio di 1° livello “La grammatica delle storie”. La cinquina finalista del concorso “Loro chi?”   Questi sono gli autori e i racconti finalisti (in ordine alfabetico): Nicolella Clizia, Lo scatolone La Rosa Dimitri, Il cappello Profumo Giovanna, Gemelli nella notte Schenone Eva, Dietro la porta Scuto Regina, Il salotto accanto al letto   Sulla pagina Facebook di Officina Letteraria potete trovare i 5 racconti finalisti, che verranno ora sottoposti al giudizio del pubblico tramite un “Mi Piace”. Il racconto che avrà ricevuto più “Mi Piace” alle 12:00 del 24 settembre 2017, verrà giudicato vincitore. L’autore del racconto vincitore avrà diritto all’iscrizione gratuita al Laboratorio di scrittura di I livello “La Grammatica delle Storie”, che inizierà martedì 10 ottobre 2017. Gli altri 4 racconti finalisti avranno diritto al 15% di sconto sulla quota di iscrizione del laboratorio “La Grammatica delle Storie”. Grazie a tutti gli altri partecipanti, speriamo di rivedervi tra le pagine di Officina Letteraria, in altre occasioni! [button type=small link_url=”https://www.facebook.com/media/set/?set=a.1670055843056506.1073741846.254331254628979&type=1&l=b0d8e301ee”] VOTA IL TUO RACCONTO PREFERITO [/button]     Lo scatolone di Nicolella Clizia Si svegliò al rumore dei passi sulle scale. Il display del cellulare segnava le 4.30 del mattino. Qualcuno si sta avvicinando al suo appartamento le voci bisbiglianti appena trattenute. Non aveva dubbi erano loro. Loro chi? Se senti dei passi alla tua porta nel cuore della notte le possibilità non sono molte: o sono gli alieni, o sono i tuoi figli madidi di droga e di sesso, o sono gli amici per il compleanno. Ma non è il mio compleanno, almeno credo. La luce del cellulare si spense, per un attimo silenzio, quel rumore incollato alla porta. Riprese a respirare, riprese anche il tramestio cauto, indecifrabile. Non ho figli, potrei essere ancora io quello che torna a casa carico di droga e di sesso, o almeno una delle due. I figli, il sesso. Invece era venuto via da casa di Chiara seguendo una strada semplice, apri la porta, scendi le scale, mandi un messaggio dal contenuto infame, e via, è fatta: basta discussioni sull’amarsi, la casa la spesa il lavoro la biancheria, cosa conta davvero. Basta sindromi premestruali. Ma adesso in quel buio, alle 4:30 del mattino, con qualcuno alla porta, se non fosse stato solo sarebbe stato diverso. Se lei fosse stata lì sarebbe stato tutto diverso. Invece Chiara era sul pianerottolo. C’è tutto, gli disse facendo l’appello delle sue cose con fare svalutativo: vestiti, libri, cianfrusaglie, macchina fotografica, le nostre fotografie. Ma disse nostre al rallentatore, mentre gli consegnava il cane al guinzaglio. Aveva molto insistito per un figlio, ma adesso non avrebbe potuto recapitarglielo con la stessa disinvoltura, un figlio. E mentre Giscardo, il boxer, lo sbavava lui fu rianimato da quel millimetro di esitazione, mi ami ancora, dimmi che è vero. Un figlio, adesso. Poi però la sua esaltazione si estinse. Lo scatolone più grande, quello con il computer, fu appoggiato a terra da Rodolfo, il vicino di sotto, fisico nucleare, talento per la musica, umorismo sottile, sguardo bruciante. Voce un po’ tanto nasale, se vogliamo dire tutto. [button type=small link_url=”https://www.facebook.com/OfficinaLetteraria/photos/a.1670055843056506.1073741846.254331254628979/1670056126389811/?type=3&theater”] Vota il racconto di Clizia [/button]   Il cappello di Dimitri La Rosa Si svegliò al rumore dei passi sulle scale. Il display del cellulare segnava le 4:30 del mattino. Qualcuno si stava avvicinando al suo appartamento, le voci bisbiglianti appena trattenute. Non aveva dubbi: erano loro. Ed erano troppo vicini per poter pensare a qualcosa. Serviva tempo. Guardò tra le sbarre della finestra la strada buia. Lanciò due vasi che spaccandosi parvero spari. Lo scricchiolio leggero delle scale lasciò il posto ai tonfi pesanti della discesa frenetica. Aveva pochi minuti. Prese un coltello dalla cucina e cominciò a lanciare per terra i soprammobili, rovesciare sedie e tavoli, per tutta la casa fino ad arrivare al bagno, divenuto tempio della speranza. Si prese a pugni, si strappò i vestiti, diede una testata sulla vasca e si riempì di altri tagli lungo il corpo. Sudato, sporco, strappò la tendina della vasca e se la mise sulle spalle. Infine si trafisse la spalla e poi la gamba. Il sangue bagnava le piastrelle, mentre nascondeva tremante la lama nel sifone. Si inginocchiò proprio nel momento in cui una voce ovattata fuori dalla porta bisbigliava: mettiti quel cazzo di cappello ed entriamo. Prostrato davanti al cesso, infilò la testa nell’acqua, mentre pisciava sangue dalla spalla e attese. Poco. Un calcio sfondò la porta dell’appartamento. Due uomini entrarono. “No, cazzo!” “Cerchiamolo” I passi percorsero velocemente tutto lo spazio della casa. “L’hai trova…?” “Sono arrivati prima loro” alzando la tavoletta dalla sua testa. “E adesso chi lo dice al capo?” “Nessuno. Diciamo che non c’era,” richiudendola “andiamocene.” Aspettando che se ne fossero andati, pochi minuti dopo ritornò alla dignità. Si mise seduto e premendo con degli asciugamani le ferite pensò che doveva solo non morire dissanguato. Con mano inferma, si alzò appoggiandosi al bordo della vasca ed entrò in salotto, ora tempio della presa per il culo, in cui un uomo con la mano sulla maniglia, osservandolo, gli disse: “Ed io che credevo di aver dimenticato solo il cappello.” [button type=small link_url=”https://www.facebook.com/OfficinaLetteraria/photos/a.1670055843056506.1073741846.254331254628979/1670056243056466/?type=3&theater”] Leggi il racconto su Facebook [/button]   Gemelli nella notte di Giovanna Profumo Si svegliò al rumore dei passi sulle scale. Il display del cellulare segnava le 4:30 del mattino. Qualcuno si stava avvicinando al suo appartamento, le voci bisbiglianti appena trattenute. Non aveva dubbi: erano loro. Ferma tra le lenzuola sudate, era così attenta ai rumori da percepire il brusio prodotto dalla fila di formiche che, ne era certa, marciava tra il lavandino e il barattolo del miele. La sua guerra personale la vedeva sconfitta: loro tornavano sempre. Le voci ora erano lì e non sapeva se fingere di dormire o affrontarle. Soffocò un urlo contro

