Cosa so veramente delle mie figlie. Se lo sta domandando mentre piega maglie, ripone reggiseni e raccoglie collant sparsi tutt’attorno. Dalle finestre aperte le arriva sul petto la lama affilata della tramontana e l’abbaglio di un cielo che oggi, dopo tanto piovere, non ha neanche una nuvola. Fra poco metterà fuori un altro bucato, entro l’ora di pranzo sarà tutto asciutto. Quando lo hanno dato, il loro primo bacio. E a chi. Nessuno se ne accorgerà di Stefania Passaro Nei loro cassetti ha appena trovato della biancheria nuova, mai notata prima. Devono essersela comprata con i soldi ricevuti in regalo a Natale. Quando e con chi hanno fatto per la prima volta l’amore. Perché l’avranno già fatto, sicuro, ci puoi giurare. Forse la più piccola no, Sami è sempre così presa dallo studio, forse lei no, ma le due grandi, figurati. Le ha preso questa cosa, oggi – che non le succede mai, fra l’altro – e non riesce a smettere di pensarci. È come se all’improvviso qualcuno le avesse aperto uno spiraglio proprio davanti agli occhi e la costringesse da dietro, con una mano fra la nuca e il collo, a restare appiccicata a quella fessura, perché veda finalmente quello che non ha voglia di vedere. Stamattina si è alzata che tutti dormivano ancora – almeno così le era parso – e in bagno, prima di lavarsi la faccia, si è fermata a guardarsi allo specchio. La piega lasciata dal cuscino, fra la guancia destra e il mento. Dormire a pancia in su, bisognerebbe, ma se non le è riuscito finora non può certo sperare di cambiar posizione a cinquant’anni. La raggera di rughe intorno agli occhi, che non scompare più quando smette di ridere, resta. Come un castigo definitivo. Scombussolante, osservarsi per la prima volta con quello sguardo. Tanto che le è venuto di provare a vedere com’è la situazione se ride di meno, se sgrana un po’ gli occhi sollevando le sopracciglia, se invece di abbandonarsi e ridurre tutta la faccia in frantumi si controlla un po’. Increspare il giusto, ecco. Quel tanto che serve a dimostrare contentezza, ma con misura. Tenere a bada occhi bocca guance. Era così presa dal fare l’attrice davanti allo specchio che non si è accorta che Samantha era dietro di lei che la fissava, la faccia assonnata, un occhio aperto e l’altro chiuso per difendersi dalla luce. Ed era arrossita come in flagranza di reato. “Che ci fai già in piedi, Sami!”, aveva esclamato, voltandosi di scatto verso di lei. Sua figlia aveva abbassato lo sguardo, aveva spostato il peso da una gamba all’altra, e affondando le dita nella nuvola di capelli che le incorniciano il viso, se li era portati davanti agli occhi, come a calare un sipario. Poi, da lì dietro, aveva bofonchiato: “E’ che oggi vado prima, la versione di greco… Devo controllarla con la Cri, non c’ho capito niente”. Cri, la sua amica. Una brava ragazza, sembra. Ma chissà se lo sa, la madre, che ha una cotta per Luca. Se lo domanda mentre toglie dalla lavatrice un carico di lenzuola. Cristina ne parlava a Sami l’altro giorno, mentre studiavano assieme. Era stato facile ascoltarle, senza far rumore, dalla stanza a fianco. E mentre se ne stava lì e si meravigliava di stare facendo proprio lei quella cosa di origliare, di spiare le ragazze come una guardona, mentre si diceva di smetterla che non era giusto – che in fondo significava non fidarsi di sua figlia e, se continuava, voleva anche dire che qualcosa di Sami le era sfuggito per sempre, e il fatto di stare lì non glielo avrebbe certo restituito – ecco, mentre ferma in silenzio tratteneva il respiro, aveva sperato che Sami ripagasse le confidenze di Cristina rivelando qualcosa di sé, se c’è qualcuno che le piace, se è poi quel romano conosciuto in montagna, il motivo per cui ha sempre la testa fra le nuvole, come dicono le sorelle prendendola in giro. Ma niente, Sami non aveva detto niente. “Ok, mi lavo la faccia e ho finito”, ha detto alla figlia quella mattina, e dopo essersi voltata si è piegata velocemente sul lavandino. Lo specchio la chiamava ancora, ma lei ha ignorato il suo richiamo, ha fatto finta che non esistesse più, sul muro, un palmo sopra la sua testa. E si è buttata due manate di acqua gelida sugli occhi, sperando servisse a lavar via un po’ di anni. Tutti quelli che le sono caduti addosso da quando anche Samantha è diventata maggiorenne. E’ stato tre giorni prima. Ora ripensa a quanto ha cucinato quel giorno, il menu speciale con tutte le cose che piacciono alla figlia – i pansoti con la salsa di noci, la zuppa inglese con il pan di Spagna imbevuto di marsala e latte, strati di crema al cioccolato, crema pasticcera e copertura finale di panna montata. S’era dimenticata la guarnizione di amarene, però, e Sami, prima di spegnere le candeline, glielo aveva fatto notare davanti a tutti. “C’era cibo anche per i beati, dai!”, le aveva detto quella sera suo marito, mentre spegnevano la luce e si davano il bacio della buonanotte, per consolarla di quella che lei aveva patito come una vera e propria défaillance. Quella sera, in realtà, aveva sperato invano in complimenti più circostanziati – qualcosa del tipo “anche la punta di vitello è venuta una delizia” – ma poi, senza aspettarne di altri, s’era addormentata di schianto. Ma chi lo dice, pensa ora, risentita, chi lo dice che i diciott’anni sono importanti per chi ci arriva. Siamo noi genitori, in quel giorno, a varcare una soglia, per la quale non saremo mai abbastanza preparati. È per noi, non per i nostri figli, che è cruciale quel compleanno. Una molletta le sfugge di mano e con la molletta anche la federa che teneva per un angolo con due dita. Vede entrambe atterrare due piani più in giù, sul balcone sporco della vicina. È a quel punto che le arriva l’odore del ragù
Due cucchiaini di zucchero. Ogni mattina, alle 10:30, massimo 10.35, e il pomeriggio verso le 16:15, Michela (32 anni) chiedeva un caffè. Anzi ne esprimeva il desiderio ad alta voce, con tono fermo e quasi arrogante, in modo che Giulia (20 anni) a poche scrivanie di distanza, potesse sentirla. Caffè nero di Gabriele Carretta E Giulia, già dal tono della voce, e abbassando lo sguardo per intravedere l’ora sullo schermo del pc, sapeva cosa doveva fare. Apprezzava in fondo che Michela almeno fosse puntuale e abitudinaria in modo quasi patologico, così poteva organizzare il suo lavoro in modo da non doversi interrompere sul più bello, magari durante la trascrizione di un atto, o di qualsiasi altra cosa noiosa, ripetitiva e pesante toccasse fare ad una giovane e inesperta stagista in un affermato studio legale genovese. Alle 10:29 salvava il documento (cliccava 2 volte sull’icona a forma di floppy disk, per sicurezza o per scaramanzia forse) su cui stava lavorando, e poi lo rileggeva, giusto per non dare l’idea di tergiversare. Il momento arrivava, sempre abbastanza puntuale. Il suono fastidioso della voce di Michela, da 10 anni segretaria in quello studio, aveva un che di fatale; Giulia lo attendeva quasi come si aspetta la pioggia sotto un cielo plumbeo, fa sempre meno paura della minaccia che la precede. Due cucchiaini di zucchero, di canna se ce n’era ancora, in quel armadietto un po’ dozzinale che mal si abbinava con l’eleganza dello studio. La macchina del caffè, posta proprio sotto quel mobile distribuiva caffè decenti, non ci si poteva davvero lamentare. Dopo aver messo lo zucchero, due cucchiaini mi raccomando, Giulia mescolava lentamente, e nel frattempo cercava di capire con discrezione se qualcuno nello studio la stesse osservando. Quando era sicura di non essere nel campo visivo di nessuno, si girava col caffè in mano verso l’armadietto per chiuderlo o per dare l’idea di cercare qualcosa. In quell’attimo, col viso nascosto al mondo e il cigolante rumore dell’anta dell’armadietto che si chiudeva, Giulia guardava il colore nero del caffè nella tazzina, in cui specchiava ogni mattina il suo umore, e ci sputava dentro. Durava pochi secondi , il tutto, e dopo, Giulia si sentiva meglio. Era una specie di gesto catartico, le sembrava quasi innocente, privo di conseguenze. E in effetti Michela beveva il suo caffè con gusto, o comunque senza dare