La contessa decaduta – Apricale 2016

Nono e penultimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il boia in attività e la contessa decaduta di Clara Negro Bastardo d’un gatto! Già, cosa diavolo potevo aspettarmi da un animale? A me, un boia, essere accoppiato a una contessa, dover trovare addirittura il suo passato. Che tu sia una contessa non ci piove. Ti guardo, stai sola in mezzo alla piazza, il naso all’insù, fin troppo all’insù. Come lo chiamano? Alla francese? No, all’insù come quelli che hanno la puzza al naso, narici strette per non sentire l’odore dell’umanità. La puzza della paura e del sangue. Che io amo invece. Ti muovi e cammini, la testa alta, lo sguardo che non sfiora mai terra. Guarda che così rischi grosso, bella mia, le pietre irregolari sono ingannevoli, non vorrei sbattessi il tuo bel nasino a terra. Ti seguo verso il Castello della Lucertola. Mentre sali sorridi, come il viaggiatore che, lontano da troppo tempo, torna a casa, e ritrova la sensazione di posti conosciuti. Tentenni sulla porta del castello, ti fermi a guardare per essere sicura che nessuno ti segua. La porta è sbarrata: oggi non è giorno di visita. Appoggi le mani bianche allo stipite scuro, mormori qualcosa poi ti afflosci, come se, quell’abito che porti con sussiego ed eleganza, si fosse improvvisamente svuotato di te. Ti afferro prima che tu cada sulle pietre calde di sole. Cosa credi bellezza che ti lasci andar giù così, a peso morto? Mi basta un braccio per sollevarti, un corpo troppo leggero, quasi fossi fatta di fumo e non di carne, ossa e sangue, cose di cui io son esperto. Mi siedo nell’umidità dell’ombra, in modo tu possa sentire l’aria fredda che sgorga dalla bocca della cantina, e ti trattengo tra le braccia. Sento che stai riprendendo coscienza, apri gli occhi e mi vedi: “Chi sei?” Non scappi, non ti agiti, non urli come mi aspettavo, mi guardi dritto negli occhi. “Chi sei?” ripeti. “Ecco, questo è il mio problema, proprio uguale al tuo. Io sono un boia, e tu una contessa, mi sembra di aver capito.” Sollevo la mano e l’avvicino al suo collo bianco. “E questa cos’è?” “Questa cosa?” “La cicatrice intendo.” Non finisco la frase che sei già in piedi. “Di cosa parli? Quale cicatrice? Sono i tuoi occhi di boia vecchio e pazzo a farti vedere cose che non esistono?” In quel momento la porta del castello si apre. È il custode che finisce il suo giro di ispezione e torna a casa. Lo spingi di lato e sgusci nell’androne buio. Ti seguo e il poveretto mi grida dietro:“Ma dove va? Oggi è chiuso.” Non mi fermo, entro e sbarro la porta con il ferro morto. Sono sicuro che qui dentro è successo qualcosa. I tuoi e i miei passi rimbombano nelle stanze, sulle mattonelle decorate, tra i mobili antichi, nella corsa rovesci qualche sedia, cadono oggetti che non posso fermarmi a raccogliere. Stanza dopo stanza, corridoio dopo corridoio, sembra persino tu sappia dove andare, come cercassi rifugio o fuggissi da qualcuno. “Fermati!” Grido. L’ultima camera si apre su un giardino pensile. “Dove sei caruccia? Che ti nascondi a fare? Mica avrai paura di me? Sono il boia, ma tu che hai da temere?” “E che ne sai? Magari potrei essere la prossima condannata alla forca, al ceppo.” “Ehi sei rimasta indietro bella mia! È finita l’epoca delle barbarie. Adesso civili come siamo usiamo i vapori di cianuro, le iniezioni letali. Niente più sangue, purtroppo.” “Va via boia o mi butto. Giuro mi butto di sotto.” Si avvicina alla balaustra. “Me ne vado, me ne vado. Tu però non fare sciocchezze!” Le tende a fiori svolazzano, gonfie di brezza della sera. Anche la luce si smorza, tenera e rosata illumina i ritratti alle pareti. Mi avvicino a un dipinto, una cornice dorata chiude un paesaggio marino attorno al corpo di una donna sottile, flessuosa, lo sguardo alto, buttato lontano sull’orizzonte e il naso…il naso all’insù. Troppo all’insù. Leggo il cartellino alla base del quadro: Cristina Belforte, contessa di Apricale,15 maggio 1840 – 8 settembre 1865. Cristina Belforte, sei tu allora, tu: la contessa di Apricale. Mi avvicino alla finestra, sei ancora là: il viso rivolto alla valle, le spalle curve di un peso senza memoria. Torno al dipinto, accanto c’è un tavolo e sopra al piano lucido libri antichi, documenti dai margini consumati e un quaderno. Lo apro: pagine ingiallite, fitte di una scrittura leggera e incerta. Leggo e la stanza si riempie di voci e di ombre, il passato diventa presente. Apricale, 12 marzo 1865 Il ventre si è gonfiato, ne spio la curva nel grande specchio della stanza. E faccio del mio meglio per schiacciare la protuberanza maligna con i palmi aperti. Che fare? Alfonso, mio marito, manca da otto mesi. Non posso fargli credere che sia frutto dei suoi lombi. E poi i soli ricordi che mi ha lasciato sono i segni della sua violenza. A lui, la colpa del mio tradimento. A lui e agli occhi e alle mani di Carlo. Alle sue parole di miele, al suo tocco leggero. Scorro veloce le righe: senti dentro di te quell’essere indesiderato e lo odi. Non sarai mai una madre.   Apricale, 12 luglio 1865 Tutti al castello lo sanno e tutto il paese ne parla. Li odio. Odio me e lui, e Carlo Ratti che è felice, invece. “Fuggiremo lontano!” Mi dice. Ma dove? Gli dico. Di che vivremo? “D’amore, mia adorata, d’amore e di baci.” Povero pazzo!   8 agosto 1865 È arrivata notizia: Alfonso tornerà prima di Natale. Per allora dovrebbe essere nato. Lo sento scalciare sempre più forte. Ho costretto Mariuccia a legarmi stretto il ventre con una fascia. Stringi, tira forte. Troppo tardi, non servirà a far scomparire la pancia, ha detto. Si avvicina

“Due lune”: la giornata di Laura

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Due lune la giornata di Laura Ora sono a casa, la mia giornata si sta avvolgendo ed è piena, come una luna che deve riuscire a contenerne due, una luna piena doppia. Tutto quello che faccio voglio che stia in qualche angolo, in qualche spazio, in un contenitore estensibile. Mi sono alzata presto. Oggi: uscita con i miei alunni. Uno sguardo alle figlie, che solo a pensarle un tasto automatico parte e inizia a far scorrere il nastro, fatto di fotogrammi già pieni e di altri ancora da impressionare. Quelli impressionati hanno tanti colori, suoni, toni. Quelli ancora vuoti hanno riflessi che basta poco a cambiare. E mentre esco attacco un altro passo, quello che mi porta al lavoro, sull’autobus do il via con il mio collega al prossimo possibile sciopero della scuola, sì o no. Cosa s’ intende per scuola, cosa per società, cosa per… e arriviamo. La sera prima non sono riuscita a scrivere, mi devo mettere a studiare, è deciso. Porto con me le mie forbici invisibili, mi servono per il mio passatempo preferito, ritagliare. Ritagliare tempo per me, trovare piccole asole, scucire un po’ qua e un po’ là e aggiungere delle tasche, dove mettere parti di me stessa. La mia giornata intanto scorre. Faccio turno doppio. Ma non mi spetta, ma non è previsto che non mi spetti. Mi spetta o no? Intanto lo faccio e buonanotte. Arrivo a casa e trovo ad attendermi qualcuno, o meglio qualcosa. Le cose che mi hanno salutata quando sono uscita stamattina: no, non posso, oggi sto fuori tutto il giorno; non posso neanch’io, Conservatorio e Università, ma come faccio? E io ho già dato, una riunione che mi aspetta. E poi devo fare la spesa. Allora le cose mi si affezionano, mi aspettano affettuosamente, mi scodinzolano quasi, quando arrivo a casa. Quanto gli sono mancata! Il gatto viene trotterellando in ingresso, quando mi sente, e si butta per terra, ama che gli gratti la pancia. Arrivo con le pile sul rosso, magari diciamo ancora sull’arancione, il rosso arriva dopo cena. E non è che rosso di sera buona giornata si spera. E due lune sono troppe, ci vorrebbero delle nuvole a coprirne almeno una.