Ella e John: dal libro al film di Paolo Virzì

Anche i letterati, ogni tanto, uno sguardo al cinema ce lo buttano. Sempre con quell’aria un po’ snob da “il libro era meglio”, ma ultimamente i titoli tratti da grandi romanzi best-seller sembrano essere sempre di più. Per fortuna, perché si parla di storie valide. Per sfortuna, perché noi lettori sappiamo già come certe storie vadano a finire. È stato proiettato il 4 settembre il nuovo film di Paolo Virzì, “Ella & John”. Sapete che è tratto da un libro? Proprio così, si tratta di “The Leisure Seeker” ed eccomi a farne una specie di recensione. The Leisure Seeker: il libro “The Leisure Seeker” di Michael Zadoorian è stato pubblicato dalla casa editrice Marcos y Marcos nel 2009 nella collana “Gli Alianti”. Dallo stesso autore, la casa editrice pubblicò “Second hand – Una storia d’amore”. La trama è abbastanza semplice: Ella e John sono due ottantenni malati, molto malati. John soffre di Alzheimer, mentre Ella porta dentro un tumore in stadio avanzato. Poi si stufano: i due coniugi si stancano di passare la loro vita tra pillole, pasticche e cicli di chemioterapia, e partono. Prendono il loro vecchio camper e imboccano la Route 66 da Detroit, diretti a Disneyland. Ci andavano spesso a Disneyland, con i bambini quando erano piccoli. Ella pensa che sarebbe bello tornarci almeno una volta, in quel parco di divertimenti, prima di morire. Già. Non ci sono mezzi termini, altri modi per dirlo: Ella e John stanno morendo, e lo sanno, e lo sappiamo anche noi che leggiamo fin dalla prima pagina. Questa consapevolezza rende la lettura del romanzo un mix tra “tanto so come va a finire” e “speriamo però che non succeda”. Non vi dico come va a finire, ma in entrambe le alternative c’è la certezza dei lacrimoni. La scrittura di Zadoorian è limpida, schietta, semplicissima. Forse, per mio gusto personale, a tratti troppo semplice, la punteggiatura ridotta all’osso; bene, però, perché insieme a due dolci vecchietti che attraversano l’America in camper, le figure retoriche sarebbero state decisamente troppo stucchevoli. Ad ogni cittadina che il camper di John attraversa, un nuovo capitolo, un nuovo spaccato della stra-vista vita on the road americana: diner, motel, attrazioni turistiche scadenti, hamburger. Soprattutto hamburger. Questo viaggio serve principalmente ad una cosa, cioè a porre una domanda al lettore. E la domanda è sempre quella: perché continuare a vivere malati, se si può morire bene? L’eterno dilemma del “non rianimatemi”, delle cure palliative, delle malattie mentali. Vi dirò che è difficile rispondere, neanche Zadoorian ci riesce secondo me, ma la domanda la pone molto bene. È bello, così, è bello tacere. Parlare rovinerebbe tutto. Per un attimo, potrei piangere dalla felicità. È per momenti come questo che amo tanto viaggiare, la ragione per cui ho sfidato tutti. Noi due insieme, come siamo sempre stati, senza parlare, senza fare niente di speciale, semplicemente in vacanza. Lo so che niente dura, ma anche quando ti rendi conto che qualcosa sta per finire, puoi sempre voltarti indietro e prendertene ancora un po’ senza che nessuno se ne accorga. In viaggio contromano: il dilemma del titolo Ho avuto il piacere di sentire Claudia Tarolo, editore di Marcos y Marcos, raccontare la genesi di questo romanzo. Qualche tempo dopo la pubblicazione di “Second hand”, alla Marcos y Marcos si chiedevano che fine avesse fatto il buon vecchio Michael Zadoorian. Lo hanno contattato loro, chiedendogli se aveva qualche nuovo romanzo nel cassetto. Michael ha risposta affermativamente, inviando in casa editrice “The Leisure Seeker”. Il manoscritto è capitato tra le sue mani in lingua originale, Claudia l’ha letto in un giorno e una notte, e subito ha capito che quel romanzo andava pubblicato. Se ne è innamorata a tal punto, che ha deciso di tradurlo lei stessa. Peccato per il titolo: “The Leisure Seeker”, un gioco di parole intraducibile, dove in inglese Leisure Seeker indica un noto modello di camper, ma soprattutto significa anche “il cercatore di divertimento”. Tagliando la testa al toro, si è lasciato il titolo originale, con l’aggiunta di un sottotitolo: “In viaggio contromano”. Perché cos’è il viaggio di questi due simpatici vecchietti, se non una corsa contro il tempo? Tutti gli chiedono di stare a casa, di curarsi, ma Ella e John vanno in direzione opposta, non verso la morte, ma verso la vita. Ripenso all’accappatoio rosso che avevo a ventisette anni, al suono delle zampine del nostro primo gatto Charlie sul linoleum della vecchia casa; all’aria arroventata intorno alla pentola di alluminio un attimo prima che i chicchi di grano diventassero popcorn. Rievoco questi particolari con la stessa frequenza con cui rievoco il giorno del mio matrimonio, la nascita dei miei figli o la fine della Seconda guerra mondiale. Il fatto davvero impressionante è che prima che tu te ne renda conto sono passati sessant’anni e hai in mente otto o nove eventi capitali accanto a migliaia di eventi assolutamente insignificanti. Come può essere? “Ella e John”: il film di Paolo Virzì Sempre Claudia Tarolo fu contattata un giorno da Paolo Virzì, lui le chiese “Se dovessi consigliarmi un libro da cui trarre un film, quale mi consiglieresti?”. La risposta è la pellicola che avremo modo di gustare nei nostri cinema dal 25 gennaio 2018. Intanto, c’è chi ha avuto modo di vederlo. Vi consiglio pertanto questa breve impressione di Sara Boero (sì, quella che insegna anche a Officina Letteraria), inviata di The MacGuffin che ha avuto modo di vedere la proiezione in anteprima e con il posto riservato. “John. Mi ami?” Strabuzza gli occhi. “Ma che domanda è? Certo che ti amo”. Viene più vicino a mi bacia. Sento il suo odore. Non sa proprio di buono, ma è pur sempre l’odore di mio marito. “Lo so”, gli spiego. “Volevo sentirmelo dire da te. Non me lo dici più molto spesso”. “Me lo dimentico, Ella”. “Lo so, John”. Porto l’altra mano sul suo visto. Bacio mio marito. Lo stringo a me e non aggiungo altro. Passano i minuti, e la notte sospesa si riprende i suoi occhi. È ora di alzarsi.    