segni di insofferenza. Poche gocce di saliva, sciolte nel caffè, la piccola, meticolosa e quotidiana vendetta di una ragazza, una donna in difficoltà. In grossa difficoltà, perché a 20 anni, finito il liceo, entrare in quello studio era davvero una bella occasione, ma le difficoltà ambientali erano oggettivamente molte. E non solo per la sua inesperienza; gli avvocati dello studio erano tutto sommato cordiali, o comunque non le davano la sensazione di escluderla, almeno non del tutto, dall’attività lavorativa. Certo non era a scuola, non c’erano sorrisi e benevoli pacche sulle spalle quotidiane, ma tutto sommato andava bene così. O meglio, sarebbe andata bene così, se in quel borghese studio del centro cittadino non avesse lavorato anche Michela. Giulia ricorda ancora perfettamente lo sguardo diffidente e curioso con cui la aveva accolta, il suo primo giorno. E quella diffidenza palese, ma anche quella malcelata curiosità sarebbero stati i punti fermi del loro rapporto negli anni successivi. Michela, da 10 anni in quello studio, era una donna alta, elegante come figura, dai lineamenti del viso duri, che la facevano sembrare più grande della sua età , soprattutto nei suoi momenti di collera. E Michela si arrabbiava spesso, con tutti, avvocati compresi. Soprattutto con Giancarlo, l’avvocato con più anni di anzianità lì dentro; se lui si dimenticava qualcosa o magari la rimproverava sommessamente per il ritardo con cui lei svolgeva alcuni suoi compiti, lei non si faceva problemi di mandarlo a quel paese, a voce alta, davanti agli altri, con un eccesso di confidenza (e di maleducazione) che inizialmente aveva sorpreso parecchio Giulia. Aiutami a trascrivere questo atto, Giulia; sbrigati con quella pratica; oggi non ci siamo, Giulia; capisco che sia importante, ma non credo che tu possa prenderti quel giorno libero, Giulia. Non correva buon sangue tra loro; o meglio, semplicemente Michela la aveva presa di mira, dal primo momento in cui era entrata in quello studio. Urla, frasi sarcastiche, velati insulti, uno stillicidio di vessazioni, goccia dopo goccia, giorno dopo giorno, stavano portando Giulia all’esaurimento. Michela aveva creato un ambiente ostile, aveva alzato un muro, che Giulia non aveva le forze di sormontare, e anzi ne era schiacciata. Preparami un caffè, quello almeno lo sai fare? E mi raccomando, due cucchiaini di zucchero. Giulia ogni mattina si metteva l’elmetto, si sedeva davanti alla scrivania e affrontava quel piccolo, odioso inferno che era diventata la sua vita in ufficio. Sopravvivere alle intemperie, una specie di naturale istinto di conservazione, che le permetteva di stare a galla. Dopo circa un anno nello studio arrivò un nuovo avvocato, giovanile di aspetto, dai capelli brizzolati; e Giulia notò subito come anche Michela nei suoi confronti nutriva una certa soggezione. Finì che Michela e il nuovo avvocato si misero insieme, ma la storia non durò che pochi mesi. E quel muro, lentamente iniziò a sgretolarsi. E forse anche Giulia, lo avrebbe rimpianto. Giulia, quel mattino vestiva di rosso; sulla scrivania aveva la borsa appoggiata, insieme ad un sacchetto di una nota profumeria. Stava svogliatamente cercando qualche idea su internet, qualche destinazione esotica per un viaggio che non avrebbe mai fatto. Cercava di darsi un tono, di fingere comunque di essere impegnata in qualcosa di serio e urgente, per sfuggire al pericolo Michela. Ormai Giulia era da circa 4 anni lì dentro, e ne erano passati circa 2 da quando Michela aveva deciso che lei sarebbe diventata la sua migliore amica. E no, non era stata un reciproco convincimento, non c’era stata nessuna evoluzione positiva nel rapporto che giustificasse questa inversione a U; era stata una scelta di Michela, punto. Dopo la fine della storia col collega, Michela era finita in un turbinìo di relazioni
La morte, che fino all’ultimo temiamo e ricusiamo, interrompe la vita, non la rapisce. Verrà un giorno che ci riporterà una seconda volta alla luce… tutte le cose che sembrano perire sono soltanto mutate. (Seneca, La dottrina morale) Satollità di Samantha Tortora Milano, Stazione Centrale, ore 8;35. Domenica. Tiro le ultime boccate alla sigaretta, la butto sulle rotaie e a passo veloce arrivo sul binario due schivando uomini d’affari, lacrime d’addio e trolley di giapponesi che vanno veloci come treni. Il cielo azzurro è l’unica macchia di colore in fondo al grigiore della galleria, dei pilastri e delle volte in ferro nero. Eccolo lì, rosso e grigio, puntuale, in attesa dei suoi passeggeri. Sembra dire guardate come sono imponente, sono il più fiero di tutti. Mi ricorda l’astronave di Star Wars del Luna Park, solo molto più grossa; portami via, a 400 km all’ora, più veloci del vento. Salgo gli scalini, sperando di trovare un po’ di sollievo nell’aria condizionata. Il mio posto è l’ A3. A3, A3… ripeto nella mente lungo gli stretti corridoi, rendendomi conto di essere salita dalla parte sbagliata del treno. Mi fermo al vagone ristorante per un caffè, stamattina non sono neanche riuscita a berlo. Ora sono più reattiva, continuo la mia ricerca. A 7, A 5, A 2, eccolo A3. Mi lascio cadere sul sedile, con la valigia ancora sulle gambe, non è pesante e posso tenerla come scudo verso gli altri. Stringo la maniglia forte con entrambe le mani e chiudo gli occhi. Mi Chiamo Allegra Izzo, ho 19 anni e sto tornando a casa, l’arrivo è previsto alle 12:41, in tempo per il pranzo organizzato da papà. Bologna, ore 9:40. Mi sto godendo la pelle della poltrona, sono allergica a quelle in tessuto, mi repellono coi loro rifiuti dei passeggeri precedenti: forfora e pidocchi, sudore, pellicine, unghie, residui di cibo, anche sangue che esce da minuscoli tagli. La pelle è figa e igienica, anche nei ristoranti dovrebbero eliminare le sedie in tessuto. Intorno a me ci sono altre sette poltrone, tutte occupate ma separate da una giusta distanza che ti permette di evitare di parlare coi compagni di viaggio. Sistemo la valigia sopra di me e sfilo dalla borsa il libro che mi ha regalato Andrea, La dottrina morale di Seneca. Non lo ricordo, nonostante la maturità classica di Giugno, o meglio, non avevo notato la saggezza e la contemporaneità che la caratterizza. Me l’ha fatto scoprire Andrea, dopo che facevamo l’amore io abbracciavo il cuscino e lui leggeva e traduceva dal latino, il libro appoggiato sulle mie natiche. Inizio a leggere, inciampo nelle frasi su cui discutevamo, penso a noi. Il suo modo di scoparmi, le sue fissazioni sull’ideale femminile e la sua “intellighenzia harvardiana” hanno iniziato a darmi l’angoscia. Maledetto schiavo della libidine. Provo a dormire. Firenze, ore 10:48. L’andamento soporifero del treno è cessato e mi sveglio di soprassalto con un filo di saliva che bagna il mio mento. Sono sudata, i miei capelli lunghi e biondi scaldano come una coperta, ma hanno il vantaggio di coprirmi le orecchie a sventola. Mi osservo nello specchietto attaccato sulla parete alla mia sinistra, tocco il mio viso con l’indice e il medio: la fronte spaziosa, le sopracciglia dritte e sottili, le guance rosse, il girocollo di perle e zaffiri che è il secondo regalo di Andrea. Non è proprio il mio genere, ma lui vuole che lo diventi. Maledetto schiavo dell’ambizione. Il mio cuore batte troppo veloce. Roma, ore 11:45. Andrea avrà aperto gli occhi da poco, forse è sotto la doccia che canta col suo inglese impeccabile e fastidiosamente americano. Senza fare colazione pranzerà con le polpette che ho cucinato ieri sera, permettendomi però una piccola variazione: ho sostituito i pinoli con polvere di nocciole. Andrea le adora, ma è gravemente e meravigliosamente allergico alle nocciole. Non dimenticherò mai quando gli ho spalmato una manata di Nutella sulla faccia, nel giro di pochi minuti il suo viso è diventato gonfio e rosso. Il collasso circolatorio e la morte avverranno nel giro di pochi minuti. Shock anafilattico. Nessuno sentirà la tua mancanza Andrea, maledetto narciso insicuro. Ti ho fatto un favore, e ti ho dato la possibilità di giocare un’altra partita. Io sono innocente e la mia coscienza è limpida.