“Eldorado” (2a parte) – Monologo per il Giorno della memoria

Paragrafo Centosettantacinque: La fornicazione contro natura, cioè tra persone di sesso maschile ovvero tra esseri umani ed animali, è punita con la reclusione. […] Eldorado di Camilla Tomiolo Quando è stata l’ultima volta? Due sere fa. E come è stato? Le luci sul palco, il semi buio intorno, euforia nelle gambe, paura nei polsi. E poi? Lo sai: prendi il respiro. Ti tuffi. È qui che ti voglio. Ci sei riuscito? Sì. Di nuovo. Sì! E che mi dici dei pezzi di faccia da gentleman che ti sei portato dietro? Li abbandoni pian piano. Un pezzo al guardaroba, un pezzo sotto a un tavolo, un altro pezzo sul bancone del bar. Qualche frammento microscopico sul vestito nero della folla. Tutto il trucco del mondo non basta mai. No, hai ragione. È un processo più fondo, quando cominci a dimenticarti che sono i tuoi gli occhi che guardano, allora sei libero: sei dentro la folla. Centinaia di persone che sudano, ballano, si baciano. Si spogliano. Scopano qua e là. Sì. È un’altra Legge lì dentro. Maschile femminile. Femminile maschile. (ride) Mostri! (pausa) Se potessi liberarmi di te senza perdere me stesso. Giusto e sbagliato. Bianco e nero. Verità assolute… (ride) Tradizione. Ciò che è sempre stato non può essere cambiato. Il pensiero si disfa di fronte alla realtà. La realtà è una e tu devi rispettarla. Tutto si trasforma. Questo non sono io. Io non sono te. L’unico peccato che ho mai commesso è di pensare di non sapere chi sono. Mi sono messo un paio di calze velate l’altra sera. Ero eccitato e nello stesso istante arrabbiato con me stesso. Nello stesso istante. L’eccitazione dal basso si espandeva, arrivava a sfiorare la rabbia che a quel punto non aspettava altro che scatenarsi contro di lei, ma, senza rendersene conto, tutto ciò che faceva era mescolare se stessa alla voglia: dare forza alla spinta. Le labbra le ho fatte di un rosso violento, troppo acceso per restare dov’era: nel cuore della notte mi è scivolato fuori dalla bocca, una strisciata che mi ha allargato il sorriso. (ride) O forse un livido. Un bacio senza amore. Un morso. Rosso innaturale diventerà viola. Non capisco perché lo fai. Cosa non capisci? Libertà o distruzione? (ride) Tu vuoi offenderci. (ride) Rispondi. Che cosa vuoi?! E tu? (pausa) Chi sei? Chi sei piccola voce che riempi le nostre teste? Da dove arrivi? Da quanto sei qui? (silenzio) Sei la morale? O sei la Legge? Di quale Dio? O sei solo un uomo, come me? Nemmeno. Tu sei un occhio impreparato che tenta di spiare l’universo da un buco di una serratura. Che cosa credi di vedere? (silenzio) Che cosa hai visto? Dillo! Che cosa credi di avere visto?! (silenzio) Non tutto ciò che non conosci è sbagliato, sai? Forse è perfino il contrario! Ci hai mai pensato? Eh?! Che cosa senti? Rabbia? Sì! Vorresti infilare tutto questo fango di nuovo dentro al secchio! Sì! (pausa) Io ho questo senso sulla lingua, che non è il senso comune, è la colpa. Io ho fame. E non posso farci niente. La mia anima c’è, e c’è, e c’è. Riesci a capirlo? Forse mi sono innamorato. Guarda come ti sei ridotto. Mi sono innamorato della libertà. Tutta questa libertà è solo una follia. Tu sei cattivo. Ero affamato. Avevo sete. La sete che avevo era una lama rovente. Ma volevo la luce. Volevi il buio. Volevo la luce. La tua luce è una terribile illusione. (silenzio) Tu non sai amare. È quello che dicono. Ma nessuno mi odia più di quanto io mi odi. Dentro di me c’è una voce che parla come loro, sei tu. È la mia guerra, è proprio qui. Se perderò… la perderò solo qui dentro. Tu amami piuttosto. Mostrami l’Amore. Si può insegnare? E se lo insegni a me, imparerai anche tu? Dicono che si deve educare al bene attraverso il male. Che siamo deboli. Tollerati. Per quanto ancora? (pausa) Se solo potessi essere quello che sono. Ma io non posso sopravvivere a te. E tu a me. Solo uno, solo uno di noi può restare. (pausa) Io non voglio morire.     Monologo teatrale scritto da Camilla Tomiolo, rappresentato durante l’evento Blackout – giorno della memoria al Munizioniere di Palazzo Ducale il 29 gennaio 2017, organizzato da Arcigay Genova.

“Eldorado” (1a parte) – Monologo per il Giorno della memoria

Un calcio alla porta e sono dentro. La guardia con un occhio blu e l’altro grigio grida: “hey tu, invertito, in piedi!”. “Si, signore”, risponde Hans, con quella sua vocina sottile da topolino. “Qui! In ginocchio!”. “Si, signore”, il topolino si mette giù, in ginocchio, con la testa tra le mani. Eldorado di Michela Armenia Il trucco, è non reagire, recitare una parte. E io sono bravo a recitare, Sei nato per questo mi diceva mia madre. Meine Liebe. E’ semplice. Io faccio la valigia e pouff, me ne vado. E mi infilo, piccino come sono diventato, in quella fessura nell’asse di legno che ho un palmo sopra la faccia. Proprio lì, sotto le ossa del bacino di Otto. Prima il polso, poi il braccio e la spalla, poi l’altro polso, l’altro braccio e l’altra spalla, e poi qualcuno da sotto mi spinge su, sotto i piedi, e appoggio le mani su travi di abete ruvido. Abbasso anche io la testa, e annuso questo palcoscenico e mi alzo in piedi sui miei tacchi di vernice, neri. Sistemo le calze, velatissime, l’abito è quello di raso, rosso, con lo spacco, profondo. I pendenti di brillanti e il decolletè, liscio. Le perle dorate. Sono pronta. C’è il mio pubblico, qui, all’Eldorado. Il giovedì è la mia serata, la serata di Evah. Ho messo un velo di cipria sotto il rossetto, me lo ha consigliato Constance, così non sbava, nel caso ti sudassero i baffi sotto le luci forti della scena. Constance, l’unica puttana ebrea di cui ti potevi fidare. Piccolo angelo, c’eri anche tu su quel vagone. Stella gialla a te, triangolo rosa, a me. A me, che nemmeno piace il rosa. Non ha passione. Rosso doveva essere. Rosso, come l’inferno. Come questo vestito di raso che scivola sulle mie gambe e odora di tabacco e di rum. La parrucca è quella nera, ondulata. Sono pronta, tra il pubblico ci sono tutti quanti, ancora una sniffata di cocaina. Sapessi, Guardia, come fa star bene un po’ di coca, una sigaretta e un bicchiere di vino rosso. Mi aiuterebbe, sai, Guardia, quando ti chiedo una porzione in più di sardine e tu mi spingi la faccia contro il tuo grosso cazzo ariano, non sai quanto mi aiuterebbe un po’ di coca, una sigaretta e un buon bicchiere. Inizio a cantare, ieri si è esibita Marlene, l’Angelo Azzurro, Dietrich su questo stesso palco e adesso tocca a me, ho cancellato le mie sopracciglia, con la cipria, e le ho ridisegnate sottili, due sorrisi sottili, all’ingiù, proprio come le sue. Ma il boa di struzzo no, io no, io sono Eva e voglio che mi vedano per bene, la mia faccia, la mia bella faccia tutta intera, con i miei zigomi forti e gli occhi allungati. Le mie gambe. E la mia voce. Inizio la mia canzone. Ridi, Guardia? Ridi della mia testa rasata da un barbiere distratto? dei miei capelli castani e lucidi lì per terra, sopra mucchi di capelli di criminali, pazzi, di comunisti, ebrei e zingari? Ridi dei miei denti che sembrano così grandi e gialli tra queste labbra cotte dal sole e dalla neve, tagliate da solchi dove scorre sangue e pus? Ridi delle mie mani che non sanno stare ferme? E’ il mio segreto, sai Guardia? Io sento la musica, io la seguo sulla punta delle dita. Dovevo stare più attento, oh lo so. Lo! So! Me lo diceva sempre lo Zio, sai Guardia? Mi diceva che dovevo essere un finocchio discreto. Tu puoi essere un finocchio ma non puoi vivere come un finocchio, diceva lo Zio. Non devi nemmeno sognare o immaginare come un finocchio. Il caro, vecchio, Zio. Era così infelice povero Zio, si eccitava come un bimbo davanti a un treno a vapore, per uno sguardo rubato, per una mano sfiorata, Ogni sua stretta di mano era il ristagno di una carezza, povero Zio. E ogni suo respiro, il ristagno di un grido. Io, Io la volevo tutta, questa mia vita, tutta così, come mi chiedeva di essere vissuta, io non volevo rosicchiare gli angoli. Io ho baciato, abbracciato, ho toccato e scopato così tanto e non ho mai dovuto pagare, sai Guardia? Ma certo che lo sai, quanta bella carne c’era attaccata a queste ossa. Io sono pronta, ora inizio la mia canzone, in prima fila c’è Christopher, che mi sorride, il mio piccolo Chris, con quel suo accento inglese, era adorabile. Avrei dovuto seguirlo, “Scappa con me a Londra”, mi ripeteva, “la mia vita è qui, all’Eldorado, dolcezza”, gli rispondevo. Chissà dove sei con i tuoi occhi verdi, mio piccolo Chris. Chissà se ci pensi ogni tanto… ti ricordi? Berlino. 1930… autunno. Io ti posso ancora sentire mio dolce Chris, nelle mie mani c’è il ricordo della tua pelle, nelle mie dita, la linea del tuo profilo. Mi sorridevi, dalla prima fila. Cherie. “Qualcuno porti via Hans”. Vogliono che ce ne occupiamo noi dei corpi. Non ci vogliono toccare. Non c’è nessuno che ci tocchi qui. Per noi con il triangolo rosa non ci sono più abbracci o carezze. Noi con il triangolo rosa sappiamo che siamo ancora vivi perché quando tossiamo, pisciamo o caghiamo sentiamo fitte di dolore. Quando ci bastonano le gambe se non scattiamo subito al suono della sirena, Fitte di dolore quando ci spingono per terra per vedere quanti secondi impiega un invertito a cadere, rialzarsi, cadere, rialzarsi, cadere. Il dolore dell’amore che se ne va, E’ la mia canzone. Meine Liebe. Mi dicevi “Scappa con me a Londra” “La mia vita è qui, all’Eldorado, dolcezza”, ti rispondevo sempre. Mi dicevi con il tuo adorabile accento inglese, mi dicevi “Questa non è la Terra Promessa” La Legge, mi dicevi, “We are bandits”.   [Voce fuori campo] Paragrafo Centosettantacinque: La fornicazione contro natura, cioè tra persone di sesso maschile ovvero tra esseri umani ed animali, è punita con la reclusione; può essere emessa anche una sentenza di interdizione dai diritti civili.   (ride e canta) Sei andato via da solo, meine