Il Pink Flamingo in letteratura

È la moda dell’estate, è l’animale più colorato e simpatico che in versione salvagente sta popolando le spiagge di tutto il mondo e le stories di Instagram: è il fenicottero, ora noto come “Pink Flamingo”. Ma il trampoliere rosa non è solo un tormentone passeggero, ma vanta una nobile storia letteraria. Vogliamo scoprirla? Etimologia Partiamo dall’analizzare l’etimologia del nome fenicottero, che deriva dal latino phoenicoptĕrus, e questo dal greco ϕοινικόπτερος, composto di ϕοῖνιξ –ικος, che significa “colore rosso, porpora” e πτερόν, ossia “ala”. Il nome inglese del fenicottero, “flamingo” proviene invece da tutt’altra radice. Deriva dal termine portoghese “flamengo”, che deriva dal provenzale “flamenc”, a sua volta derivante dalla parola latina “flamma”, che significa appunto fiamma, aggiunto al suffisso germanico -ing; flamingo significa quindi “di origine fiamminga”, ed è stato attribuito al fenicottero essendo presente negli acquitrini olandesi. Il fenicottero nei libri Alice nel paese delle meraviglie Ma veniamo al dunque! L’esempio più noto in cui il fenicottero compare in letteratura è certamente “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carrol. Nella celebre scena, Alice è costretta a una bizzarra partita di croquet, dove le mazze sono fenicotteri vivi, e le palline dei ricci. “Ai vostri posti!” gridò la Regina con voce tonante. E gl’invitati si sparpagliarono in tutte le direzioni, l’uno rovesciando l’altro: finalmente, dopo un po’, poterono disporsi in un certo ordine, e il giuoco cominciò. Alice pensava che in vita sua non aveva mai veduto un terreno più curioso per giocare il croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano fenicotteri vivi, e gli archi erano soldati vivi, che si dovevano curvare e reggere sulle mani e sui piedi. Lewis Carrol ha riempito il suo romanzo di giochi di parole e rompicapi logici, e non è ben chiaro perché le mazze da croquet siano state sostituite con un pink flamingo. Probabilmente, la loro morfologia ha semplicemente richiamato a Carrol un facile accostamento. O forse no?   Il mistero del gioco di parole “Scommetto che sei sorpresa, perché non ti cingo la vita col braccio”, disse la Duchessa dopo qualche  istante, “ma si è perché non so di che carattere sia il tuo fenicottero. Vogliamo far la prova?” “Potrebbe morderla”, rispose Alice, che non desiderava simili esperimenti. “È vero”, disse la Duchessa, “i fenicotteri e la mostarda non fanno che mordere, e la morale è questa: Gli uccelli della stessa razza se ne vanno insieme”. “Ma la mostarda non è un uccello”, osservò Alice. “Bene, come sempre”, disse la Duchessa, “tu dici le cose con molta chiarezza!” “È un minerale, credo”, disse Alice “Già”, rispose la Duchessa, che pareva accettasse tutto quello che diceva Alice; “in questi dintorni c’è una miniera di mostarda e la morale è questa: La miniera è la maniera di gabbar la gente intera”. “I fenicotteri e la mostarda non fanno che mordere”, cosa ci avrà voluto dire il caro Lewis con questo accostamento? Analizziamo la versione originale del brano: “Very true”, said the Duchess: “flamingoes and mustard both bite. And the moral of that is: Birds of a feather flock together”. “Only mustard isn’t a bird”, Alice remarked. Neanche in lingua originale salta all’occhio un gioco di assonanze tra “flamingoes” e “mustard”. Appare però più chiaro il gioco con il verbo “bite”, ossia mordere: in inglese, infatti, “bite” è usato per descrivere un alimento piccante, e quindi se il peperoncino può mordere, in piccola misura può farlo anche la mostarda. Entra in scena Shakespeare Molti studiosi si sono accaniti sui giochetti logici scritti da Lewis Carrol. Il parallelismo tra il fenicottero e la mostarda in qualche modo richiama un brano de “La bisbetica domata” di Shakespeare, atto IV, scena III. GRUMIO Non so, ho paura che infiammi la bile. Che ne direste del manzo con la mostarda? CATERINA Un piatto che mangio proprio volentieri. GRUMIO Sì, ma la mostarda riscalda un po’ troppo. CATERINA E allora il manzo, senza la mostarda. GRUMIO No, così no. O prendete la mostarda o Grumio non vi darà neanche il manzo. CATERINA Allora tutt’e due, o solo una, quel che vuoi. GRUMIO Be’, allora la mostarda senza manzo. La battuta “la mostarda riscalda un po’ troppo” significa proprio che la mostarda è piccante, e quindi “morde” come i fenicotteri di Alice. Fino agli antichi romani A flamingo? Isn’t that a bird? What’s it for? “Un fenicottero? Ma non è un uccello? A cosa serve?” chiede Alice quando gli viene proposto l’animale rosa come mazza da croquet. Molti studiosi di Lewis Carrol non trovano significato nei fenicotteri usati in questo modo. Ma gli studiosi non mollano, perché i giochi di parole di Carrol sono a volte così impossibili, che viene voglia di risolverli. In più, il fenicottero è un animale abbastanza strano di per sé. Si sono sviluppate molte teorie, ma nessuno ha ancora capito perché i fenicotteri stiano in piedi su una gamba sola mentre mangiano. Ed ecco un fatto divertente: secondo Paul R. Ehrlich e i suoi allievi alla Stanford University, la lingua del fenicottero era venduta a caro prezzo nell’Antica Roma in quanto gustosa prelibatezza. “Gli imperatori romani la consideravano una delicatezza, e servivano lingua di fenicottero su un vassoio che includeva cervella di fagiano, fegato di pappagallo e interiora di lampreda”, dice Ehrlich. Pare che gli antichi poeti latini scrissero anche in difesa del povero fenicottero, come dimostrerebbe questo poema di Marziale: Dat mihi penna rubens nomen; sed lingua gulosis Nostra sapit: quid, si garrula lingua foret? Che tradotta è: Le rosse mie penne mi danno il nome, ma la nostra lingua gusta ai golosi: che sarebbe s’ella potesse cantare? Conclusioni? Non c’è più dubbio. Il fenicottero è stato bistrattato nell’Antica Roma, poi coprotagonista di un romanzo, e oggi oggetto di culto nei social media. Il perché di questo successo è inspiegabile, come il gioco di parole con la mostarda.   Sitografia Enciclopedia Treccani. Le citazioni in italiano di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” sono tratte da qui , versione a cura di Dino Ticli. Le citazioni originali di “Alice’s adventures in Wonderland” sono