Sai, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, ama il prossimo tuo come te stesso a meno che non sia diverso da te. E che senso ha? Penso di averla inventata l’ultima parte. Perché la prima chi l’ha detta? Un tizio. Il tizio di Francesca Refano Quale tizio? Non so bene. Pare fosse un mezzo uomo e mezzo fantasma. Era trasparente? Non si vedeva? No, si vedeva. E faceva vedere anche chi non vedeva… E come è possibile? … E camminare chi non poteva. MA DAI! E chi era morto, pensa un po’, non lo era! E cos’era? Resuscitato. Si vabbè! Comunque morti o vivi, zoppi o cecati, pare che questo tizio sopportasse tutti ma non i diversi. Un uomo morto è uguale al vivo? No ormai è morto. Ma questo tizio si può sapere chi è? Non so, ha 100 nomi… forse 3… Anche lui è parecchio confuso. Bipolare? Può essere. E a te chi l’ha detto? Un altro tizio che l’ha conosciuto ma mai visto. E la fonte ti sembrava sicura? Che vuoi che ti dica, quel che mi ha detto riferisco. E nessuno l’ha mai visto? No! E come è possibile? Cosa?! Che questo tizio fa vedere i cecati, camminare gli zoppi ma nessuno l’ha mai visto! Ormai penso sia morto. Ma non è mezzo fantasma? Sì! E i fantasmi muoiono? No… E allora vedi!? Io si! Non in quel senso, dai. Non è mai esistito. Ma se ci sono le foto! E chi le ha scattate? Nessuno. Sono ritratti di un uomo che lo vide, credo. Non è possibile! Vabbè, ti dicevo, non gli piacciono i diversi. Perché? Perché non sono uguali. Uguali a cosa? Alla normalità. E cos’è la normalità? Noi. Sì? Forse. E ha creato confusione con i suoi millemila nomi. A chi? A quelli che si sono ammazzati. Chi si è ammazzato? L’uomo che ha sparato a una donna che aveva in braccio un figlio. Sono morti solo in due? No. Sono morti in tanti. Mi correggo: sono morti i diversi. Ma diversi per cosa? Per la pelle. Un po’ bianchi, neri, gialli e qualcuno rosso. Ah capisco… Pure perché chiamavano questo tizio con un nome diverso. Comunque, sono tutti morti. E perché? Perché il tizio con i tanti nomi ha creato confusione. E non poteva chiarire? No. Perché? Perché non è mai esistito.
La nonna non ci ha chiamate, così ce ne stiamo ancora un po’ al calduccio, pensava Teresa, mentre accarezzava i lunghi e biondi capelli della sua bambola, Lisa. Quella settimana era il turno del pomeriggio, scuola dalle 14 alle 18. Questa storia delle settimane alternate era un po’ una rottura, ma la scuola era appena iniziata, era divertente andare in classe a disegnare, giocare, scrivere e la maestra era brava, anche se l’altra volta l’aveva messa in punizione insieme a Marta, la sua compagna di banco, perché si erano rincorse per la classe durante la lezione. Marta aveva pianto, ma lei no. C’era rimasta parecchio male, ma l’umiliazione del pianto, no. Mentre si stiracchiava, indecisa se alzarsi o aspettare ancora un po’, pensò che avrebbe dovuto invitare Monica a giocare a casa sua. La casa delle bambole di Silvia Conte Monica era la figlia del dentista del secondo piano e la settimana precedente sua mamma aveva chiesto alla mamma di Teresa se le due bambine potevano giocare insieme. Quindi lei era scesa per l’ora della merenda nella casa del dottor Olivieri, che faceva anche studio, perché prendeva tutto il piano. Al numero otto entravi per andare dal dentista e al numero 9, andavi a casa loro. Ad aspettarla c’erano la signora Carla e Monica, che ha la sua stessa età, ma che va alla scuola privata, la vengono a prendere tutte le mattine con un pulmino e non deve fare i turni, per l’improvviso boom demografico e la mancanza di edifici scolastici nel quartiere. Le due mamme avevano insistito molto per questa merenda insieme, la famiglia Olivieri si era trasferita da meno di un anno e Monica non aveva molti amici nel circondario. D’altro canto nemmeno che Teresa era libera di uscire e di vedere le sue compagne di classe a suo piacimento e visto che la mamma lavorava tutto il giorno e la nonna non poteva scorazzarla avanti indietro, un’amica nel palazzo le faceva comodo. Il giorno della merenda, lei era scesa verso le quattro e subito era stata introdotta nella cameretta dell’altra bimba, che non doveva dividere con sua sorella, perché aveva un fratello maggiore di due anni, che aveva la sua, di camera. Nella stanza, molto ordinata, troneggiava una casa delle bambole a tre piani, con delle bellissime finestre in legno di colore rosa, nelle quali era intarsiato un cuore. Ogni stanza era perfettamente arredata, salotto, cucina, bagno due camere da letto e una stanza dei giochi in soffitta. E per giunta Monica possedeva l’intera serie delle “Lucie”, come le chiamavano Teresa e sua sorella: Lisa, Lucia, Lola e Laura, mentre loro ne avevano solo due, una a testa. Avevano iniziato a giocare con quella casa e le sue abitanti, ma Teresa si era sentita una traditrice, perché la sua Lisa era rimasta a casa, da sola, perché la nonna le aveva detto: “Scordati di fare avanti e indietro da una casa all’altra e fare chiasso per le scale”. Quindi aveva deciso di prendere Lola, quella con i capelli rossi, in segno di rispetto per la sua Lisa. Il pomeriggio era trascorso piacevolmente, anche se Monica era un po’ dispotica e non le lasciava prendere grandi iniziative sulla casa delle bambole, che per giocare in due era anche un po’ scomoda, a suo parere. Verso le cinque avevano fatto merenda con pane e Nutella. Lei era stata zitta, come le era stato insegnato, e lo aveva mangiato, anche se la cioccolata non le piaceva molto, come tutti i cibi troppo colorati. Avrebbe preferito pane burro e zucchero. Nel tardo pomeriggio era passata la mamma a prenderla, con grandi ringraziamenti. Le due bambine si erano salutate con la promessa di passare insieme un altro pomeriggio. “Questa volta a casa nostra”, aveva aggiunto la mamma di Teresa. Poi la descrizione minuziosa dei giocattoli di Monica che Teresa aveva fatto a mamma, nonna e Caterina, sua sorella, quel fiume in piena che era quando aveva delle novità. E quindi l’idea geniale di costruire un appartamento delle bambole. Ne avevano incominciato a discutere con la sorella, di cinque anni più grande di lei e avevano convenuto che, siccome nella loro cameretta non avevano lo spazio per una casa delle bambole, che poi era anche un po’ leziosa, così aveva detto Caterina, potevano creare una serie di mobili, che avrebbero costituito l’appartamento delle Lucie. Riesumarono un piccolo armadio di legno che decisero di ridipingere di rosso e chiesero alla nonna di confezionare un nuovo piumone per il letto di Lisa, con una stoffa che si adattasse al rosso. Decisero di fare dei cuscini per fare salotto da sparpagliare su un tappetino che già utilizzavano. E poi colpo di genio: crearono dei cassettoni con le scatole dei fiammiferi svedesi, quelle che avevano gli scomparti a scorrimento, incollandole due a due o tre a tre a seconda della grandezza che desideravano ottenere. Ciascun mobiletto venne poi rifasciato di carta da pacchi, per dare l’idea del legno. La cucina era forse un po’ fuori misura per la grandezza delle Lucie, ma aveva molti accessori e avrebbero potuto fingere di prendere un tè. Per li bagno ci avrebbero pensato, e se la nonna avesse fatto loro usare l’acqua vera con lo shampoo, sarebbe bastata anche una scodella rettangolare per fare vasca. Avevano lavorato tantissimo, le due sorelle, per creare l’appartamento delle bambole, perché Teresa potesse ricambiare l’invito di Monica e poi magari invitare Marta, che si sarebbero divertite anche di più. E quel giorno, che era fuori discussione perché c’era scuola al pomeriggio, divenne il giorno. Teresa era pronta alle due meno un quarto: stivali rossi, mantellina rossa con berretto uguale, cartella rosso-blu già sulle spalle, ma poi la mamma aveva chiamato dall’ufficio. A Brignole era un gran casino: pioveva da ore con troppa intensità, si vociferava che il Bisagno potesse straripare. Meglio non andare a scuola, troppo rischioso. E la nonna l’aveva convinta a restare a casa, anche se lei voleva andare a tutti i costi. Le piaceva la scuola e saltare nelle pozzanghere lungo