Il boia in attività – Apricale 2016

Ottavo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il frate alcolizzato e il boia in attività di Francesca Carlaccini Quest’uomo turba la mia quiete. Ha un sorriso titubante e ingenuo che stride con i suo i gesti netti e il modo in cui si tormenta le mani. Come se le sue mani ruvide e vecchie di duecento anni ancora ricordassero gesti realizzati con maestria e conclusi con raffinatezza. Tutti abbiamo una vocazione in un dato luogo e un dato tempo. La mia ad Apricale è questa: scoprire i segreti di quest’uomo che si fa chiamare Il Boia. L’ho già incontrato un po’ di volte: il luogo e l’ora sono sempre gli stessi. Sei del mattino, al tavolo che guarda verso Perinaldo. Il barista gli porta 2 litri di latte in una caraffa di vetro. Lui, religiosamente rivolto verso il panorama, beve bicchiere dopo bicchiere con una determinazione inquietante, fino a svuotare la caraffa. Risparmia solo le ultime gocce che fanno resistenza e che alla fine del rituale scivolano discretamente sulle pareti trasparenti. Sento di essere in una posizione privilegiata e di poter disturbare le sue abitudini solitarie. Mi siedo al tavolo con lui per osservare da vicino i suoi automatismi fedeli, che mi vengono consegnati con la stessa discrezione, goccia dopo goccia. E cosi goccia dopo goccia, ha confessato di sentire il bisogno del latte e dei paesaggi immobili e pacifici del mattino per contrastare gli incubi notturni. Le sue spalle formano un perfetto angolo retto con il collo e nascondono una tensione muscolare tale da farlo sembrare una macchina da guerra, capace di attutire i colpi di una vita lunghissima. Ma non mi basta, ho bisogno di più informazioni. Devo afferrare l’essenza nascosta di questo sguardo taciturno, le storie sotterrate e ripudiate dalla sua memoria, ma registrate sottobanco dai suoi tessuti muscolari. Perciò l’ho invitato a mangiare al ristorante credendo che un buon pasto e del buon vino gli avrebbero sciolto la lingua. Arriva in tavola lo stinco di maiale locale. Lo vedo frugare nella tasca dei pantaloni e recuperare un coltello. Incide un primo taglio nella carne morta servita nel suo piatto e poi mi porge il coltello perché lo osservi meglio. Il manico di legno sembra molto antico, la lama consumata. Me lo riprende e si rimette a sezionare il porco con chirurgica precisione. Comincia a parlare solo una volta terminata la prima bottiglia di vino, quando le mie gote sono ormai infuocate e io provo un misto tra terrore ed eccitazione. Prima di parlarmi lascia passare un interminabile silenzio. “Se sei veramente un uomo di chiesa, dovresti essere abbastanza colto per sapere cosa rappresentano le incisioni sul coltello.” “Non cercare di ingannarmi: intanto i boia non incidevano le tacche delle loro esecuzioni su un semplice coltellaccio, ma bensì sulla mannaia. E poi non scherziamo, cosa ci farebbe un boia nel 2016?” Il pasto ormai è terminato, nel poco tempo che rimane riesco solo ripetergli frasi fatte sulla bontà degli uomini a cui nemmeno io credo più. Pago il conto e comincio a vagare alla ricerca di un rifugio: mi sento come un bimbo terrorizzato dal buio. Cammino tra scaglie di calcare, ruscelli borbottanti, cortecce antiche, lucertole indolenti, formiche, libellule che tentano di persuadermi dell’equilibrio perfetto del ciclo universale. Ma tutta questa bellezza è illusoria di fronte alla crudeltà umana. Ho bisogno di immergermi in acqua gelida, ho bisogno di sentirmi immobile e in pace per contrastare i miei tormenti. Scendo al torrente, ai piedi di un sentiero che sembra porti lontano, dietro i monti e ancora oltre. Mi siedo su una rudimentale panchina, tentato dall’idea di scomparire dietro i monti come il sentiero. È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola… È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola: noto un libro nascosto sotto la panchina. L’autore è una certa Giada Prestanza. Il titolo è Ultime scuse del boia. Comincio a sfogliarlo con ritmo convulso, ogni capitolo è illustrato da un ritratto fotografico in bianco e nero. Lo richiudo e faccio un lungo respiro. Sembra incredibile ma è proprio la storia che stavo cercando. Riapro il libro al prologo e comincio a leggere. È la vita di un ex partigiano e delle sue esecuzioni antifasciste. “Dedico questo libro a chi questo libro me lo ha raccontato: mio nonno Aldo Prestanza.” Scorro le pagine fitte di foto in bianco e nero, datate dal ‘43 al ‘45, alcune anonime, altre eccentriche, altre ancora malinconiche. Durante la Resistenza non tutti erano pronti a sporcarsi le mani, anche se in nome della giustizia. Se nei tempi antichi il boia serviva a far rispettare la legge, per i partigiani della zona il boia serviva a far rispettare la giustizia. Ma la giustizia era illegale. Aldo Prestanza era quindi il mio boia. La mano che aveva sgozzato i ragazzi delle foto era la stessa che aveva stretto la mia. Allora era giovane come loro. Portavano i fascisti su per i monti di Rocchetta Nervina dove già abitavano i fantasmi. Lassù avvenivano le esecuzioni. Per ogni testa, una tacca sul coltello. Richiudo il libro. Se la Provvidenza non ci aiuta a ritrovare la nostra storia, può venirci in soccorso per il bene di qualcun altro.

“Tempo da cani”: la giornata di Marianna

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.    Tempo da cani la giornata di Marianna I cani non hanno tempo e non perdono tempo. Zompano sul letto, guaiscono piano annusando umido e affettuoso; calpestano le lenzuola di lino ricamate da zia Carmela, travolgono i cuscini ergonomici spaziali e mi ammaccano svariati organi interni. Puzzano di macaia, sale e marciume tiepido. Quindi non ho bisogno di aprire le persiane per sapere che fuori c’è un tempo di merda. Non esiste una puzza meno confortante, meteorologicamente parlando. Sbadiglio svogliata, il mastino più grosso mi sta masticando un calzino. Troppo tardi, è già scurito, intriso di bava. So già che nel pacchetto, di biscotti, non ce ne sono per tutti, li lascio a loro, farò colazione al bar. Non ho tempo da perdere. Costa, il mio compagno, occhi verdi, la mia parte psicologicamente sana. Mi osserva come se fossi un unicorno comparso improvvisamente in cucina. Forse dovremmo parlarne “Costa” è il suo cognome, non il suo nome, ma penso che non si debba dare mai troppa confidenza, anche al principe azzurro. Infilo indumenti a caso, denti e deodorante contemporaneamente. I capelli… sono viola, non esiste un modo per sistemare correttamente capelli color addobbo funebre. Mente locale. Michelangelo, il mio bambino, è in bagno che canta a squarciagola Radio Gaga inventando le parole e intanto si lava la faccia con un metodo da lui stesso inventato e brevettato. Riempie (cantando) il lavandino di acqua tiepida e poi , serio come un sufi turco, immerge il muso più e più volte, senza strofinare, senza massaggiare, senza sapone. Fa il sottomarino, riemerge, si asciuga. Passando per il corridoio intuisco attraverso la porta vetrata la sagoma di Federico, il più grande dei miei due figli non miei. Li ho ereditati dalla moglie di Costa che ha preferito disfarsi anche di loro anziché stare li a centellinare. Sta dormendo arrotolato come un fagotto e sta sognando la sua bionda, ne sono sicura. Alessia, la più complicata, ha dormito dalla sua amica Erica, tornerà più tardi. È come se fosse sempre a casa, aleggia nei pensieri di tutti, ha una personalità decisamente ingombrante, usa il mio profumo di nascosto, ma a me non dispiace. La casa è un casino, ma faccio finta di niente. Sono in ritardo. Ora le scarpe e via. Non ho calzini puliti. Io guardo il mastino, lui guarda me. Abbaia. Poi molla la presa.