Loro chi? – Vinci un laboratorio di scrittura

Le storie sono la tua passione? Pensi di avere talento nella scrittura e vuoi migliorare la tua tecnica? Pensi di non averne, ma vorresti cimentarti con la grammatica della narrazione? La scuola di scrittura creativa Officina Letteraria lancia il concorso per vincere il Laboratorio di I livello “La Grammatica delle Storie”, tenuto dalla scrittrice Ester Armanino e arricchito da seminari specifici sul mondo della narrativa. “Loro chi?” – Il concorso Per poter provare a vincere il Laboratorio di scrittura di I livello, ti basta scrivere un racconto di 2.000 battute (spazi inclusi), partendo dall’incipit che ci è stato regalato dallo scrittore Marco Peano. L’incipit Ecco l’incipit da cui dovrai partire per scrivere il tuo racconto! Si svegliò al rumore dei passi sulle scale. Il display del cellulare segnava le 4:30 del mattino. Qualcuno si stava avvicinando al suo appartamento, le voci bisbiglianti appena trattenute. Non aveva dubbi: erano loro. Nota bene: il racconto dovrà includere l’incipit riportato di sopra, e l’incipit dovrà essere calcolato nel limite delle 2.000 battute (spazi inclusi). Come inviare il racconto Invia il tuo racconto (in formato .doc, .docx o .rtf) all’indirizzo laboratori@officinaletteraria.com, specificando nell’oggetto “Racconto per vincere il laboratorio di scrittura” e nel corpo della mail il vostro nome e cognome con la dicitura “Autorizzo Officina Letteraria a pubblicare sui suoi canali di comunicazione il racconto in allegato, di cui sono l’autore, nel caso in cui rientrasse tra i 5 finalisti”. Scadenze e date Il racconto va inviato via mail entro e non oltre le 24:00 del 10 settembre 2017; i racconti inviati oltre questo orario, non verranno presi in considerazione per il concorso. Martedì 12 settembre, in occasione dell’Open Day di Officina Letteraria, verranno annunciati 5 finalisti, selezionati dalla giuria composta dai maestri della scuola di scrittura. Finalisti I 5 racconti finalisti verranno pubblicati sulla pagina Facebook di Officina Letteraria, e su questo sito web. I racconti verranno giudicati dal pubblico tramite un “Mi Piace”. Il racconto che avrà ricevuto più “Mi Piace” alle 12:00 del 24 settembre 2017, verrà giudicato vincitore. L’autore del racconto vincitore avrà diritto all’iscrizione gratuita al Laboratorio di scrittura di I livello “La Grammatica delle Storie”, che inizierà martedì 10 ottobre 2017. Gli altri 4 racconti finalisti avranno diritto al 15% di sconto sulla quota di iscrizione del laboratorio “La Grammatica delle Storie”. Ora non vi resta che scrivere! [button type=small link_url=”mailto:laboratori@officinaletteraria.com?Subject=Invio racconto per concorso Loro Chi”] INVIA IL TUO RACCONTO [/button] Marco Peano è nato a Torino nel 1979. Si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. L’invenzione della madre (minimum fax 2015, premio Volponi Opera Prima, premio Libro dell’Anno di Fahrenheit) è il suo romanzo d’esordio.

C’era una volta: il duemiladiciassette

Siamo arrivati al 2017, e sono cinque anni di Officina Letteraria. Abbiamo festeggiato con 120 soci e due nuove scrittrici esordienti, Clara Negro e Ilaria Scarioni. Clara ha pubblicato con Harper Collins e Ilaria uscirà con un romanzo per Mondadori a fine giugno. Intanto Giulia Cocchella sta per presentare il suo secondo libro per bambini; Andrea Fabiani è un poeta, anzi un poeta performativo, vi consiglio di seguire quello che scrive e fa. Cinzia Pennati ha aperto un blog che si è subito conquistato un pubblico. Anche Manuela Romeo ha pubblicato un romanzo con un piccolo editore ligure e Andrea Contini sta per uscire con una bella storia. Altri sono in lettura presso Editor e agenti. Insomma, c’è movimento. C’era una volta il duemiladiciassette 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Non solo romanzi, anche racconti o fiabe. Sta per uscire il Repertorio dei matti di Genova (Marcos y Marcos) curato da Paolo Nori e scritto da quattordici autori di Officina. In eBook, con Emmabooks, abbiamo la raccolta Oltre le fiabe, una bella antologia realizzata dal laboratorio di Anselmo Roveda, l’autore che dal 2012 cura i nostri laboratori sulla narrativa per l’infanzia e i ragazzi, e Sara Boero. Io e Ester Armanino abbiamo appena terminato il nostro primo laboratorio per un’azienda, Costa Crociere, un’esperienza interessante con un bellissimo gruppo. La condivisione dello spazio di Officina Letteraria con Elisabetta Marasco e le sue classi di bioenergetica ha dato vita a una collaborazione che si è concretizzata nel laboratorio Il diario del corpo, a Sori, condotto insieme a Eugenio Gardella. La scrittura è anche corpo, energia, voce. Ne curiamo tutti gli aspetti con l’aiuto di una maestra calligrafa come Francesca Biasetton, di musicisti, performer come Augenblick, di attori come Dario Manera, Pino Petruzzelli, Antonio Zavatteri. La scrittura è anche un territorio di relazioni perciò collaboreremo al progetto MIGRARTI di Suq Genova e abbiamo appena instaurato un’amicizia è una collaborazione con le donne marocchine dell’associazione La Palma. Potrei continuare, ma mi trattengo… Il 6 maggio abbiamo festeggiato con una giornata emozionante che ha dimostrato quello che ho cercato di raccontarvi in questi post di ricordi. Officina Letteraria è una comunità ed è uno spazio di passioni, di sogni e di risultati concreti.