Ogni giorno è un passo in più che facciamo dandoci la schiena. Ho rinunciato a tutto per lui, ai miei sogni, alla mia famiglia, alla carriera. Ma ero così innamorata e mi sembrava che non ci fosse nulla di più affascinante delle sue fotografie. Shirley di Giulia Barone Una volta ho pianto vedendo gli scatti fatti durante una giornata trascorsa insieme al mare un pomeriggio d’inverno. Avevamo fatto una passeggiata, poi ci eravamo riparati dietro ad una roccia e distesi sul plaid ci eravamo addormentati. Dopo un po’ lui si era svegliato e aveva iniziato a fotografarmi mentre dormivo, mentre mi stavo svegliando e non aveva smesso neanche quando da seduta lo guardavo con la mano a visiera per proteggermi gli occhi dal sole. Erano immagini incredibili, non sembravo neppure io tanto ero bella, ma lui diceva di vedermi così. Era andato tutto bene fino a quando avevo desiderato un bambino. Lui non voleva figli, diceva che non se la sentiva, i suoi genitori erano morti in un incidente stradale quando aveva sette anni e il dolore provato era stato così violento da convincerlo a non volere figli per paura di poterlo arrecare lui stesso. Ne avevamo discusso per sere intere, per giorni e settimane ma lui era irremovibile. Ci avevo rinunciato, ma lui aveva già smesso di toccarmi, non mi cercava più, forse per paura di essere ingannato. Ricordo una mattina, era estate, lui si era alzato per andare a fare una passeggiata. Quando era tornato, io ero ancora a letto, stavo leggendo ma sentendo la chiave nella toppa avevo fatto finta di dormire e, girata di schiena, avevo lasciata scoperta parte del mio corpo nudo. Lui era entrato in camera, si era avvicinato ma aveva solamente riposto sul comodino il libro che avevo lasciato tra le lenzuola. Mi ero immaginata una vita diversa. Io che avevo così tanti sogni, ho scelto di dare più importanza al suo lavoro perché mi sembrava giusto: io ero solo una semplice aspirante attrice. Quanti provini ho fatto prima di sposarmi; passavo le giornate a leggere i copioni, a provare e riprovare i dialoghi che dovevo presentare, viaggiavo sola recandomi nelle città dove stavano girando un film e così ho fatto la comparsa in vari lungometraggi, una volta sono riuscita ad entrare nel corpo di ballo di un musical. Ma Carl diceva che non ne valeva la pena insistere, era uno spreco di denaro ed energie. E così mi sono dedicata a lui, seguendolo nei suoi viaggi di lavoro perché in fin dei conti aveva ragione. Ora non è più l’uomo di cui mi sono innamorata, è cambiato, non accetta neanche più ingaggi che lo potrebbero allontanare da casa. Ogni fine settimana ripete sempre lo stesso rituale. Si alza presto, va a fare colazione al bar sotto casa, compra il giornale e una stecca di sigarette che poi fuma seduto sulle scale del giardino di casa. Si procura ciò che gli serve per vivere due giorni barricato. Dice che è l’unico modo per rilassarsi, ma io lo so che ha attacchi di panico. In questo rito ci sono anch’io ovviamente, lo rassicura avermi vicino, sono come uno i punti di riferimento della casa che riconosciamo quando va via la luce e camminiamo a tastoni. Sono come il pianoforte nell’angolo del salotto o la cassettiera bombata che c’è in ingresso sulla quale appoggia le chiavi quando entra in casa. Ma io mi sento soffocare. Mi sembra di non vivere più. Quando abbiamo smesso di viaggiare ho trovato lavoro come maschera in un cinema di città, è veramente la fine più triste per un’attrice, ma almeno è un lavoro che mi permette di uscire nei weekend, altrimenti impazzirei. Il fatto è che lo amo ancora. Un paio di anni fa è successa una cosa che mi ha fatto credere che avremmo potuto ricominciare. Aveva accettato un lavoro per un’agenzia pubblicitaria, doveva fare delle fotografie artistiche per un elegante albergo di Manhattan, mi aveva chiesto di fare da modella ed era uscito un capolavoro. Mentre mi muovevo intorno al letto di quella camera d’albergo mi sentivo sensuale, ammiccavo all’obiettivo e i suoi stimoli a cambiare posa mi eccitavano. Sono sicura che anche lui abbia sentito quell’elettricità. A lavoro finito tutto era tornato come prima. Non so se me la sento di continuare questa farsa. La vita è davvero buffa, il ruolo da protagonista che ho sempre desiderato interpretare è stato nella commedia drammatica della mia vita.
Vorresti prenderla e descriverla, aggiungendo mille particolari, tutto ciò che vedi. E credi che, trovato il punto di vista giusto si possa andare avanti con un certo ordine. Ma è impossibile aggiungere qualcosa a Venezia, fossero solo parole. È lei che, per prima, ti deve scegliere. Venezia di Laura di Biase È lei che decide cosa darti, cosa concedere della propria essenza. E non per gelosia, o per diffidenza, ma perché l’intero sarebbe troppo per chiunque. E lei lo sa. Sono a Venezia per la prima volta. Prima di partire ho cercato di organizzarmi con una cartina: e se mi fossi persa? E se avessi girato e rigirato per le calli senza ritrovare la strada? Mi sento più sicura, adesso, e dal finestrino del treno mi tuffo nella laguna. È il suo primo avvertimento: non sono una città di mare, sono una città nel mare, lascia tutto, che ti porto io. Con il fiato sospeso supero il lungo tratto di ferrovia e Venezia mostra il viso familiare di una stazione come un’altra. Allora prima era suggestione, oppure ho solo immaginato, a furia di sentire nelle orecchie Venezia e il mare, Venezia e il mare, ad ogni giro di ruota. Finalmente scendo e trascino dietro di me la valigia. Anche lei ha delle ruote, piccole in verità, forse è per quello che non sento il loro avvertimento, lo stesso delle ruote del treno: Venezia e il mare, Venezia e il mare… Avevano cercato di dirmelo in tutti i modi, perché fossi preparata. Esco dalla stazione. Ho appena lasciato il mare dietro di me e me lo ritrovo davanti. Che strada può aver fatto? Non ci siamo detti ci vediamo là. Ed è arrivato prima lui. Bello scherzo, allora giochiamo. Mi guardo intorno e riconosco la mia strada, che corre parallela al grande canale e dopo poco se lo lascia alle spalle. Così questa volta vinco io, e sparisco. Ma Venezia sa attendere e sa dare tempo. Sa essere regina, senza essere dispotica e superba. Da vera regina sa accogliere chi arriva nel suo regno, non svela subito ricchezze e tesori. Lascia che ognuno decida quali siano i più preziosi per sé. Il tempo passa, e intanto il sole scende un po’, mitigando uno splendore che intuisco appena. È generosa, questa regina. Mi sa aspettare, finché mi ripresento al punto di partenza per continuare il gioco. La torta è talmente ricca, e bella, che si fa fatica a tagliarla. Ma per sentirne il sapore bisogna pur farlo e così scelgo una stradina, sottile, che non intacchi il tutto. Si comincia. La città mi prende per mano, e con lei inizio il mio cammino. Costeggiamo il grande canale, ci lasciamo alle spalle un ponte, arriviamo all’inizio del suo cuore. E a quel punto mi lascia andare. Mi volto, e rapisco con gli occhi l’immagine della strada fatta fin lì, nel timore di non saperla riconoscere. La città che mi ha preso per mano si è sciolta e si è fatta acqua. Davanti a me rimane la regina. Prendo un respiro, mi tuffo. Con me ho una cartina, la spiego, ma lei non ricambia e resta muta. Venezia è irriducibile, immensa grandiosità e ciò che ho in mano è troppo poco per contenerne l’anima. Ripiego il foglio e prendo un altro respiro, questa volta impercettibile, quello che basta per superare il primo ponticello. La corrente mi prende e mi spinge ad andare avanti, ogni passo un tesoro, ogni respiro una meraviglia. Davanti a me, dietro di me, e dentro di me. Venezia è ovunque, la sua essenza si espande all’infinito e riempie l’aria che respiro. Una corrente mi porta lontano. Torno sui miei passi, lei li incrocia, li moltiplica. Inizio ad avere il fiato corto. La luce, la gente, tutto in una volta. Dovrei tornare indietro, il ritmo è troppo alto. Non posso continuare così per molto. E la regina esprime la sua grandezza, accogliente. Attenua il suo splendore, lo offusca con une luce grigia, avverte che è l’ora di tornare, di invertire la marcia e mi fa da guida. Un tuono lontano mette fretta. La corrente si fa incerta, si ritrae, come una marea. Perdo l’attimo, catturata dal cambio di luce. Il buio si è fatto intenso, me ne accorgo, finalmente, e la corrente non è più con me. Sono sola. La piazza mi contiene e accoglie anche le prime gocce di pioggia. Qualche passo basta per capire che quella è la prima prova che Venezia mi regala. Mi guardo intorno e inizio. Da un ponte all’altro, seguendo l’istinto, seguo tracce invisibili. Guardo il cielo, non lo trovo. Trovo un quadro di centinaia di anni fa, luce di centinaia di anni fa, muri di centinaia di anni fa. Solo l’acqua è viva. Non so cosa seguo. Me stessa? La strada sarà lunga. Per confondermi, arrivano lampi da chissà dove. Bisogna sentire il proprio battito sopra quello del cielo. Seguo un ritmo, poi un altro. Ormai la pioggia si è fatta intensa e lava i colori, più vivi a dispetto dell’assenza di luce. La poca che è rimasta rimbalza da una pietra all’altra. Passando da una pietra all’altra arrivo a casa. Venezia ha mille voci. Nel silenzio ascolto quelle della notte, che mi tengono sveglia. È una città viva, e rimane viva in ogni istante. È bella. Intera. Piena. Le grida dei gabbiani mi avvisano che possiamo ricominciare a giocare in strada, come una volta. La città mi fa vedere come si fa e la seguo. Prima regola, cambiare. Cambiare occhi, polmoni, tutto, e di nuovo a cercare una strada per il suo cuore. Non mi perdo più. Ora che la conosco posso dare uno sguardo al foglio appena spiegato, adesso mi svela le sue vene e le sue arterie. Per sentirmi sicura basta guardarla negli occhi, non c’è più bisogno di proteggermi e la luce della sera resta piena. Niente cambio, questa volta. Scendo qualche gradino, mentre mi accompagna sulla riva, dove il grande canale cerca di salire sulle pietre che lo trattengono. Per provarci