L’oste onesto e il frate alcolizzato – Apricale 2016

Settimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! L’oste onesto (oppure no) e il frate alcolizzato (oppure no) di Elena Genisio Percorro faticosamente la salita che porta alla parrocchia; è ripida e le pietre sono arse dal sole, così come la mia testa; provo un senso di vertigine. Arrivo ad appoggiarmi al portone e finalmente entro. Mi investe una folata d’aria fresca, che mi rigenera. Intravedo quel frate solitario osservare con sguardo vacuo, quasi assente, l’altare della chiesa di Apricale. Sembra fuori posto, guarda gli affreschi alle spalle dell’altare come se non li vedesse davvero. Poi abbassa lo sguardo verso i mosaici colorati del pavimento e intravedo in lui un guizzo di ammirazione. Si muove lentamente, trascinando il suo ruvido saio con passo greve, tocca spesso il cordone che gli stringe la vita, aggiustandolo in continuazione, come se non ne fosse mai soddisfatto. La sua statura supera quella di un uomo di media altezza e la sua magrezza lo fa apparire anche più alto. Percorrendo la navata centrale, incrocio il suo sguardo acuto e penetrante; il naso affilato e un po’ adunco gli conferisce un’espressione vigile, precisa. Possiede un mento pronunciato, segno di volontà salda… Possiede un mento pronunciato, segno di volontà salda; il viso è allungato e coperto di efelidi, che sbocciano da una barba grigia scolpita con cura. Ritengo possa avere cinquanta primavere, ma il suo corpo si muove agile. All’improvviso lo vedo cambiare direzione per dirigersi deciso verso l’altare, sale velocemente i gradini che lo separano dal tabernacolo e compie un gesto inaspettato. A fianco del tabernacolo, dove vengono custodite le ostie da consacrare, qualcuno deve aver dimenticato il vassoio d’argento su cui è appoggiata la bottiglia contenente il vino per la messa. Il frate solleva il tovagliolo di lino bianco appoggiato sulla bottiglia, ma si arresta per guardarsi rapidamente attorno, furtivo, per verificare se ci sia qualcuno in chiesa. Io, nel frattempo, mi ero già nascosto dietro una colonna marmorea, in modo da osservare la scena senza essere visto da lui. Il frate, certo d’essere solo, afferra la bottiglia e, avido, beve il vino fino all’ultima goccia. Questa scena mi lascia esterrefatto. Finito di bere, porta le mani al cordone in vita per aggiustarlo compulsivamente, un movimento che sembra rassicurarlo. Fatto questo, si dirige a lunghe falcate verso l’uscita della chiesa, con lo sguardo basso. Nel frattempo, sono uscito dal mio nascondiglio, lui, passandomi accanto, senza vedermi, mi investe con un odore peculiare, aspro, direi alcolico, a me familiare e mi accorgo che il suo colorito è pallido ma acceso solo sulle guance di un rossore innaturale. Ho la sensazione di conoscere questo frate sgualcito. Questo frate, sotto il suo vecchio saio sciupato dal tempo, sembra custodire e celare con fatica un segreto. Forse la ragione che lo ha guidato verso la bottiglia. Sempre più incuriosito e attratto da quest’uomo, decido di continuare a seguirlo con discrezione per scoprire cosa gli sia accaduto, quale sia il suo segreto. Lo vedo sparire in un vicolo stretto. Entrato a mia volta nel caruggio, non vedo più il frate. Evidentemente ha allungato il passo e ha inforcato uno dei sentieri che portano fuori dal paese. Non provo a seguirlo per strade più scoscese, mi volto per tornare in piazza. Nei pressi dell’antico forno, incontro una donna con lunghi capelli corvini, che tiene per mano un bambino che potrà avere una decina d’anni. Dalla tenerezza che c’è tra loro è evidente che si tratti di madre e figlio. La donna è bella, ma un po’ sfiorita, sembra stanca; il bimbo mi colpisce particolarmente, non le somiglia affatto, ha colori diversi, capelli rossi e una pioggia di efelidi sulle guance. Quei caratteri mi risultano familiari: riconosco in lui i tratti di quel frate misterioso, anzi sembra lui in miniatura. “Ma come mai? È possibile che tra loro esista un qualche vincolo di parentela?” La donna trasporta con fatica una borsa pesante, vedendola in difficoltà le offro il mio aiuto. Intanto ne approfitto per scrutare meglio il bambino. “Signora, mi permetta di aiutarla… posso fare le veci di suo marito e portarle la borsa fino a casa? È pesante e lei deve badare anche al suo bambino.” E lei: “La ringrazio molto, abitiamo qui vicino” e guardando il bambino “è Francesco l’uomo di casa, siamo soli io e lui”. Dopo una discesa di pochi passi, raggiungiamo una casa graziosa, con un piccolo giardino e con finestre fiorite di gerani. “Eccoci arrivati!” esclama Francesco. Deposta a terra la borsa, mi congedo dalla donna e mi allontano. Nel frattempo, appare il frate, assorto, di ritorno dal suo vagare. Mi fermo di nuovo a osservarlo. All’improvviso viene investito da una palla: è Francesco che gioca con la sua mamma nel giardino. Il frate raccoglie la palla, alza lo sguardo e vede la donna. Lo vedo trasalire, immediatamente porta le mani al cordone del saio e le sorride istintivamente. Lei lo saluta con dolcezza: “Bernardo! Sono dieci anni che aspetto” dice. Un vecchio, seduto su una panca di legno poco lontana, assiste alla scena e si rivolge a me come se mi conoscesse: “Hai visto? Ti ricordi quando dieci anni fa Frate Bernardo è stato allontanato da Apricale? Ha vissuto per anni come un eremita, non si sa dove…”. Io che non ricordo nulla, guardo il vecchio con sorpresa, senza parlare. Il vecchio prosegue: “Ma sì… non era mai stata data una motivazione ufficiale per la sua partenza forzata, un esilio durato dieci anni. Poi è arrivato quell’angelo dai riccioli rossi, cresciuto solo con la mamma.” Ecco svelato il mistero di quella somiglianza. Il frate si avvicina quasi timoroso alla donna e al bambino, aggiustandosi il cordone del saio più nervosamente del solito. Allora il bambino prende l’iniziativa e gli corre incontro. Frate Bernardo toglie finalmente le mani dal

“La casalinga perfetta”: la giornata di Angela

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  La casalinga perfetta la giornata di Angela La casalinga perfetta si alza presto, prepara colazione, caffè fresco, pane tostato, cereali, spremuta; sia che abbia una famiglia o che sia sola. Entro le ore nove la casa è pronta per un ricevimento. Cucina a posto, letto fatto, aspirapolvere passato, bagno disinfettato adatto a qualsiasi operazione chirurgica. Lei docciata, vestita, truccata, con la lista della spesa in mano e le buste riciclabili, si dirige al supermercato anzi ai supermercati. Perché ha chiarissimo in testa dove e cosa costa meno, dove e cosa è di migliore qualità, dove la raccolta punti offre regali più allettanti. Un paio di giorni alla settimana, prima della spesa, fa un’oretta di palestra: bisogna pur mantenersi in forma. Ecco, io, io no. Penso che quelle che ci riescono, come minimo fanno uso di qualche sostanza poco legale. Io appartengo alla categoria casalinghe single, quasi divorziate e scrause come direbbe una mia amica. E la vita è dura per donne come me, nonostante il grande privilegio di non dover combattere per il pane quotidiano. All’alba di ore che variano, ma sempre si avvicinano al mezzodì, apro il primo occhio annebbiato vuoi da quella quantità di alcool vagamente superiore alle dosi consigliate ingurgitata la sera prima, vuoi dalla notte insonne o da una dose di Lexotan presa un po’ troppo tardi. Apro un occhio, poi l’altro, inforco gli occhiali e cerco di capire dall’orologio o dal cellulare quanta parte di giornata ho già sprecato. “Non devo dormire così tanto, ci sono un mucchio di cose da fare in casa…” Inciampando nella bottiglia dell’acqua, negli stivali e nelle borse della spesa dimenticate in corridoio, raggiungo il bagno. Sulla tazza richiudo un attimo gli occhi, non sono ancora pronta ad affrontare la giungla. Libera dalle prime urgenze corporali, in vestaglia rosa pallido, punto il radar verso la cucina dove un avanzo di caffè mi aspetta e lo sparo dritto nel microonde, accasciandomi poi sulla panca per inzuppare un paio di biscotti, molli perché il pacchetto era rimasto aperto, in quel rimasuglio di liquido nero. Tirato il fiato per l’immane fatica, ci vuole ancora un po’ di caffè per mettersi in moto e ne faccio mezzo litro di quello lungo, tipo americano. Se avanza, domani è già pronto. Se non sono obbligata a uscire per impellenti ragioni, volontariato, corsi, visite mediche, pratiche burocratiche, infilo una tuta con cui ginnastica non l’ho davvero mai fatta. Un’ occhiata in giro e un sacro fuoco mi prende. “Ora metto tutto a posto, Sì!” Prima, però, meglio sedersi un attimo sul divano a controllare i messaggi del cellulare, un’occhiata alle mail per quell’ordine di tavolette di cioccolato ai cristalli di rosa di cui proprio non posso più fare a meno. L’occhio cade in basso a destra sullo schermo del p.c.: le 14.00? Ma, come è possibile ? Sarà rotto. No, sono proprio le due, forse dovrei mangiare ma ora non ho fame, ho fatto colazione da poco. E poi dovrei andare a fare la spesa, o scongelare qualcosa. C’è un po’ di polvere sulla libreria, ora pulisco. Scala, mangia polvere, straccetto magico, salgo. Porca…, i guanti, scendo per prenderli, il campanello della porta suona: lettura gas. Non ricordo di aver visto il cartello ma apro, è la signora che viene sempre. Mi scuso per il caos, è una misera finzione, non me ne frega niente, ma si fa così. Se ne va. Cosa stavo facendo prima? Mi scappa la pipì, vado in bagno, studio il bidet, sarà il caso di spruzzare un po’ di Cif, ma la spugnetta dov’è? Ho buttato quella vecchia tre giorni fa e quelle nuove sono ancora nel sacchetto. In soggiorno la scala aspetta, in corridoio i sacchetti aspettano. Il computer è ancora acceso, ricontrollo le mail. Mi ha scritto la mia amica dall’Olanda, devo assolutamente risponderle. Ok fatto. Ora spugnetta e pulire bidet. Il Cif si è seccato e la crosticina biancastra è dura da levare ma il risultato è ottimo: bidet come nuovo. A ben vedere anche il resto del bagno avrebbe bisogno di una passata, prima però ci vuole un po’ di aspirapolvere altrimenti poi cade l’acqua e faccio un pasticcio. Fuori l’aspirapolvere dallo sgabuzzino, già che ci sono lo passo anche in corridoio. Suona il telefono, è mia mamma che vuol sapere se vado a cena, se domani l’accompagno dal dentista, cosa sto facendo, se posso darle una mano con i vasi in giardino. “No mamma, oggi non ce la faccio, ho troppo da fare, magari domani ci risentiamo”. In soggiorno la scala aspetta, in corridoio i sacchetti aspettano in compagnia dell’aspirapolvere. Ora un certo languorino lo sento. Le 17:00? Ma, com’è possibile? Va bè, farò merenda: un tè ,un budino, un mandarino per le vitamine. Mia mamma ha parlato di piante, e le mie piante? Sul balcone un po’ ammosciate aspettano l’acqua e una buona