C’era una volta: il duemilasedici

Nel 2016 abbiamo presentato i nostri laboratori al Consiglio di Corso di Laurea in Lettere dell’ Università di Genova ottenendo il riconoscimento come crediti formativi. Forse per questo o forse perché cominciavamo ad essere un po’ più conosciuti, il numero di giovani che si avvicinano a Officina dal 2016 è aumentato in modo significativo. C’era una volta il duemilasedici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Nel 2016 abbiamo preso la decisione di affidare il laboratorio sul romanzo, il nostro terzo livello, quasi esclusivamente a editor, riservando agli scrittori il racconto di un’esperienza, i suggerimenti personali. Abbiamo individuato una guida del laboratorio, Antonio Paolacci, abbiamo mantenuto il contributo prezioso di Laura Bosio e abbiamo cominciato una prima collaborazione con Angela Rastelli, editor Einaudi. Laura Bosio è diventata una colonna portante della nostra scuola; tutte le persone di Officina che hanno pubblicato l’hanno avuta come maestra o l’hanno scelta come tutor. Nel 2016 è nata una collaborazione con la Biblioteca comunale di Sori e con Valeria D’Agata. Il laboratorio di Sori Apprendista scrittore ha avuto subito un gruppo di entusiasti e fedelissimi raccontatori di storie. Il laboratorio estivo ad Apricale è stato un divertente gioco letterario al quale hanno partecipato una decina di persone di varia provenienza, non solo dalla Liguria. Come sempre abbiamo lavorato nell’Atelier A e siamo stati ispirati dalla particolare atmosfera del paese. Nel 2016 è uscito il romanzo di Eugenio Gardella, Sei sempre stato qui (Frassinelli). Nel 2016 è nata Edicolibro, punto di scambio libri ma anche scambio di idee, luogo di reading e di socialità, in piazza della Meridiana. Dieci associazioni e diversi volontari ne garantiscono l’apertura.

C’era una volta: il duemilaquindici

Il 2015 è stato l’anno delle collaborazioni, degli eventi esterni a Officina, dell’apertura alla città. C’era una volta il duemilaquindici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Un gruppo, del quale facevo parte anch’io, composto da Giulia Cocchella, Andrea Fabiani, Federica Kessisoglu, Dario Manera, Ilaria Scarioni, Marta Traverso, Elena Mearini, ha avuto l’opportunità di collaborare con Approdo Arcigay in occasione di una importante mostra-convegno, alla Commenda di Prè, intitolata “Dimenticare a memoria”. Un lavoro di riflessione e di ricerca sull’Olocausto, un percorso di scrittura forte, emotivo, che ha lasciato una traccia profonda dentro di noi. Nel 2015 Ester Armanino ha guidato un collettivo di giovani di Officina, i Caratteri Mobili, in un lavoro sul tema del cibo per partecipare al Bando per la Biennale dei Giovani artisti del Mediterraneo. Il risultato è stato Re-story-ant, un racconto da comporre, con più di 4.000 combinazioni. Il gruppo è stato selezionato per partecipare alla Biennale a Milano nell’ambito di Expo 2015, e il lavoro di scrittura è stato presentato con un’installazione e un video realizzato da Alessandro Bellagamba, direttore della Scuola di cinema di Villa Bombrini. Abbiamo cominciato la collaborazione col gruppo Augenblick con un laboratorio legato al loro super-premiato video “Su misura”. Siamo tornati ad Apricale con il laboratorio Cercatori di storie. In occasione della riapertura dei corsi a settembre abbiamo allestito Il montaggio di una storia, riaprendo per un giorno l’ex edicola di giornali di Piazza della Meridiana. Il successo dell’iniziativa ci ha spinto a presentare al Municipio centro est un progetto per la riapertura dell’edicola. Intanto qualcuno cominciava a pubblicare: usciva l’Omino dei desideri di Giulia Cocchella. Giulia era stata nei laboratori di Officina, poi aveva proseguito il suo percorso autonomamente; il fatto che pubblicasse ci rendeva tutti orgogliosi. Sono quasi certa che anche gli aspiranti scrittori di Officina abbiano affidato un desiderio, forse un sogno, all’Omino creato da Giulia.

C’era una volta: il duemilaquattordici

Il 14 febbraio 2014, il giorno di San Valentino, è uscito Senza Amore, il nostro primo ebook con Emmabooks, editrice digitale: un’antologia di racconti d’amore scritti senza utilizzare mai la parola amore e altre parole consuete della narrazione dei sentimenti. C’era una volta il duemilaquattordici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Nel 2014 non abbiamo resistito al richiamo della nostra amica Zuzanna e siamo tornati in Polonia, a Cracovia. Zuzanna ci ha introdotto nel mondo delle fiabe e delle leggende polacche e Cracovia ci ha stregato. L’emozione della visita ad Auschwitz è custodita nei nostri quaderni di viaggio, in qualche caso è diventata un racconto. Nel 2014 c’era un bellissimo gruppo di allievi impegnati nel laboratorio sul romanzo. Un gruppo numeroso, composto in gran parte di persone che provenivano dal primo nucleo di allievi dell’esordio di Officina Letteraria. Un gruppo affiatato che ha concluso l’esperienza con una passeggiata per la città, Genova fra luoghi e parole, patrocinata dal Municipio Centro Est. Racconti e musica nelle piazze e nelle strade del centro storico, racconti e musica strada facendo, nel corso di un lungo pomeriggio, fino alla Commenda di Pré. Nell’autunno, cinque creativi provenienti da quel gruppo creavano il Collettivo Linea S; insieme a molte altre iniziative, ci ha regalato una stagione al Count Basie Jazz Club con uno strepitoso gioco letterario, Non sparate allo scrittore, che ha permesso a molte persone dei corsi di Officina, e non solo, di cimentarsi con la scrittura a tema e con la lettura ad alta voce. Il 2014 è stato l’anno della Punteggiatura d’autore con Elisa Tonani; l’anno del Sabato sulle emozioni con Sara Rattaro e sulla Scrittura ironica con Barbara Fiorio; l’anno di Giorgio Gallione con un workshop di Scrittura per il teatro e di Officina ragazzi con Sara Boero. Nel 2014 Ester Armanino è diventata un pilastro di Officina Letteraria, arrivando con un bagaglio di idee, progetti, impegno generoso e passione. Ha trascinato persone, convinte di venire semplicemente a scrivere, in esperienze creative fantasiose dal Metro quadro di città al Greenwriting. Lei architetto, io docente di storia dell’arte contemporanea, abbiamo gradualmente sperimentato un metodo che passa attraverso la creatività espressa in molte forme e che alla fine approda sempre alla scrittura.

C’era una volta: il duemilatredici

Il 2013 è stato l’anno del romanzo collettivo: un laboratorio sperimentale con dieci persone impegnate a scrivere un romanzo breve. Un’esperienza non semplice ma entusiasmante e alla fine il romanzo Oltre il mare, la storia di due ragazzi immigrati che sbarcano a Lampedusa, ha debuttato con un reading al Festival Suq. C’era una volta il duemilatredici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Il 2013 è stato l’anno del viaggio a Varsavia, grazie alla collaborazione con Zuzanna Krasnopolska. Zuzanna ha conosciuto Officina da allieva nel laboratorio estivo ad Apricale, lavorava allora come ricercatrice all’Università di Varsavia, era – è ancora – innamorata dell’Italia e della lingua italiana. Grazie a lei, abbiamo visitato Varsavia sulle tracce di due romanzi polacchi; Elena Mearini, recente maestra di Officina, ed io abbiamo coordinato un gruppo di scrittura di allievi di Officina e di studenti polacchi di italianistica e abbiamo sperimentato il nostro primo laboratorio nomade Scrivere a… Il 2013 è stato l’anno della Scuola elementare di scrittura emiliana (a Genova) di Paolo Nori che si è concluso con un reading al Munizioniere e un quaderno di racconti stampato. Il 2013 è stato l’anno del Sabato in Officina, un workshop tenuto per un sabato al mese con uno scrittore sempre diverso. È stato l’anno del primo workshop Scrivere un corto con Federica Pontremoli, sceneggiatrice di film di Soldini, Moretti, Ozpetek. Nell’estate del 2013 Claudia si è trasferita in campagna e ha ricominciato a viaggiare. Non sono rimasta sola a lungo perché il lavoro che abbiamo fatto insieme ha creato un luogo, Officina Letteraria, con un cuore pulsante e Marta Traverso e Clara Negro mi hanno aiutato a traghettare Officina nel 2014.