A sei anni fui colpita da una fastidiosa forma di gastroenterite e, considerato che si era in estate, il gelato mi era proibito. Come se questa tragedia non bastasse, fui spedita a trascorrere le vacanze a casa di nonna Antonia, sull’Appennino lucano. Per par condicio, non fosse mai che si offendesse permalosa com’era, i miei dovettero promettere un mio soggiorno anche dall’altra nonna, quella materna, a Barletta sulla costa pugliese. Fu un’estate interessante, a suo modo. Conobbi bambini con accenti diversi e vite diverse, ma imparai soprattutto a conoscere le mie nonne; i nonni un po’ meno perché, pur essendo presenti, erano entrambi figure a lato. Nessuna delle due donne tendeva a sprecare parole: erano le loro case a parlare anzi a chiacchierare incessantemente. Le case delle nonne di Luciana Verre Nonna Antonia aveva una casa grande, sparsamente arredata e senza l’ombra di un soprammobile. Alla sera, con le finestre chiuse, le parole rimbombavano e rimbalzavano da una stanza all’altra e, di sicuro, non si potevano sussurrare segreti. Tutte le porte avevano pannelli in vetro smerigliato; quella del bagno mi creava non poco disagio considerato il mio problema di salute, ma la nonna ebbe pietà di me e mise una tendina. La cucina era la centrale operativa, ma le dispense, ben due, erano basi di stoccaggio. La più piccola approvvigionava i cibi giornalieri freschi; quella più grande, una vera e propria stanza, era per i cibi non-si-sa-mai-chi-può-arrivare La più piccola approvvigionava i cibi giornalieri freschi; quella più grande, una vera e propria stanza, era per i cibi non-si-sa-mai-chi-può-arrivare: in bell’ordine vi erano stivati damigiane di olio e di vino; vasi di verdure e di salame sott’olio; forme di formaggio coperte da canovacci; ceste con peperoni secchi; mazzetti di erbe aromatiche appese alle travi, in primis origano e l’adorata malva che Antonia raccoglieva sulla collina di fronte a casa. Mia nonna materna si chiamava Maria Sterpeta. Ancora oggi rabbrividisco all’idea che i miei avrebbero potuto essere meno illuminati e affibbiarmi quel nome in suo onore. In realtà, era un omaggio alla Madonna Nera dello Sterpeto , il cui Santuario sorge appena fuori Barletta. Donna enigmatica, votata all’apparenza, non si toglieva mai la maschera perché ciò che più temeva era il giudizio altrui, ma non perdeva occasione di criticare e spettegolare. Viveva in condominio all’ultimo piano, in un appartamento piuttosto piccolo ma carico di mobili e fronzoli. Nella sala da pranzo, c’era un mobile-vetrinetta talmente carico di cristalli che una notte decise di tirare le cuoia con un tale botto che ebbi problemi poi a prendere sonno per tutto il resto della vacanza. La polvere sui mobili era considerata fuorilegge e ogni superficie doveva brillare, ma si guardava bene dal farlo personalmente limitandosi a dirigere le sue figlie più giovani nelle pulizie di primavere quotidiane. Non c’era una vera e propria dispensa perché non amava cucinare e spesso si finiva per mangiare pane e pomodoro.
È una di quelle mattine in cui niente può andar male. In cui tutto gira per il verso giusto. Non sai neanche tu perché. E non lo sa neanche Emilia, con le dita delle mani ancora fredde dalla notte precedente. Andrai nel posto più noioso e triste del mondo, lo sai vero? E da sola, pure. Mamma mia, non ti invidio. Persone che le parlavano prima della partenza. Con tutti i loro consigli saggi e non richiesti. Emilia si stringeva nelle spalle, sì sì va bene. Come se fosse importante, ascoltare gli altri. E soprattutto, dargli retta. E così, niente. È partita… Incomprensibile felicità di Laura Caruzzo È partita come ha sempre fatto. Perché il problema non è partire; il problema è tornare. Ogni volta che si lascia alle spalle la sua città, la sua nazione, tutto l’amore e tutto l’odio verso casa si ingarbugliano in un nodo inestricabile, si intrufolano nel cassetto dei cd, non ne escono fino al ritorno. Che se ne stiano lì, incollati. Ha guidato su strade lunghissime, ha mangiato cose immangiabili, ha conosciuto persone alte e poco simpatiche. Si è perfino innamorata, una volta o due. Il tempo di una sera, in uno di quegli scenari da film romantico o d’avventura, uno di quelli che non si avverano mai. E poi via, senza voltarsi indietro, avanti verso tutto il nuovo e tutto il bello che sicuramente la stanno aspettando da qualche parte. E adesso è qui, in ciabatte e maglione, quello sformato, quello blu e bianco, con il vago retrogusto di un Natale norvegese particolarmente freddo. Davanti a una colazione così calorica e deliziosamente belga. Saluta con un cenno i signori della camera di fronte alla sua, una coppia di tedeschi sulla sessantina che leggono il giornale con una concentrazione fuori luogo per una mattina nebbiosa che in realtà è ancora un’alba. Non sa spiegarsi il perché, Emilia, ma davvero sente che niente potrebbe andar male. Né quel giorno, né in quelli a venire. Non è una sensazione chiara, è solo strana. Non le capita così spesso di sentirsi così inutilmente felice, o forse così felice per cose inutili. Per niente in particolare. È come se, per una volta, bastasse il semplice fatto di essere lì. Sprofondata tra giornali francesi, profumo di caffè, quella che non è nebbia ma solo foschia che preme sulle finestre. Sarà una giornata di sole. Sicuramente. Potrebbe anche fumarsi una sigaretta, prima di mettere definitivamente in moto il cervello, vestirsi, iniziare il solito tour culturale in cui si trascina (‘trascinare’, in realtà, non è il verbo corretto. Non rende l’idea di tutto l’entusiasmo che sicuramente le salterà in spalla una volta svegliatasi definitivamente) ogni volta che visita una città nuova. Sale nella sua stanza, un buco di una manciata di metri quadrati che però è riuscito a farla sentire a casa dal primo momento in cui ci è entrata. Prende le sigarette e nient’altro. Si chiude dietro la porta, percorre il corridoio salterellando, si lascia alle spalle quell’adorabile pensione. Cammina senza pensare a niente in particolare. Osserva i primi negozi che tirano su le saracinesche, i bar, gli uomini stretti in giacche pesanti che vanno a lavorare. Prova anche un leggero senso di pena per loro, perché andranno presto a rinchiudersi in un ufficio, in una banca, ovunque siano pagati per fare qualcosa che non vogliono fare Emilia no. Arriva in piazza. Sospesa in quest’atmosfera irreale, sonnolenta, senza contorni definiti. La sigaretta è quasi finita e le brucia l’indice. È allora che qualcosa nella sua testa pare scattare, o accendersi: è buffo, perché fino a quel momento non si era resa conto di essere in ciabatte e senza pantaloni nel centro della città. E fa anche un discreto freddo, a dire il vero. Probabilmente è il caso di tornare indietro. Vestirsi, magari. Tornare nel mondo dei civili e delle persone razionali. Abbandonare quell’attimo di pura e incomprensibile felicità. Poi, un altro dramma. Un urlo incrina quel silenzio di vetro. Un uomo le si avvicina di corsa. A pensarci, a ripensarci tempo dopo, Emilia non è per niente sicura che abbia gridato. O che le si sia gettato incontro con l’irruenza che le è rimasta scolpita nella memoria. Il signore belga si ferma davanti a lei. Le fa una domanda che perfettamente si adatta a quel clima surreale: non è importante la lingua in cui si esprime. Emilia lo capisce, e tanto basta. «Può allacciarmi la scarpa, per favore?» La risposta le esce dal cuore. Che in realtà non è una risposta, ma è un’altra domanda. «Perché?» Forse anche un po’ sgarbata. «Perché è l’unica cosa che non riesco a fare da solo», e sembra parlare con quel braccio che non ha, per dimostrare di non essere del tutto ammattito. Emilia non ci rimane male, non ci rimane in nessun modo. È normale. Si china e gli allaccia la scarpa.