Non scrivo favole – Anselmo Roveda

  “No, non scrivo favole”. E non ho occhi a cuoricino. Luoghi comuni e letteratura per l’infanzia di Anselmo Roveda Prima di sentirmi dire che sono uno scrittore dovrete durare fatica. Anche per i miei vicini di casa è scoperta recente. Di solito ci giro intorno, non sono uno di quelli che si presenta come ‘scrittore’, anche se i libri sono, ormai da parecchio, parte rilevante del mio mestiere letterario – ché poi si fa pure cronaca e critica letteraria, traduzioni, formazioni, conferenze… I primi tempi evitavo solo per timidezza. E timore. Temevo che vista la assai nutrita compagnia circolante di autoproclamati scrittori, in ragione magari di un solo titolo variamente pubblicato (self, stamperia sotto casa, EPA, minuscoli editori mai o mal distribuiti…), si potesse scambiare l’affermazione per millanteria, vanteria, mancato senso delle proporzioni o, peggio, della realtà. Poi si cresce, i titoli si moltiplicano, le occasioni pubbliche ti smascherano e così ho smesso di negarlo. Certo, ci giro intorno un po’. Ma lo dico. Mi dilungo e infine, in una sorta di coming out, lo dico: “Sono uno scrittore”. E la cosa piace, un po’ ovunque, perfino nei baracci che amo frequentare e nelle sale operatorie che mi è toccato visitare di recente. Ora però c’è un problema, sia con l’avventore da “gotti” sia con il chirurgo ortopedico. Le domande seguenti, infatti, sono “quali libri hai scritto” e “quale tipo di cose scrivi”. Ecco, tanto più avendo presente i livelli di lettura nazionali, citare un proprio titolo non funziona, a meno che, a seconda dei gusti, non siate l’autore di Gomorra, Tre metri sopra la cielo, La strada verso casa, Seta o Il cane di terracotta. Sul “cosa scrivi” è più facile e difficile. Evito di dire che credo e pratico l’idea di ‘autore totale’, come dice Andruetto. E cioè che scrivo ‘di tutto’, anche prendendomi il rischio di non essere efficace in ‘tutto’ allo stesso modo. Dico direttamente che scrivo ‘di tutto’. Perché le storie, spiego, prendono strade e forme diverse: alcune cose riesco a dirle solo in poesia (e in genovese); altre solo in forma rappresentabile ad alta voce, magari in radio; altre hanno forma narrativa più tradizionale, racconti, talvolta con sfumature nere o fantascientifiche; altre storie ancora, e sono la più parte del pubblicato, mi viene voglia di accostarle a lettori giovani o giovanissimi. Anche qui declinando le forme: dal testo per l’albo illustrato, al soggetto per fumetti, alla narrativa. Insomma, scrivo soprattutto “per bambini e ragazzi”. Ecco, l’ho detto. L’interlocutore, primario e/o alcolista, di solito dissimula la delusione con un sorriso: troppo articolata la risposta per dirgli, alla fin fine, che scrivo per mocciosi e brufolosi. Poi come in un’illuminazione, sinceramente entusiasta, aggiunge: «Ah! Che bello! Scrivi favole». Ecco, no. Non scrivo favole. Le favole sono una forma ben specifica della narrazione, fin dagli antichi, e a dirlo tutta, al di là dell’ampia proposizione a ricaduta sul pubblico dei bambini, non sono esattamente un genere letterario dedicato in modo esclusivo all’infanzia, anzi. Ad ogni buon conto, sbirciando alla voce favola nell’Enciclopedia Treccani (disponibile anche online) troverete: “Breve narrazione per lo più in versi. Quando si parla di f. come genere letterario, ci si riferisce comunemente a quella i cui caratteri fondamentali furono segnati già da Esopo e universalmente diffusi da Fedro: essenziale è che essa racchiuda una verità morale o un insegnamento di saggezza pratica e che vi agiscano (a volte insieme a uomini e dei) animali o esseri inanimati, sempre però tipizzazioni e quasi stilizzazioni di virtù e di vizi umani”. Appunto. Non ho nessuna verità morale o saggezza pratica da propugnare. Non rappresento di solito nelle mie narrazioni bestie; e tanto meno, qualora le usassi, le caricherei allegoricamente di vizi e umane virtù. Mi è capitato di rinarrare favole e fiabe, ma questo è un’altro discorso, anzi due (e già: oltre al tema della riscrittura, bisognerebbe pure mettersi d’accordo su cosa sono le fiabe; chi è stato al corso di Officina me ne ha sentito parlare). Io faccio semplicemente letteratura, che diventa per l’infanzia o per i ragazzi quando incontra soprattutto lettori di quelle età. Racconto, di solito, storie di uomini e donne, di diverse età, che si muovono in un tempo e in un ambiente, talvolta reali talaltra fantastici. E sebbene non abbia verità morali o saggezze ad orientare la mia opera, sono costituto come ogni autore (ed essere umano) da esperienze e desideri capaci di ricomporsi in una visione del mondo e in un sistema di valori. La scrittura di ciascuno, così come ogni azione umana (autori e no), trae senso, forza e peculiarità proprio da questi elementi. È quello che cerchiamo come lettori. Quindi, certo, dentro la letteratura per l’infanzia troverete visioni del mondo, ma non diversamente che in tutta la letteratura e sicuramente non ridotte a schematismi moraleggianti. Almeno nella buona letteratura per l’infanzia; delle cose di poco conto è inutile dire (e quelle abbondano anche nelle altre forme di letteratura). In breve: non scrivo favole. E a dirla tutta detesto le storielle edificanti, a maggior ragione con animali che sanno perfettamente se stare dalla parte del bene o del male. C’è però in agguato un’altra conseguenza sociale nell’aver affermato di scrivere per bambini e ragazzi. Insidiosa, scivolosa. E già, perché il nostro interlocutore, quale che sia la sua cultura, di solito ha una seconda prepotente inferenza. Infatti, oltre a farsi convinto che tu scriva favole, riterrà immediatamente che tu sia bravo, nel senso di buono: dal cuore gonfio di buoni sentimenti e dalla testa piena di leggeri lineari corretti pensieri. Una persona con una vita leggiadra e colorata come immagina siano (e per fortuna non sono) le illustrazioni per bambini. Del resto – pensa, in vasta compagnia, il nostro interlocutore – chi si occupa di bambini, fosse anche solo per scrivere storie loro dedicate, è sicuramente una persona buona, semplice, forse anch’essa infantile, libera dalle preoccupazioni e dalle miserie del mondo adulto. Spiace dirlo, ma oltre a non scrivere favole non sono neppure buono. Chi scrive per bambini fa