C’era una volta: il duemiladodici

Non era scontato. Nel 2012, quando l’avventura di Officina Letteraria aveva inizio, non era scontato che potesse durare nel tempo. Ho cominciato a immaginare una scuola di scrittura probabilmente sull’onda di un cambiamento che era avvenuto nella mia vita con l’uscita dei miei primi due romanzi e con la conclusione di un’esperienza professionale importante come la direzione dell’Accademia Ligustica di Belle arti. Con il termine del mio mandato riprendevo il mio ruolo di docente, riscoprendo da un lato la felicità della didattica e dall’altro un tempo che avevo a disposizione e che per quasi dieci anni era stato assorbito dal lavoro organizzativo. E’ stato un amico a ispirarmi: “Ora cosa farai di tutto quello che hai imparato?”. C’era una volta il duemiladodici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco A ripensarci credo proprio che sia stata quella domanda a far scattare la mia immaginazione. Tra le cose che avevo acquisito c’era la convinzione che perché un’idea riesca a diventare progetto e poi realtà, non si possa pensare di fare tutto da soli. Ho cominciato a pensare alle persone da coinvolgere ma non mi decidevo a parlarne con qualcuno in particolare. Poi, un giorno, ho telefonato a Claudia Priano. Non ci vedevamo da un po’, lei aveva fatto un viaggio, stava scrivendo il suo quarto romanzo, anch’io avevo un viaggio importante da raccontarle. Non avremmo mai smesso di parlare, di scambiarci pensieri ed emozioni… così le ho parlato dell’idea che avevo in testa. Claudia ha subito alimentato e arricchito quell’idea con una passione che è diventata subito forza motrice. Due temperamenti diversi, due esperienze di vita diverse, due scrittrici diverse: di simile avevamo l’entusiasmo, il decisionismo e forse un pizzico di follia. Così Officina Letteraria è nata al tavolino di un caffè del centro storico e molti altri caffè genovesi sono stati in quel periodo il nostro ufficio, insieme talvolta alla cucina di casa mia. Abbiamo riflettuto e discusso su ogni dettaglio, ci saremmo servite il meno possibile della parola scuola. Immaginavamo un metodo orizzontale, un gruppo in cui il conduttore fosse qualcuno che mette a disposizione un’esperienza, strumenti e un sapere acquisito sul campo. Immaginavamo un gruppo di maestri, ma abbiamo deciso di cominciare con un primo laboratorio sperimentale per poi valutare i risultati e progettare una crescita. Quello che non potevamo immaginare era l’interesse che la nostra proposta avrebbe suscitato. Dopo la presentazione alla sala Sivori, con i nostri primi dodici iscritti e una lunga e inaspettata lista d’attesa, abbiamo deciso di attivare un secondo laboratorio per un altro gruppo di dodici iscritti. Dieci di loro sono ancora in vario modo parte di Officina. Il laboratorio intitolato “Io e gli altri. Raccontare e raccontarsi” si è concluso con un reading nel Munizioniere di Palazzo Ducale. Nell’estate, alcuni aspiranti scrittori ci hanno seguito ad Apricale e altri sono arrivati. Un laboratorio memorabile per la particolarità del paese, per l’interazione con gli abitanti, per la presenza di Bruno Morchio e i suggerimenti di Bruno Cereseto (del Teatro della Tosse) per il reading finale nell’Atelier A. Nell’autunno abbiamo inaugurato la sede di via Cairoli, con i tavoli colorati trapezoidali, l’angolo del caffè, le opere di tre artisti (Gregorio Giannotta, Mauro Panichella e Giulia Vasta) e un programma ambizioso: laboratori di primo, secondo e terzo livello, workshop, i seminari del sabato e, oltre a noi, Laura Bosio, Bruno Morchio, Giulio Mozzi, Paolo Nori, Federica Pontremoli. Emilia Marasco