Il Far West non è una vecchia storia con cavalli, cowboy, sparatorie dentro i saloon e bicchieri di whisky. Il West esiste ancora, il Texas c’è ancora, e dentro al Texas e le sue strade polverose può capitare di trovarci ancora qualche sceriffo oscuro a caccia di vendetta. Basta seguire le orme degli pneumatici, le impronte degli stivali, le scie di bossoli, ci vuole poco per caderci dentro con due piedi, come nello sterco… “Nel dolore” di Alessandro Zannoni Certo: i cowboy non viaggiano più per il paese in groppa ai loro destrieri, ma usano pickup scassati; le pistole però sono cambiate poco, e fanno sempre molto male. Questi sono i presupposti d Nel dolore (A&B editrice) di Alessandro Zannoni, autore nato a residente a Sarzana, con diverse pubblicazioni alle spalle. Nel dolore è il secondo romanzo che ha come protagonista Nick Corey, un italo-americano immigrato in Texas, figlio di una madre che parla una lingua mischiata tra inglese, italiano, il messicano e quella dei nativi. La prima volta Nick Corey è apparso nel 2011 in Le cose di cui sono capace, uscito con Perdisa Editore. La gestione della collana era già in mano a Antonio Paolacci (tra le altre cose, maestro di Officina Letteraria), erede naturale di Luigi Bernardi, e Antonio ne curò anche l’editing. «E con Stella come va». Alzo gli occhi dal piatto e la guardo serio. «Bene, ma’. Le cose vanno bene». «Cercherai anche stavolta di sposarla, io credo». «Credo che sì, quella è l’idea. Ma stavolta me lo ha chiesto lei», dico facendole un mezzo sorriso vincente. «Quindi sei tu quello che scapperà con i motociclisti», dice senza ridere. Nick Corey è sceriffo di BekereedgePass, è fidanzato con Stella, ragazza che è tornata da lui dopo averlo abbandonato all’altare e lasciato solo per sette anni, e ha un problema con l’alcol. Di recente, qualcuno ha ammazzato il suo unico e migliore amico Rudy. Quindi Nick ha anche una missione: trovare chi ha ucciso Rudy, e fare giustizia. A modo suo. Il romanzo è narrato in prima persona, da Nick, e il linguaggio è quello che ci si aspetta da lui: duro, amaro, masticato più volte come una foglia di tabacco. Dritto come la trama, un proiettile verso la fine; una brutta fine. «Pensi che finirà male, Nick?» «Credo proprio non ci sia alternativa, Stella». Ad alcuni, il nome di Nick Corey potrebbe suonare familiare. C’è un motivo, e ve lo spiega l’autore stesso, a cui abbiamo fatto alcune domande. OL: Come è nata l’idea di ambientare il romanzo nel Texas, e l’idea di utilizzare un protagonista italo-americano? Alessandro: È un’idea nata da una provocazione che avevo fatto a Luigi Bernardi su Facebook: si possono fare cover di canzoni arcinote, si possono fare remake di film straconosciuti, ma a nessuno verrebbe in mente di riscrivere un libro famoso perché verrebbe subito accusato di plagio. Bernardi venne fuori con questa proposta: avrebbe pubblicato chi si fosse cimentato a riscrivere un classico. Ci ho pensato un po’ su e mi sono reso conto che il mio classico per eccellenza, parlando di noir, è un libro scritto nel 1961, ma che ha una freschezza che sembra uscito dalla tipografia un’ora fa: Colpo di spugna di Jim Thompson. Del romanzo originale ho mantenuto l’ambientazione americana per svariati motivi, il più importante dei quali è che volevo poter giocare ad armi pari con gli autori d’oltreoceano – partono avvantaggiati, nell’inventare una storia, perché in America tutto è possibile e i lettori italiani accettano questo assioma senza storcere la bocca, cosa che non accade nelle trame ambientate in Italia, dove ti fanno le pulci su qualsiasi cosa -. L’idea di utilizzare un protagonista italo-americano è derivata dalla mia voglia di giustificare l’uso del nome di Nick Corey. Mi pareva davvero irrispettoso usare a cuor leggero un personaggio così iconico e riconoscibile, quindi mi sono immaginato che questo nome fosse in realtà davvero casuale, nato dalla traduzione dell’italianissimo Nicola Coretti, figlio di immigrati naturalizzati americani. E questa cosa la spiego perfettamente nel primo romanzo con protagonista Nick Corey. Il mistero della vita è che non c’è nessun mistero. Nasci vivi muori. Stop. OL: Come ti sei documentato su questi luoghi? Sono reali o di fantasia? Alessandro: Siamo esterofili, che ci piaccia o no, e l’America ci ha plagiato ben bene. Perciò credo proprio che ogni italiano di mezz’età abbia un ottimo background americano, grazie a libri, film e documentari, e con tutte queste informazioni non è servito andare in Texas di persona per ricreare una realtà plausibile e credibile. Ho scelto un luogo ideale dove immaginare la città di BakereedgePass, ho studiato alcune cittadine reali che sorgono in quella zona tramite Google Maps, e poi tutto mi è venuto naturale, tanto che nessun lettore si è lamentato. Anzi. E ad alcuni di quelli che mi hanno chiesto se ho vissuto in quelle zone, ho risposto di sì, per i primi quindici anni della mia vita, per non deluderli. In effetti credo di aver fatto un buon lavoro. L’amore e la vita sono una merda necessaria. OL: Perché “nel dolore”? Perché “l’amore e la vita sono una merda necessaria”? Alessandro: Per Nick il dolore è la condizione umana naturale. Lo ha messo alla prova, violento e inarrestabile, fin da quando era indifeso e innocente. Ha forgiato il suo carattere, inciso sulla sua vita. Nick non ha paura di affrontarlo, ci si butta a capofitto, perché sa che solo attraversandolo può raggiungere la sua pace. “La vita è una merda necessaria”, dice Nick, perché non può fare a meno di viverla, gliel’hanno data e non può tirarsi indietro, anche se ogni volta che si sbronza cerca di ammazzarsi ficcandosi la pistola in bocca. Sarebbe la via più breve per smettere di soffrire, ma c’è sempre un buon amico che lo aiuta a desistere, e un motivo forte per non farlo. Il motivo è l’amore, quello che prova per Stella, che crede sia la sua redenzione per diventare un uomo migliore e vivere una vita diversa e felice. In fin dei conti,
Noi non ce la volevamo passare la notte a Orio. Noi, con i nostri bagagli a mano, le valige piene di caciotte e capicolli come sul Torino-Reggio Calabria, gli zaini che sapevano di strada e la biancheria di sapone sciacquato, noi avevamo orari e mete precise: arrivo a Francoforte alle 22, recupero bagagli, baci, abbracci, e via, a casa. E invece… Noi che abbiamo passato una notte a Orio di Emilia Cesiro … E invece, quel giorno lì, che era luglio, era umido. D’estate. Capita. L’aeroporto rimbombava, completamente isolato dall’esterno. Decolli, atterraggi, annunci, chiacchiere, scherzi, bambini,musica dalle cuffiette, dagli altoparlanti, dai negozi. E poi il tuono. E poi la pioggia. Quella pioggia obliqua e dura, che danneggia le foglie e le ali. Tutti i voli, subito, come se non aspettassero altro, erano annullati. E c’era una grande calma. Un minuto prima tutti a guardar su, i monitor, gli orari, gli annunci,. E un minuto dopo, quasi in silenzio, quasi obbedienti, eravamo tutti in fila, quasi ordinati, ognuno verso la sua compagnia. Eravamo educati. Tutti noi, ormai, sapevamo che c’era di peggio, ma la rapidità e l’efficienza ci avevano stordito. E qualcuno vagava, non sapeva cosa fare. C’eravamo accalcati alle porte a vetro dell’aeroporto, imbambolati, col broncio o col sorriso, a guardare quella pioggia obliqua, da cartone animato, a sud di Bergamo, a guardare i taxi che passavano, ed eravamo sempre di meno, sempre di meno. E poi siamo rimasti in cinque, o quasi. Avevamo un posto sul volo delle 6 per Francoforte. Non eravamo gli unici passeggeri, ma… Gli altri, qualcuno aveva preso la macchina e era tornato a casa perché abitava vicino, qualcun altro magari più avvezzo, s’era procurato una stanza in albergo. Perché c’erano gli alberghi attorno all’aeroporto. Però noi no, perché noi avevamo la testa in altre faccende, nella pioggia, nel broncio, nelle caciotte, nell’Italia a piedi che è tanto bella, e poi qualcuno di noi, i soldi in più, per quell’albergo, per quella macchina che poteva farla dormire su un materasso e sotto delle lenzuola pulite, e niente, i soldi per gli imprevisti non ce li aveva. C’era chi, tra di noi, era stato derubato proprio quel mattino lì, prima di partire, prima di prendere il treno, prima ancora di chiudere la valigia, i soldi dell’affitto, i soldi del viaggio, e allora di corsa in banca, di corsa a denunciare e a chiudere la valigia. E chi invece, tra di noi, aveva girato a piedi e in autostop e non vedeva proprio la differenza tra una sala d’aspetto in stazione, le stelle e l’aeroporto. E c’era chi era innamorato e allora troppi stupori per pensare pure a dove dormire. Tra noi, c’era anche qualcuno che, con grande sapienza, aveva fatto solo viaggi sul ponte, senza cabina, arrangiandosi per terra, anche se non aveva più l’età. Così, alla fine eravamo rimasti in cinque, in tutto l’aeroporto. C’eravamo guardati, noi cinque, e avevamo i capelli di chi viaggia da troppo tempo, e c’eravamo scelti e come i musicanti di Brema, aveva detto qualcuno, che però erano in quattro, avevamo cercato un riparo per la notte. Tra noi c’era qualcuno che aveva visto la cappella e allora aveva detto