Il barone rampante e l’oste onesto – Apricale 2016

Sesto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il barone rampante (oppure no) e l’oste onesto (oppure no) di Licia Valente Mi sono appoggiato alla balaustra sul sagrato della chiesa. La gente è più bella vista dall’alto. Ricci arruffati, cocce pelate che brillano al sole, ventri gonfi sotto bazze di tordo. Ride il gatto, è disgustoso mentre ammicca e si prende confidenza, quasi fosse uno di noi. Chi siamo noi? Ero un barone, lo so per certo, ché non mi piace star appresso agli altri, né gli altri amano avvicinarsi a me. Chi sono gli altri? Cavalieri, mocciosi, chierici derelitti, musici e contesse decaduti hanno steso sulla piazza le loro vite senza più orme una vicina all’altra. Siamo fantasmi appesi al campanile, in balia del vento che non viene a portarci via. La porta del castello stride con le rondini, si apre su un giardino ombroso che guarda il borgo dall’alto, come me. Senza più una storia che segni il mio confine, provo a immaginarne altre, una per ogni testa. Qual è la tua, oste che ti dici onesto? Le tue spalle piccole si sono posate come un velo sulle pietre aguzze. Hai dormito il sonno dei giusti e ti sei svegliato che non eri più tu. Sarai davvero onesto? Dal fondo del mio nulla ormai perduto suona una nenia antica: L’oste onesto si muove lesto. Non è mai mesto l’oste onesto. Ha le mani fini e sottili, di chi sa dove vuole metterle le mani, e dove tenerle fuori. In sogno, dita simili, di donna, si infilano nel solco della memoria e della mia schiena. “Diritto, devi stare diritto”. La voce che risale da lontano, gira intorno a una tavola imbandita, non ha volto né nome. L’oste sorride a tutti, non separa mai le labbra. Non dice, lascia dire. Annuisce spesso, quasi annotasse un parere da prendere in prestito. Per lui, siamo solo passanti dentro una taverna senza nome o luogo, in una notte senza memoria, uno a fianco all’altro, lo sguardo fisso alla bicicletta appesa al campanile, che nessuno la può rubare. Seduto al lavatoio, l’oste fissa il vuoto e stringe le mani l’una dentro l’altra. Dove vuoi tornare, oste onesto? Un oste è onesto solo se non è un oste. Dalla mia balaustra, osservo la lapide su cui vorrei leggere chi sono stato. Una voce straniera fende l’aria alle mie spalle. Mi inchino d’istinto. “Bonjour mademoiselle l’artiste”, e son già pronto a balzare sul parapetto, di nuovo in alto, lontano. L’ amazzone del popolo che ho davanti non è certo demoiselle, ha mani ruvide con cui si carezza le guance cosparse di vene sottili. – Bonjour, mi dice. – Vous n’êtes donc pas l’artiste? – Eh bien non. Sono l’ostessa, per servirvi, Monsieur. – È incredibile c’è qui tra noi smemorati anche un oste, forse onesto, o almeno comme ça il dit. Forse lo conoscete? – Monsieur mio caro, mi dice allora lei, tout le monde le sait che un oste è onesto solo se non è un oste! Ride così argentina che mi scappa la voglia di saltar sul mio poggio. Ha fianchi larghi e seni poderosi che tiene a bada con le mani mentre ride. E’ desiderio quello che provo? Ho avuto un grande amore? Forse mai. – Ditemi però, Madame, lo avete mai conosciuto, voi, un oste onesto? – Oh moi? Bien sur, certo che sì. Questo sette di luglio non c’è la luna, che se l’è mangiata il gatto, dopo la lucertola. Lei è tornata sotto la mia balaustra. Da lì mi ha detto del suo amore perduto in una notte di nera magia. Oste, hai avuto più di una vita e più di un volto. Eri tu quel giovane delicato e buono, per davvero hai amato e per amore hai abbandonato altezze e distanze. Svelato è il tuo mistero, oste onesto: fosti Alberico, nobiluomo innamorato di una scalcinata forestiera senza passato o blasone. Nel borgo fu l’incontro, per lei lasciasti onore e lustro appesi al gran camino delle feste, nel castello ai piedi del monte. Al borgo passò la strega quella notte e quando tornasti a questo borgo appeso, le campane non si mossero a salutare il tuo ritorno d’eroe senza trofeo. Ti dissero allora che se n’era andata. La notte del 3 di Luglio, quella volta. la strega rubò a lei, straniera, la memoria e a te l’amore. Senza una parola, era fuggita a un passato che credeva per sempre perduto, mentre il gatto rideva, tenendo tra le unghie la vostra storia, come un topo che muore. Senza più nome né amore, cercasti un luogo straniero e ti facesti oste tu stesso, a eterna memoria del sogno fuggito. Sei davvero onesto, oste, perché oste davvero non sei. Per questo sei tornato qui, a cercarla una volta ancora. E sei rimasto tu, questa volta, prigioniero tra le fauci della strega e del gatto. Mi guarda sconsolato, quel nome davvero non è più il suo. “Non sono più io quell’uomo, io sono l’oste portami via al mio banco e al mio grembiule.” Lei spunta da dietro le mie spalle, – Sono io. Sono qui. La seguo scendere lenta, verso di lui. È una stella che scende dentro gli occhi spalancati di lui. Sono quattro ora le mani intrecciate e hanno la forza dell’edera, per non lasciarsi più. Il gatto ulula dal fondo del pozzo. – Finalmente ti ho trovata, le sussurra lui. – Sono io che ho ritrovato te.   Leggi gli altri racconti di Apricale 2016!

“Ancora un’altra giornata”: la giornata di Sara

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ancora un’altra giornata la giornata di Sara Sono molto stanca. Sono sempre molto stanca, io. Non si tratta della quantità di cose che faccio in una giornata, certo ne faccio molte, ma non è quello; in una condizione diversa potrei farne altrettante senza essere inguaribilmente stanca. La mia stanchezza è sintomo d’una malattia chiamata abitudine al dovere. Mi esercito con diligenza a questo tipo di abitudine per rassegnazione ed inevitabilità: manco di una strategia alternativa e davanti alla mia disperazione di cambiare le cose ogni progetto si arrende. Il fatto è che andare a rinchiudermi in una stanza, popolata da persone che non ho necessariamente scelto di vedere nove ore al giorno, non mi va proprio giù. Non è per queste persone tuttavia, col tempo abbiamo modulato il nostro essere umani in una vicinanza forzata, abbiamo creato un equilibrio, un clima dopotutto; il fatto è che ho una lunga serie di motivi per essere stanca. Ad esempio, la mia sveglia suona alle sette ogni mattina, e non dico che vorrei dormire, ma che vorrei smetterla di dover correre ogni giorno come se stesse per finire il mondo e mi fossero rimasti solo pochi minuti per salutare la mia famiglia per l’ultima volta, quando lo scopo della mia frenesia in realtà è non timbrare in ritardo un’entrata al lavoro. Ad esempio, odio gli spazi piccoli e sovraffollati e l’ufficio in cui lavoro è un quadrato in un rettangolo di tanti altri quadrati in cui ci si è dati parecchio da fare per aumentare la densità di popolazione per metro quadro. Ad esempio, ci sono giorni in cui vorrei andare a farmi una passeggiata in riva al mare o restare a casa a scrivere il mio romanzo che non finisco mai o andare a leggere un libro in una locanda sorseggiando quel caffè che non posso bere perché il mio colon-irritabile-sempre-irritato me lo impedisce. Ad esempio, fissare un monitor come un serpente che ne ha subito l’incantesimo, restare seduta nella stessa posizione per molte ore, compiere numerosissime ripetizioni in un processo di click automatizzati, sollecitare senza tregua chi mai risponde non mi piace. Ad esempio, lavorare duro, lavorare seriamente, trovare persino un senso alla fine di quelle giornate – che si ricalcano con una precisione tale da farmi dubitare che stia vivendo la stessa unica giornata da molti anni – mi pare un’illusione nel momento in cui mi accorgo che conta solo ciò che appare. Ad esempio, mangiare con un cronometro da centometrista puntato sulla testa a scandire la mia tregua di quarantacinque minuti mi fa restare il pranzo sullo stomaco perlopiù. Ed ecco che il mio apparato digerente mi dichiara sciopero e, almeno lui, di lavorare proprio non vuol sapere. Ad esempio, dopo otto ore di lavoro vorrei uscire; e molto spesso lo faccio, ma il senso di colpa per tutte le cose che ogni giorno lascio da finire viene a farmi visita la sera, quando passo in rassegna tutte quelle maledette scadenze che si accalcano in quella che sembra essere una linea unica, sempre più spessa, su un giorno del calendario. Un calendario in cui numeri sono vaghi ricordi, al di là di queste linee spesse. Poi, quando alla fine riesco ad uscire, viene la stanchezza a prendermi. Il resto della giornata è la coda di un’animale lungo, il cui corpo ormai è uscito dal mio campo visivo da un pezzo. O come titoli di coda di un film che avrei voluto vedere, se fossi arrivata in ritardo per ritrovarmi sulla poltrona del cinema quando gli altri ormai se ne stanno per andare. Quella coda è il mio tornare a casa, accorgermi che non posso avere la pretesa che la cena si sia preparata da sola, decidere per principio o per rispetto che io e mio marito non possiamo fomentare l’industria dei cibi surgelati e mettermi a cucinare, lavarmi e poi lavare il bagno, decidere se fare una lavatrice o tirare avanti, decidere se stirare o tirare avanti, tentare di scrivere qualcosa ma smettere dopo mezz’ora perché l’emicrania incombe, accorgermi che alle nove e quarantacinque sto per addormentarmi e arrendermi in attesa di un’altra giornata come questa. Sono molto stanca. Sono sempre molto stanca perché continuo a vivere giornate come queste, che passano inosservate perché assolutamente normali per l’uomo moderno.