Un sol boccone

Il bosco odorava di more selvatiche. Un riccio, poco più grande di una zucca, si faceva strada nel sottobosco umido, in cerca di vermi e lombrichi carnosi. A un tratto sollevò il muso e corse via zigzagando tra le foglie. Gretel fece un balzo e soffocò un grido. ― E’ solo un riccio. La apostrofò Hansel, sbuffando sonoramente. ― Shh… ho visto un’ombra, lì, dietro quel tiglio. Ho paura. Gretel si aggrappò al braccio del fratello e si guardò attorno tenendo una mano sulla bocca. Il bosco scricchiolò nella luce del pomeriggio e un lembo di rosso spuntò da un cespuglio di rovi. ― Ma è solo una bambina! Gretel scoppiò in una risata aperta e la bimba si rivelò del tutto. ― Scusate se vi ho spaventato. Mi sono persa, ho sentito dei rumori e temevo fosse il lupo. Hansel e Gretel si avvicinarono alla bimba facendo scricchiolare le foglie secche. Un sol boccone di Antonella Botti ― Io mi chiamo Hansel e lei è mia sorella Gretel. Non abbiamo visto nessun lupo. Girovagavamo nel bosco, poi abbiamo sentito un profumo invitante di burro e zucchero e abbiamo seguito la traccia fin qui. ― Mi chiamano Cappuccetto rosso, non ho nulla da mangiare. Mostrò un cestino vuoto e aggiunse. ― Sento che il lupo mi sta seguendo. Si voltò verso nord con le mani strette sul cestino, le nocche chiare, gli angoli della bocca all’ingiù. ― Mia nonna abita oltre il fiume, stamattina abbiamo mangiato le focacce al miele ― abbozzò un sorriso ― mi sembra passata un’eternità. ― Vieni con noi, segui questo profumo. Lo senti? Gretel allungò una mano aperta verso Cappuccetto rosso. Le bimbe sorrisero. I tre si presero per mano e si addentrarono nel bosco. Camminarono il tempo che impiega un tasso a scavare una galleria profonda e ritrovarono quel profumo. A occhi chiusi la seguirono, mani sudate e testa in su. Il lupo ripartì, col muso a terra e l’animo leggero. Le prede erano aumentate. E poi, i tre bambini, finalmente, la videro. Morbidi fiori colorati, coperti da cristalli di zucchero, circondavano una piccola casetta dai muri soffici di focaccia dolce. Archi di cioccolato circondavano le lastre delle finestre ambrate, erano così simili al caramello. I bambini lasciarono andare le mani, finalmente alla meta, corsero verso quel sogno dolce e attraente. Con le dita affondate nei vasi ricolmi di cioccolato, intravidero la porta socchiusa. Cappuccetto rosso richiamò i fratelli con le mani sporche di crema e un largo sorriso di cacao. Gretel corse in direzione di lei ― Se fuori è così, immagina dentro. Rise in direzione di Hansel. ― Forse è meglio di… Ma Cappuccetto rosso e Gretel erano già scomparse all’interno. Hansel guardò intorno il bosco buio e immobile ed entrò, facendo cigolare il grosso biscotto che lo divideva dalle bambine. ― Non vedo nulla. Cappuccetto rosso procedeva tentoni sul pavimento, scontrò un tavolo di legno e si fermò. ― Qui non c’è quel buon odore, usciamo ― fece Hansel. Uno scricchiolio più lungo e la porta si chiuse sbattendo. I tre bambini non videro chi li raccolse come legna da ardere e li caricò all’interno di una casetta di legno, un tetto, sbarre e troppa distanza da terra. Sentirono solo un odore asciutto di polvere antica che tolse loro il fiato mentre cercavano di urlare. La mattina successiva, appena svegli, i bambini trovarono tre piatti ricolmi di frutta, patate dolci, frittelle e succhi profumati. Mangiavano e piangevano, guardandosi muti e incapaci di darsi una ragione. Di sera, al buio, una figura si muoveva attorno al camino, sorbiva al tavolo da ciotole di legno, si avvicinava alla gabbia in silenzio e lasciava sui vestiti dei bambini lo stesso odore secco di polvere antica. Trascorsero gli stessi giorni che impiega un merlo a costruire un nuovo nido. Quel lupo magro e grigio si aggirava da giorni intorno alla casa. Forse aspettava che i bambini uscissero o forse no. Annusava i dolciumi che grondavano da quella casetta isolata e si allontanava disgustato. Tornò ogni giorno, senza mollare l’odore della sua preda che si faceva sempre più fievole e si mescolava a un sentore di latte grasso, fresco, appena munto da gonfie mammelle di mucca. Una notte, quella più scura che Hansel e Gretel avessero mai ricordato, quella figura restò attorno a loro più a lungo. Armeggiava in un vano che i bambini avevano sempre visto chiuso da uno sportello pesante. Rumore di legna, crepitio e poi il fuoco. Una voce rauca, di donna, o forse no, con un alito caldo che sembrava vivo e che si infilò tra le sbarre pesanti, disse: ― Questa notte vi mangerò. I tre bambini si aggrapparono alle sbarre e liberarono tutta la voce che in quel tempo indefinito era rimasta prigioniera nelle loro gole. Cappuccetto spalancò quanto più possibile gli occhi per vedere quella figura, Hansel urlò: ― Non toccherai mia sorella, brutta strega. Gretel lo guardò. Appena ebbe ascoltato quel nome, capì finalmente e cadde immobile. Cappuccetto guardò la bimba nel suo vestito azzurro ormai sgualcito e interrogò con lo sguardo Hansel. ― Una… mangiabambini? Hansel si accasciò in un angolo senza annuire e la porticina, al buio, si aprì. ― Comincerò da voi due. La figura spalancò la gabbia e infilò un braccio robusto dentro, senza guardare, cercando di afferrare qualunque cosa viva si muovesse sotto le sue mani. Strinse Hansel nella sua morsa, il ragazzino cercò di opporre resistenza, ma venne portato fuori come un giunco. Toccò a Cappuccetto, immobilizzata dalla paura. Appena sentì quel tocco capì che quella figura era una donna. Il fuoco ormai sfavillava nel forno e i ciocchi di legno di castagno crepitavano e rischiaravano a sprazzi la casetta umile: un tavolo, un mobile, un camino, un pagliericcio e vasi a terra sparsi senza ordine. Cappuccetto rosso aveva finalmente visto dove aveva trascorso tutto quel tempo. Quella donna gettò la bimba accanto a Hansel, sotto il forno, tra le faville e le lingue di fuoco che bucavano i vestiti e