che si poteva dormire lì, e tra noi era stata quella innamorata a tradurre e quello derubato di noi aveva detto “vediamo”, gli altri due che avevano camminato tanto avevano già capito e erano pronti, ma la cappella era piccola e piena. Allora quella innamorata e quello derubato avevano detto, corriamo al duty free, perché c’era solo un bar e non aveva più neppure le pringles, e bisognava mangiare qualcosa, perché le caciotte e i capicolli nella sua valigia erano per il suo amore, ce l’aveva detto per onestà, e non si potevano toccare, e noi avevamo capito perché l’amore è fatto di formaggio, aveva detto in tedesco uno di noi. Avevamo comprato l’acqua e i tuc e la cioccolata e avevamo diviso, e quello di noi che era stato derubato ci aveva raccontato quando usciva da calcio con i suoi compagni e andavano a comprare l’estathè e le merendine, e niente, gli era piaciuto e noi ci sentivamo così, che ci sorridevamo a vicenda, pensando tutti che era una cosa così strana e così piacevole che forse ce la saremmo ricordata per sempre. Era una cosa così strana e così piacevole che forse ce la saremmo ricordata per sempre. Ma non c’era dove potersi sdraiare perché c’erano dei sedili ma erano saldati a terra e avevano i braccioli. smembravano fatti apposta per impedire che qualcuno ci si sdraiasse, come nei parchi i barboni, ma quale barbone prende e arriva fino a Orio, che non c’è nulla se non l’aeroporto e le sue aiuole strettissime e gli alberghi che i barboni non li fanno entrare. E allora, come barboni, come adolescenti le ultime sere di agosto avevamo trovato un posto, uno qualsiasi che ci stessimo tutti, perché è un aeroporto non una stazione e gli aeroporti una volta erano posti sicuri, c’eravamo seduti e avevamo tirato fuori dalla valigia qualcosa di più pesante e qualche asciugamano e a avevamo dormito lì, uno accanto all’altro, ma non proprio dormito perché magari si perdeva l’aereo e c’era una di noi che si preoccupava che le guardie ci cacciassero e che allora sarebbe stato un problema ma chi tra noi era innamorato e chi tra noi era derubato e chi tra noi aveva camminato tanto sapeva che non era così, e allora noi c’eravamo abbracciati tutti, e alla fine un po’ avevamo anche dormito. E poi al mattino, che aveva la stessa luce della notte, perché negli aeroporti è come all’autogrill, c’eravamo tranquilli messi in fila, prima al bar, poi al check in e al terminal, quasi in silenzio, e sull’aereo eravamo tutti separati e all’inizio ci guardavamo sereni, poi abbiamo smesso. Ad Amburgo, ci siamo aspettati e ci siamo abbracciati di nuovo, in una luce ancora più asettica e strana e non ci siamo visti mai più.
Epilogo del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Epilogo di Sara Boero Alla fine ce l’avevano davvero, delle belle storie, quei nove smemorati. Mi liscio la punta della coda senza perderli di vista: Il bambino, senza fretta, si allontana in bicicletta; La pittrice e i suoi decori, ricchi d’animo e colori; Cavaliere immaginato, torna donna trasformato; Canta il vecchio musicista col suo buon cuore d’artista; Il barone truffaldino torna a casa col bottino; L’oste onesto è un’eccezione per le regole d’amore; Si confronta l’eremita con la svolta di una vita; C’era il boia e il suo mistero, s’è scoperto molto vero; Si dilegua la contessa che non era più se stessa. E io posso salutarli. Posso finalmente riprendere la caccia alla mia lucertola, che nelle ultime notti m’è sfuggita. La vedo tra le pietre del suo castello, la inseguo sulla terrazza. Si nasconde dietro a un vaso cercando di mimetizzarsi tra la lavanda e il timo ma questa volta non mi scappa sotto ai baffi: la fermo tenendola saldamente con la zampa. Non per la coda, come l’ultima volta, no: faccio per affondare gli artigli nel suo corpicino delizioso. E lei parla, con voce felina. La lucertola magica oppure no? “Gatto, anche sulla tua storia il sole sta per tramontare. Sono due giorni che ti scappo per fare indagini sul tuo conto. La mosca curiosa oppure no di me mi ha già detto tutto. Vuoi cenare o vuoi scoprire chi sei? A te la scelta.” Leggi i racconti di Apricale dall’inizio!
Decimo e ultimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! La contessa decaduta e il bambino americano di Angela Gambardella … 5, 6, 7, 8 perbacco! I rintocchi mi dicono che sono in ritardo oggi. Che sbadata! Devo correre in cima alla terrazza a salutare Perinaldo. Chiudo gli occhi e mentre canticchio nella mente una marcetta nuziale, un piccione in atterraggio mi sfiora la sciarpa avvolta intorno al collo. Subito dopo mi arriva una pallonata. Al mio solito strillo di spavento risponde una risata dalla piazza. Mi affaccio e ti vedo sghignazzare con insolenza. “Moccioso, vieni a riprenderti la tua palla!” Ti materializzi subito al mio cospetto e ti guardo con una smorfia di disgusto: da quanti giorni non fai una doccia? E quella macchia attorno al labbro è un principio di pubertà precoce o tracce paleolitiche di gelato al cioccolato? I capelli sono biondi ma aggrovigliati come dreadlock. “Non ti avvicinare, carino”, ti dico facendo un passo indietro e un sorriso di circostanza. Tu mi guardi con aria di sfida e cominci a canzonarmi: “hai paura dei piccioni, cosí grande!” Riconosco un accento americano e ti domando da dove vieni. Miami: mi spieghi che la Florida è un’appendice a sud degli USA. Che saputello! Indignata ribatto: “Beh certo, so benissimo dov’é la Florida. Ma cosa ti ha portato qui? Dove sono i tuoi genitori?” Dici di non ricordare nulla ma non sembra essere un problema per te. Ti volti di scatto verso il campanile e noti la bicicletta parcheggiata sulla guglia. Mi chiedi di custodirti la palla perché adesso vuoi andare a prenderti la bicicletta. Ne hai bisogno per raggiungere il confine francese: 2 ruote sono meglio di 2 gambe. Io invece prima vorrei recuperare dei guanti in lattice e del CIF per pulirti il muso. È così che si lavano i bambini, vero? Istintivamente chiamo la servitú in cerca di aiuto ma non risponde nessuno. Cerco di stabilire una relazione con te mentre tenti di parare i colpi di spugna. Nella colluttazione mi chiami maestra, poi ti correggi, teacher. Non faccio caso a questi dettagli, l’importante è renderti annusabile. Continui a parlare della Francia e mi pare di intendere che vuoi andare lí per raggiungere la tua famiglia. Ma perché ti hanno lasciato solo? Nel frattempo sei più calmo e pulito. Parli poco, ma quello che dici è deformato dall’accento, che comunque sembra forzato. Mi domando se tu non lo faccia apposta. Pian piano inizi a fidarti di me, forse perché sotto sotto in qualcosa ci assomigliamo. Ti prometto che farò tirare la bici giù dal campanile. Sembri più sereno adesso, e inizi a lanciarmi la palla, ma questa volta per giocare. Io son goffa ma ci sto. Inizi a fare sfoggio della tua sapienza e mi citi a memoria la catena montuosa alpina da levante a ponente, non omettendo il numero di pagina in cui inizia il capitolo. Nonostante la perdita di memoria temporanea mi sovviene il ricordo di essere una donna distratta. Eppure mi appare bizzarro che in America si studino i giovanissimi frammenti lapidei che svettano in Europa. Man mano che parli tradisci sempre più un gioco furbo che hai deliberatamente deciso di applicare. Fai finire tutte le parole con la W… Una sorta di alfabeto farfallino rivisitato. Con quell’accento bugiardo continui a chiedermi quando potrai avere la bicicletta appesa al campanile. Che sia questo l’indizio rilevante? Ti lascio lì e provo a chiedere aiuto a qualcuno in paese. Mentre cammino per le strade un cartello che indica il vicolo Ristretto mi attira a sé. Lì trovo uno zainetto azzurro dov’è disegnato uno stemma che racchiude una grande N. Deve trattarsi di una stirpe nobiliare a me sconosciuta, quindi di scarso interesse. Accanto c’è una scritta infantile: FORZA NAPOLI Apro la borsa e trovo i seguenti oggetti: un pupazzo dalle sembianze di Shrek vestito da calciatore con la maglia azzurra numero 10; un sacco a pelo logoro; 3 ovetti Kinder di cui 2 aperti e ricomposti ma senza la sorpresa dentro; 2 sorprese Kinder smembrate, evidente segno di scarso interesse del fortunato proprietario, oppure no; una borraccia con un liquido giallastro, forse succo d’arancia allo 0,3%; una cartina spiegazzata delle Alpi Marittime dove è stata tratteggiata a pennarello una pista ciclabile che parte dal Col di Tenda e arriva a Marsiglia passando per Apricale; un portafogli contenente ben 250 euro. Mi accorgo che è annotato il numero di un cellulare. Lo compongo speranzosa e all’altro capo della cornetta mi risponde una signora dalla voce afflitta: non ci metto molto a scoprire che si tratta della tua mamma. Povera donna, è disperata: sei scappato di casa in bicicletta due giorni fa per compiere un’impresa ardimentosa. Volevi arrivare fino a Marsiglia per vedere la semifinale degli europei. E hai pure pensato bene di spacciarti per americano, riciclando le quattro parole in croce che hai imparato alla TV! Un piano a prova di bomba: ma stasera qualcosa mi dice che la partita te la perdi… Leggi l’epilogo dei racconti di Apricale! Leggi i racconti di Apricale dall’inizio!
Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6 porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni. La Non-moglie la giornata di Angela Sotto la vernice del presente, una donna non-moglie e non-madre è guardata come un oggetto ignoto, un ufo sociale. Il ruolo di ufo può suscitare senso di meraviglia, come nei film di fantascienza, ma talvolta origina diffidenza e pregiudizio. Ne riconosco lo sguardo quando la conversazione s’interrompe, poco dopo il mio atterraggio, nel momento in cui appare chiaro che non ho una fede al dito e non ho una prole speranzosa del mio ritorno a casa. Uno sguardo come se avessi disertato qualcosa e che mi sorprende sempre. Non avevamo già superato questa storia dei ruoli? Manco per niente. Anzi, insospettabili amiche coetanee, divorziate e nei guai con il lavoro, parlano del loro passato matrimonio come di un progetto cui hanno creduto e che hanno coltivato in gioventù, senza dedicarsi ad altro – lavoro, carriera, interessi. Il ruolo di “moglie di…” appare nei loro discorsi carico di una pienezza esistenziale che è stata in grado di celare altre possibilità e la cui perdita, adesso, le sconcerta. Lavoro come insegnante in una scuola media. Affrontare ogni giorno una quarantina di persone diverse non è semplice. Anche perché io sono la nemica e non devo farmi impallinare. Suona la campanella. Si va in scena o in trincea, secondo le classi. In entrambi i casi, mi considero fortunata perché posso osservare agevolmente persone molto più giovani di me. Saluto alunni e alunne, che mi ricambiano con un’espressione del viso o una battuta peculiare, a volte con un silenzio speciale. Se ci si sofferma su di loro, queste ragazzine e ragazzini promettono bene. Non è vero che sono pessimi, come dicono tante persone adulte e invecchiate male. Non è vero che non capiscono nulla. Siamo noi che pretendiamo molto da loro ed esigiamo che, in un mondo in delirio, siano perfetti, responsabili, irreprensibili. Nel nostro mondo. Irreprensibili. Nel nostro mondo, dove tutti si-prendono-le-loro-responsabilità e poi le trattano come zerbini. Mi viene da ridere. Penso alle colleghe, non tutte per fortuna, subito pronte con parole dure verso di loro. Le capisco anche, magari dopo tanti anni di lavoro avrò anch’io esaurito la pazienza e la comprensione, oltre che le energie, ma si sono da tempo dimenticate cosa significhi avere tredici anni e dover stare seduti per sei ore. Non era facile nemmeno per me, che ero seguita da genitori attenti senza i quali non sarei riuscita a ottenere-buoni-risultati. Che poi, l’unico risultato davvero importante è essere felici. Alcuni ragazzini e alcune ragazzine non lo sono. A volte, mentre spiego qualcosa, una parte di me si diverte a immaginare come diventeranno. Sicura che non indovinerò mai. Arriva una circolare da dettare: “Il Dirigente Scolastico… i professori… i coordinatori… i rappresentanti”. Loro mi guardano, ghignando sotto i baffi. Sanno cosa sto per dire. E infatti. “Siamo quasi tutte donne e questi nomi sono tutti maschili. Io sono una professoressa e una coordinatrice”. Proteste scherzose da parte di alcuni ragazzini: “È giusto, siamo più importanti noi maschi!” Le ragazzine rintuzzano i compagni e li accusano di essere i soliti che non capiscono niente perché ragionano “con quello”. Dico loro che si tratta di uno stereotipo. “Però un po’ è vero”, ribadisce un’alunna, “non pensano ad altro”. “Tu non ci pensi?” “Be’, sì, ma loro… e poi io non sono mica una di quelle!” Affermo che ogni essere umano, donna o uomo, ha dei desideri e che questo per una donna non significa essere una-di-quelle. Non è facile. L’antico pregiudizio è inciso nelle loro menti, tenace e sempre nuovo. E la sorpresa mi coglie di nuovo. Non avevamo abbandonato queste prigioni? Quando sono state ricostruite? A pensarci, non sono mai state demolite davvero. Una collega mi domanda se posso sostituirla il giorno dopo. Deve andare dal pediatra e suo marito non può perché ha da lavorare. E lei che sta facendo? Coltiva compiti in classe per hobby? Le dico che la sostituirò. Suo marito ricopre un importante incarico in un’azienda e non può prendere un permesso per seguire i bambini. Ovvio. Naturale. Quindi il lavoro di lei è meno importante. E anche il mio. Mentre i mariti costruivano carriere da dirigenti nelle multinazionali, molte donne sceglievano l’insegnamento come ripiego, per potersi prendere cura della famiglia. Terza sorpresa. E’ ancora giusto così, per alcune. Il pomeriggio, correggo compiti in classe. Lotto contro gli anacoluti. E penso agli anacoluti del mondo, alle contraddizioni in cui siamo tutti e tutte invischiate, ai suoi pensieri torti. Abbiamo fatto dei passi avanti? Il mio compagno ascolta e condivide le mie riflessioni, e mi sembra già un magnifico dono. Mia madre è più ottimista di me e ne tengo conto. Forse ha ragione.
Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6 porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni. Un lunedì la giornata di Elisabetta Non voglio svegliarmi, non ancora. Devo finire il mio sogno. La sveglia si insinua maligna, a volte con una musica dolce piena di promesse; quasi sempre, invece, snocciola un concentrato di notizie volte a suscitare malumore. La disgrazia del giorno, l’aumento delle tasse, la dichiarazione insensata e autocelebrativa del politico di turno. Mi alzo, già consapevole che anche oggi arriverò in ritardo a lavorare. Del resto, non posso uscire di casa senza aver fatto colazione, cambiato idea un paio di volte su come vestirmi, dato da mangiare al gatto, controllato che le finestre siano chiuse, trovato chiavi di casa e cellulare, che si nascondono sempre quando li cerchi. Speriamo che la Capa sia di buonumore, oggi, altrimenti saranno rimbrotti generalizzati per tutti. Non che mi importi tanto, ma anche questo peggiora il tono dell’umore. Mentre lavoro, cresce sempre di più la sensazione di pestare l’acqua nel mortaio: non c’è una fine né un inizio, ma soprattutto nessun ritorno su quello che fai. Pazienza, che tanto mi tocca questo fino alla vecchiaia. Intanto penso già a quello che devo fare nel tragitto verso casa e poi a casa. Comprare il caffè solidale, prelevare i soldi al bancomat, far la spesa sotto casa, controllare le scadenze, pagare on line la multa per divieto di sosta di mia figlia, ritirare il bucato asciutto e metterne su un altro, pensare a cosa faccio per cena, sedermi per un quarto d’ora e poi mettermi a cucinare. Incombenze nel vero senso del termine, che gravano sulle mie spalle costantemente contratte. È un lunedì, ma potrebbe essere anche martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e, parzialmente, anche domenica, giornata in cui ormai mi tocca la visita alla suocera ultraottantenne, che, ostinatamente, vuol restare a casa sua da sola. Così mi ha delegato, bontà sua, la gestione della sua vita, badanti e relative bizzarrie comprese. Sabato no: finalmente posso sognare fino alla fine e concedermi tutto il tempo che voglio. Il tempo è scivolato via come una goccia di pioggia sui vetri, e a quasi sessant’anni – che pensiero orribile – a volte mi chiedo se valga la pena metterci tanto impegno. Poi penso alle mie bambine, che sono pezzi del mio cuore e dico che sì, ne è valsa la pena.