“Bussola”: la giornata di Emilia

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Bussola la giornata di Emilia “The future is dark, which is the best thing the future can be, I think.” Virginia Woolf Premessa: ho chiara la meta, ma non ho mai immaginato la mappa. I numeri che contano: cinque, sei, sette e cinquantacinque, tredici e cinquantacinque, sette, diciannove e trenta, ventuno e trenta, venti, due, quarantadue, settantatre, sessantadue e mezzo, sessanta, diciotto, venticinque, due, quattro. Le azioni: svegliarsi, lavarsi, pesarsi, vestirsi, scusarsi, sorridere, pregare, comprare, mangiare, guidare, preparare, spiegare, sgridare, scrivere, correggere, studiare, parlare, dialogare, telefonare, fare, credere, guardare, dormire, misurare, confrontare, accettare, rifiutare, pulire. Queste sono le ossa del mio tempo. Adesso viene la ciccia. Oggi è mercoledì: io, mi sveglio alle cinque, come al lunedì e al martedì. Ho calcolato tutto: sveglia, pipì, caffettiera, fuoco sotto il caffè, pipì, bilancia, faccia, ascelle, denti, spengo il fuoco sotto il caffè, troppo tardi, non pulisco la pozza sul fornello, non mi faccio domande su chi mi vede dalla finestra di fronte, discinta in varie maniere, mi vesto, sperando in innumerevoli grazie, e oggi non ne ho voglia, vorrei una tuta, ma no, così sacco di patate anche no, allora tutta di nero, che non necessita pensieri e accoppiamenti, e comunque è tutto largo, e un anno fa era troppo stretto, e faccio colazione, e fumo la prima sigaretta e controllo la posta elettronica e, per carità, nessuno che parli alla radio o in generale, e meno male che al momento non vedo nessuno, perché al mattino che parlano o commentano le notizie o ballano canticchiando e leccandosi i capezzoli (storia vera, perdinci!) e allora son soddisfatta della magra però intanto c’ho fatto caso e m’impegno in una dettagliata e puntigliosa discussione immaginaria con l’ultimo dei miei ex, da cui esco vincitrice morale e fattuale. … m’impegno in una dettagliata e puntigliosa discussione immaginaria con l’ultimo dei miei ex, da cui esco vincitrice morale e fattuale. Soddisfatta, finisco la vestizione e guardo l’orologio del bagno. Ho calcolato tutto; ho calcolato male: sono in ritardo. Arrivo alla macchina. Non è la mia. Pausa. Ravvio. Ho trovato la macchina. Alla seconda passata. Metto in moto, accelero in prima, troppo, porcaccia ho dimenticato di preparare la lezione per la bambina straniera che, nonostante le mie distrazioni e casualità, sta imparando l’italiano, devo pure procacciarmi il cibo, perché si ha da mangiar bene, ma non è più così importante (il cibo) finché mi peso, e allora ricalcolo, ripasso e stabilisco soluzioni: gli esercizi per la straniera, il tragitto per il cibo. E mi godo la sopraelevata, che, a Genova fa brutto dirlo, ma è bella, per la vista. E mi godo la sopraelevata, che, a Genova fa brutto dirlo, ma è bella, per la vista. Arrivo a scuola. Cinque ore, due con diciotto, tre con venticinque: Storia, Antologia, Storia, Antologia, Geografia; ogni istante moltiplicato almeno per tre: i tre livelli, i cinque pluribocciati, i sette interessati, non importa, ma almeno tre. Il tempo si dilata sotto il tentativo di stare dietro a tutti finché non tocca la certezza del fondale: sto facendo giusto. (Ogni giorno di scuola non è cinque, ma quindici-trenta ore). Alla fine, oggi soddisfatta: animo leggero, cervello elastico: la seconda ha retto l’analisi degli aggettivi ne “L’Infinito” di Leopardi, la prima inizia a esprimere dubbi. Abbiamo provato l’evacuazione in caso d’incendio e non siamo morti. Dieci minuti e si era di nuovo in classe. Scendiamo, siamo tutti liberi, ma ho parlato troppo presto. Mentre cerco cartine, tabacco e filtri, che hanno la stessa esistenza intermittente di chiavi, portafoglio e cellulare, una mamma mi viene incontro, saluta e chiede cosa è successo con la figlia. Errore uno: mi fermo, dovrei rimandarla all’orario di ricevimento. Errore due: non mi ricordo. Lei incalza, ma sì, l’ha interrogata e l’ha rimanda a posto. Focalizzo: la bimba, prima media, bravina, interrogata di Storia, non la sa, non avevo voglia di dar votacci, l’ho mandata a posto e le ho detto di tornare la volta dopo. Lei incalza. “Ma c’era un cinque!” “Signora, poi le ho dato sei e mezzo.” “Ma c’era un cinque!” “Si, ma non c’è più.” Alziamo la voce. Maledetta io che mi dimentico, maledetto registro elettronico, tento di spiegare che quel voto non l’ho detto alla bambina, che era un promemoria per me, ma niente, lei insiste. “C’era un cinque!” ripete “E la bambina ha pianto! Sa quando sua figlia piange?” No, non lo so, io non ce l’ho una figlia. Non ho un figlio. Non ho una cane. Non ho un gatto. Ho due piante del buio e un’orchidea dell’Ikea. Il resto della mia capacità di cura l’ho messo in vendita, e va bene così. Ma ho capito. Mi calmo. Rispiego. La mamma non è convinta ma molla il colpo. Mi guarda, mi saluta e se ne va. E, giuro, abbraccia la figlia. Il resto della giornata ha il ritmo della

Il vecchio musicista – Apricale 2016

Quinto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del vecchio musicista e del barone rampante! Il vecchio musicista (oppure no) e il barone rampante (oppure no) di Paolo Silingardi «Barone, credo che il gatto sia stato oltremodo magnanimo nell’assegnarmi questo compito. Abbiate solo la compiacenza di sfilarvi il guanto in modo che possa osservare l’anello con il sigillo del casato e il mistero sarà subito risolto» «Ma certo! Nonostante l’età il suo cervello è davvero… ahi» la bocca si piega in una smorfia di dolore. «Diavolo, mi sono ferito. Mi era parso in effetti di avvertire un fastidio.» «E’ un taglio.» «Non ho la minima idea di come me lo possa essere procurato» «E il suo anello è sparito.» «Forse sono stato rapinato.» «È quello che intendo scoprire, signor barone. I miei ossequi.» Immerso nei miei pensieri ho abbandonato la cacofonia della piazza per trovare rifugio nella quiete dei vicoli ombrosi. Il gatto ha detto che l’incantesimo colpisce solo i forestieri. Senza dubbio il primo passo è dunque quello di domandare nelle locande. Mi metto quindi in cammino mentre riassumo nella mente le caratteristiche del barone. I vestiti paiono di eccellente fattura, il portamento è nobile, la voce è bassa e impostata. Solo quel barbone nero da brigante stona con il resto, ma vai a sapere come sono adesso le mode dei giovani. Assorto in questi pensieri mi ritrovo infine davanti a una locanda, l’insegna malandata che cigola alla brezza del mattino. Non pare posto adatto a un signore, ma da qualche parte si deve pur cominciare. E poi ho bisogno di andare in bagno e riposare qualche minuto. «Mi hanno detto che in questa locanda alloggia il barone di… di… Mi aiuti bella signorina ché alla mia età la memoria gioca brutti scherzi…» La fanciulla scoppia a ridere così forte che quasi rovescia il mio bianco amaro. Il suo petto sussulta meraviglioso come quello di certi soprani… «Un barone qui. Questa è bella davvero bella» i seni palpitano ancora mentre si curva sul tavolino. «Eppure dovrebbe alloggiare in una locanda come questa, se non erro.» «Voi forestieri in questi giorni… I nobili non alloggiano alla locanda, ma al castello, in cima alla rocca. » Ringrazio allungando una moneta. «Questa è per il vino, per l’informazione e per la grazia delle sue risate.» Mi scocca un bacio sulla tempia e si allontana ancheggiando tra le risa. Metto in tasca un sottobicchiere per ricordarmi della bella cameriera ed esco salutando con un sorriso sornione. Il bianco ghiacciato mi ha un po’ rinfrancato, ma tutte queste scale con gli alti scalini e le pedate irregolari che spezzano il ritmo… Mi tuffo nella garitta del guardiano come in un laghetto gelato. «Il signore è atteso?» «Ma certo! Io sono… Sono Giacomo Puccini!» «Un musicista. È il primo questa settimana» declama il servitore attraversando a passo troppo svelto, l’ampio salone silenzioso. «Tuttavia il barone è assente. Non so quando tornerà. Come ben saprà si tratta di un uomo piuttosto eccentrico» soggiunge quindi in tono confidenziale. Poi indica una sedia e si dilegua. Mi guardo intorno mentre recupero il fiato e le gambe rallentano il tremore. La grande sala colpisce per il silenzio del suo spazio. Un soffitto spiovente in legno, sorretto da robuste capriate, veglia muto sull’aria immobile. La campana rintocca una volta. Poi tace. Passeggio un poco per mantenere attiva la circolazione. Ho bisogno di andare in bagno e ne ho bisogno in fretta. Forse dietro questa porta… In un attimo mi ritrovo nel gabinetto particolare del barone. Alle pareti scaffali ingombri di libri. Al centro un pesante tavolo di quercia ricoperto di faldoni e strumenti musicali. Su un leggio, illuminato dalla luce polverosa, uno spartito scritto a meno: una ballata ingenua, ma orecchiabile. Sgattaiolo via furtivo e in pochi istanti ritrovo sotto i piedi i ciottoli sconnessi dei vicoli. Un cane orina contro un muro, innaffiando incurante un vaso di gerani. Beato lui, penso mentre cerco un angolino appartato per imitarlo. Trovo un anfratto e finalmente mi libero, beandomi del rintocco delle gocce nella piccola pozzanghera che si va formando accanto a quell’altra macchina scura che pare…sì, pare proprio… sangue. Sangue non del tutto asciutto. Accanto altre chiazze più piccole si allontanano fitte lungo il muro perdendosi nel buio. Da una finestra giunge a tratti un fischiettare sommesso. Un gatto nero mi sguscia accanto scomparendo nell’ombra alle mie spalle. Qualche metro più avanti il vicolo termina in una lunga ripidissima scala che conduce a una botola fradicia e rappezzata. Il fischiettare è ora più nitido. Forse qualcuno intento a imbottigliare vino o ad accatastare legna, penso mentre istintivamente riprendo l’arietta in contrappunto e… Un minuto dopo le mie nocche percuotono la porticina con tutta la forza rimasta. «Apra Barone!» «Temo di non esserne in grado» la voce baritonale ha preso il posto del fischio e giunge nitida da dietro la botola. «Sono legato come un salame». Provo a scuotere il portello con uno spintone, ma invano. «Bisogna sollevare il ferro morto, amico mio. Possedete una spada o un pugnale?» Mi viene in mente il sottobicchiere affondato nella tasca. Lo infilo nella fessura facendolo scorrere piano verso l’alto. Al quarto tentativo la botola si apre e quasi precipito all’interno inciampando nel gradino. «Dunque ha riconosciuto la mia ballata. Notevole.» «Penso di aver riconosciuto anche vostro fratello, ora che vi osservo meglio.» «Il mio gemello. Secondogenito per quaranta minuti» sorride il barone massaggiandosi i polsi. «Un usurpatore, dunque. Bisogna dare subito l’allarme. E chiamare un medico per la vostra ferita.» «Calma, amico mio. Io sto benissimo. È stato Rinaldo a ferirsi nel duello di stanotte. Io a quel punto mi sono arreso prima che finissimo per farci male davvero.» «E se vi avesse ucciso?» «Sciocchezze. Ha bisogno di tenermi vivo per estorcermi tutte le informazioni necessarie