Sopravvissuti

Nella guida di Londra che ho comprato tengo il segno sulla pagina della Westminster Abbey. C’è scritto che qui sono sepolti ventotto sovrani e più di cinquanta grandi personalità della storia dell’arte, della letteratura e della tecnica. Gente che ha lasciato un segno imperituro. Sopravvissuti di Andrea Suma E io? Io sono qui, in mezzo a loro, nel cuore prospettico della croce latina, con la guida da 14,99 in mano e l’indice infilato tra le pagine, perché il segnalibro che ho comprato in quella bancarella di souvenir, figuriamoci, l’ho già perso. Chissà dove l’ho lasciato. Da qualche tempo dimentico tutto. La morte dà così tanto da pensare che non riesco a organizzarmi più come prima e dimentico persino il bagaglio a mano sull’aereo. Meno male che Giulia, come sempre, è qui con me, in un questo viaggio post laurea, a ricordarmi del bagaglio a mano, a ricordarmi del mio spazio umano incatenato alle piccole incombenze quotidiane. Eccomi qui, all’incrocio tra la navata e il transetto, una ragazza convinta di poter morire da un momento all’altro dopo sole ventiquattro primavere una laurea e niente di straordinario, schiacciata da due dimensioni: quella orizzontale dei morti che non sono morti, della gente che ha lasciato un segno imperituro, e quella verticale delle crociere goticheggianti, campate che toccano il cielo, molto più alte più vecchie più durature più importanti di me. Mi guardo attorno e il mio cuore, il mio ritmo su questa terra, è sempre più veloce, fibrilla come un pazzo. Cerco di respirare per placarlo ma l’aria è densa e immobile e lui corre senza briglie, vuole scappare via da me. Aspetta cazzo, non sono pronta, non ora! Aspetta! Il pavimento della navata mi sembra si inclini, mi manca l’equilibrio; le navatelle si inviluppano, vogliono farmi scivolare giù, insieme ai morti che sono davvero morti, milioni di vite che non lasciano il segno. No, non ci sto. Ho solo una laurea ventiquattro primavere e niente di straordinario, non sono pronta. Devo correre verso l’uscita e mettermi in salvo. “Nella vita bisogna ascoltare il proprio cuore”, ci dice la retorica, e qualcuno si sente forse rassicurato, ma nessuno sa bene cosa significhi. Io invece sì. Sin da bambina sono sempre riuscita ad ascoltare il mio cuore. Ben presto ho scoperto che non era una cosa da tutti e ho iniziato ad esserne orgogliosa. Ero decisamente più avanti dei miei coetanei e credo dipendesse anche da questo: sentire il funzionamento involontario di un organo interno, in un battito ritmico e rumoroso, dà una profonda coscienza di sé. In più erano battiti giovani, battiti forti che picchiavano insolenti contro il petto. Amo lo sport dal mio primo respiro. Sono sempre stata la numero uno, mi piaceva esserlo. Vincere non era il superamento dell’altro, ma la sperimentazione del corpo, che portavo al massimo per sentire forte e chiaro quel battere sordo dentro di me: “sono qui, sono viva, lo sarò per sempre.” Quasi quasi non ti ascolto. Quasi quasi ho il vomito. Quasi quasi esagero. Se mi sopravvaluto. Anche a Giulia piacciono i Subsonica e cascasse il mondo non ci perdevamo un concerto, ma quella sera c’era qualcosa che non andava. Nulla di grave, sentivo il mio cuore come sempre, anche in mezzo a quel casino, ma Cristo come mi bruciavano gli occhi! La mattina dopo me li sentivo talmente grossi e pesanti che credevo mi cascassero. L’apprensione nella voce di mio padre era una nota per me sconosciuta, per questo me ne ero fidata ciecamente e avevo acconsentito senza fiatare. Il medico era un amabile dinosauro prossimo alla pensione, uno di quelli che ancora “ascolta” il corpo del paziente. Parlava con lui, lo toccava, lo picchiettava, ascoltava silente il suo rumore e ne decifrava concentrato i segnali. Mi era venuta un’infezione agli occhi; sicuramente la colpa era delle lenti a contatto. Avevo stabilito che era meglio scegliere un bel paio di occhiali, magari con una bella montatura tartarugata e un taglio da intellettuale. Dopotutto ero quasi una dottoressa, visto che mancavano solo tre settimane alla laurea. Ci voleva un bel paio di occhiali. “Perché? Cos’ha che non va?”. Che stronzate, il mio cuore stava benissimo. “Perché ha un battito molto forte. È anomalo. Sicuramente non è nulla, ma è meglio sincerarsene”. Era stato mio padre a rispondere. Io ero talmente incredula da non riuscire a proferire nemmeno le più banali formule di cortesia. Il cardiologo era un aitante quarantenne brizzolato con gli occhi arroganti. Seguivo con lo sguardo il suo incedere sicuro mentre, cartella alla mano, entrava nello studio in cui noi eravamo già seduti da un pezzo, chiudeva la porta e si accomodava sulla sua sedia imbottita. Mi ricordo quei dieci secondi in cui aveva fatto finta di leggere i risultati delle analisi. Mi ricordo che aveva alzato gli occhi arroganti e aveva guardato i miei con il rimprovero per un peccato che non sapevo di avere commesso. No, non me n’ero resa conto. Peccato mio. Peccato mio pensare di essere invincibile, credere che un cuore che fa un rumore forte è un cuore che vive forte. Adesso che sono corsa fuori dall’abbazia, con il cuore l’affanno e il vomito in gola, lo so che sono sopravvissuta, ancora un altro giorno. Mi guardo intorno, guardo tutti questi individui che, grazie ai loro cuori silenziosi, sopravvivono senza saperlo. Beati loro.

Casa di bambola

Me la sogno ancora, precisa in ogni dettaglio. Le piastrelle di cemento bianche e nere del corridoio, tirate a lucido dalla domestica senza collo che passava lo straccio di lana con la galera; il parquet del salotto, che per me, abituata ai pavimenti di graniglia alla genovese, sembrava una cosa esotica; la grandissima cucina dove mi abbuffavo di biscotti strapieni di marmellata pucciati nel tè. Casa di bambola di Elisabetta Pellegrino Tutte le stanze si aprivano sul corridoio centrale e ognuna era un mondo a sé, come in una casa di bambola. Nella stanza dove erano cresciute mia zia e mia madre, con i letti di ferro gemelli coperti da tante mani di vernice da avere un colore indefinibile, si respirava ancora l’entusiasmo di due ragazzine che crescevano. La stanza di mia nonna era oberata da mobili neri e minacciosi e lì spesso passavo le mie notti insonni ad ascoltare la sua implacabile sveglia di latta e i tubi dell’acqua che cantavano incessantemente, lottando contemporaneamente con le zanzare e il caldo della Lomellina. Mia madre era solita spedire lì uno o più dei suoi cinque figli, per tentare di alleggerire un po’ la sua ricca ma impegnativa esistenza. Che io fossi sola o in compagnia di mia sorella o qualcuno dei fratelli, per me era sempre un piacere grandissimo andare a casa della nonna. Significava essere in vacanza e libera di misurare la mia indipendenza, anche a costo di scontrarmi con la nonna, che mettendosi sullo stesso piano di noi bambini ci impegnava in furibonde discussioni sulle nostre pretese di autonomia. Ma se non potevo andarmene in giro da sola per il paese, come avrei voluto nell’incoscienza dei miei pochi anni, allora mi dedicavo alle avventure in interni. Sceglievo una delle camere e la esploravo scientificamente, cominciando coll’annusare l’atmosfera che mi evocava. Poi mi sedevo su una poltrona o mi sdraiavo su un letto e guardavo ogni particolare, come per fissarlo bene a mente: le maniglie incongruamente rosse di un armadio davvero brutto nella camera degli ospiti, i pomi di un letto di ottone che molto mi piaceva e già avevo messo nella lista della mia eredità, i vetri istoriati del buffet e del controbuffet del salotto, il sacchetto pieno di caramelle aromatiche di mio nonno, che ogni tanto rubavo e assaporavo con gran gusto. Poi, cercando di non farmi scoprire, aprivo tutti i cassetti e i ripostigli di ogni mobile e esaminavo con interesse filologico tutto il contenuto. La casa era per me un enorme giocattolo e mentre esploravo le stanze, mi inventavo grandi storie, ispirate dai particolari che mi avevano colpito e il mio tempo passava felice. Quando mio nonno andò in pensione, lasciarono la casa e vennero a vivere vicino a noi, ma in quel momento io stavo finalmente esplorando la vita vera e non detti molto peso a quell’abbandono. Dopo qualche anno seppi che la casa era stata trasformata in un ufficio e provai un dolore immenso, che con mio sconforto e stupore ci mise molto tempo a passare. Avevano cancellato per sempre i miei sogni di bambina nella sua casa di bambole.