“Scrivi con Baricco”: su D di Repubblica il racconto di Laura di Biase

873 racconti in quattro mesi: sono questi i numeri raggiunti dal concorso proposto per i vent’anni di D, in collaborazione con Alessandro Baricco e la Scuola Holden. L’iniziativa. La vicenda iniziale, scritta da Baricco per D, e lasciata in sospeso per essere continuata, ha dato il via a un susseguirsi di storie, ipotesi, immagini. Più di ottocento, tra lettori e lettrici, hanno raccolto la sfida lanciata, e hanno deciso di partecipare, inviando uno o più racconti. L’incipit. La storia iniziava con un lago, e un padre, che porta il figlio a pescare. Poi una telefonata, una donna che risponde “Amore?“ (la stessa che, a casa, attende il rientro del marito e del figlio? Un’altra?). Da quel momento, uno stacco temporale, un salto lungo vent’anni. Cosa è successo, in quel tempo taciuto? Un’allieva di Officina tra i pubblicati. Il concorso ha raggiunto tutta Italia, ed è stato proposto all’interno delle Case Circondariali di San Vittore e Milano Opera. Tra tutti gli elaborati arrivati, ne sono stati selezionati dieci. Migliori per contenuto, forma, creatività, atmosfera. Tra i pubblicati, anche il racconto di Laura di Biase, affezionata allieva di Officina Letteraria. Di seguito potete leggere il racconto di Laura. Leggi l’incipit di Baricco. Sei sempre stato così. Facevi finta di sapere, volevi dire, volevi insegnare. A quel figlio che ti faceva paura. Più del bosco che hai attraversato quella notte. Avevi paura dell’oscurità di tuo padre, che non avevi conosciuto se non nei momenti più bui, quelli che avresti voluto più accesi di luce. Che lui invece spegneva, ogni volta. Ogni volta che ti avvicinavi. Ogni volta che chiedevi. E lo vedevi sempre più lontano. Lontano fino a nascondersi in un ripostiglio che tenevi nell’angolo più inaccessibile della tua mente, del tuo ricordo, seppellito dalle foglie e dagli stracci della vita. Avevi gettato lontano la chiave, che invece era ritornata tra le tue mani quando ti avevo detto di essere incinta. Avevi paura. Pianificavi tutto quello che avresti fatto, che avresti detto. Poi tutto svaniva, la realtà non è i nostri desideri, i nostri piani. È la realtà, dicevi. E così mi avevi telefonato dal lago, quella sera. Avevi freddo e sudavi. Dovevi tornare e non avevi detto niente a tuo figlio. Non avevi detto niente a te stesso, cioè. Volevi dargli forza e sicurezza, sulla vita, essere un grande padre. Ed eri caduto nella trappola. Tutte quelle parole morivano dentro di te prima di uscire fuori. Troppo grandi, troppo pesanti, per un bambino di dieci anni. E la paura ti aveva morso. Una scossa rovente nella pancia. Ti ho sentito respirare, in quel bosco lontano. Neanche a me sei riuscito a dire niente. Un concentrato d’aria usciva dai tuoi polmoni a fatica. Quella che hai tolto a nostro figlio. L’ho capito dopo, quando non sei rientrato e ho chiamato la polizia. Ti hanno ritrovato nel lago. Poi hanno trovato Jimmy. E io ho perso me. Ho perso la luce e l’ombra, il sangue e la carne. L’ho capito dopo, quando non sei rientrato e ho chiamato la polizia. Ti hanno ritrovato nel lago. Poi hanno trovato Jimmy. E io ho perso me. Ho perso la luce e l’ombra, il sangue e la carne. Non ricordo più, dopo. Un buco, una ragnatela di nulla. Così ho preso un martello e ho distrutto tutto. La mia casa, mattone dopo mattone. Il mio corpo, vene, pelle e budella. Ho vomitato, ho asciugato tutto, mi sono seccata. Sono andata in letargo. Ho aspettato. Atteso silenziosa. Che arrivassero i primi segnali, i primi movimenti sotterranei. Che una piccola radice sentendo l’umidità della notte venisse di nuovo fuori. Ed eccomi qui adesso. In questo posto assurdo, alla soglia dei miei cinquant’anni, che sono arrivati così, alba dopo ogni tramonto. Un posto che nessuno sceglierebbe per festeggiare. Infatti non l’ho scelto, è il posto che ha scelto me e mi ha attirata con la sua voce. Una voce fatta di vento e di foglie marce, le foglie ormai cadute da tempo sulla riva di un lago. Laura Di Biase A questo link potete trovare tutti i racconti pubblicati.

Analizziamo la copertina di “Joe Speedboat” di Tommy Wieringa

È tempo di Natale. Tempo di un libro davanti al caminetto mentre fuori nevica. Un periodo nordico, come nordico è il libro di cui vogliamo parlare oggi. Si tratta di Joe Speedboat di Tommy Wieringa, Iperborea edizioni. Questione di pelle: “Joe Speedboat” di Tommy Wieringa, Iperborea edizioni 2009 vs 2015. La casa editrice Iperborea nasce nel 1987, con l’intento di fare conoscere ai lettori europei la letteratura nordica. A Emilia Lodigiani, fondatrice di Iperborea, è apparso chiaro che i suoi libri dovessero distinguersi dal mare editoriale in cui navigavano. La scelta, quindi, fu quella di dare ai libri Iperborea una particolare connotazione fisica, che li avrebbe subito resi differenti, o meglio: una novità. Stiamo parlando del caratteristico formato super-verticale. Come un mattone di cotto. Strettissimo e lungo, 10×20 cm, ispirandosi al formato tradizionale del mattone di cotto. Una sorta di misura modulare ed elementare, che rappresenta l’unità prima sulla quale si è – in un certo senso – costruita tutta la nostra civiltà. A prima vista, può capitare di pensare che questa forma longilinea possa risultare scomoda al lettore: ma si aprirà? Come faccio a sfogliare le pagine? Devo inclinare la testa ogni volta che arrivo a fine riga? Accadeva in minima parte con la vecchia impostazione di Iperborea. Per esempio, la prima edizione di Joe Speedboat (2009) può risultare un po’ difficile da maneggiare. Stiamo parlando di un volume importante, più di 300 pagine, che diventa di difficile consultazione, specialmente dopo la metà del libro; le pagine finali tendono a sfuggire dalle mani, il libro rimane difficilmente aperto e, in effetti, bisogna leggerlo quasi come un manga: senza aprirlo del tutto e assumendo con la testa l’angolazione migliore per leggere fino all’ultima lettera della riga. Il restyling del 2015. Problema che, di certo, non si riscontra con la nuova edizione di Joe Speedboat, del 2015, anno in cui Iperborea ha rinnovato grafica e materiali raggiungendo un netto miglioramento estetico e funzionale. I progettisti di Studio Xxy, firma del progetto di restyling grafico, si sono dedicati con particolare attenzione alla scelta della carta. Divertendosi a sezionarea metà un volume Einaudi, fino a ridurlo alle stesse proporzioni di un Iperborea, hanno appurato che il moncherino rimanente non era comodamente sfogliabile. Il problema tecnico non era dato tanto dal formato, bensì dallo spessore della carta. In sostanza, la grammatura comunemente usata per i volumi di formati “standard” non è adatta al formato di Iperborea. Studio Xxy si è, quindi, per una carta Imitlin di Fedrigoni, una carta pregiata, ma, allo stesso tempo, ruvida, che sa di tela d’artista, trasformando ogni libro Iperborea in una piccola opera d’arte. Inoltre, la nuova carta è più morbida, permettendo di “squartare” (come dice la stessa casa editrice) il libro, aprendolo più facilmente e leggendo con più gusto. Il formato super-verticale non è solo potenziali difetti. Anzi! La gabbia allungata rende più rilassante la lettura, che va a capo più volte; inoltre, i libri stretti sono facilissimi da tenere con una mano, per gli amanti delle letture “on the road”. Il formato di Iperborea si odia o si ama, ma, a mio avviso, dopo il restyling è molto più facile amarlo. “Joe Speedboat” di Tommy Wieringa. Finalmente parliamo di Joe Speedboat. Ve lo dico subito: un libro meraviglioso. Oserei dire uno dei miei romanzi preferiti. Per chi ama le epopee, le grandi avventure, i romanzi di formazione alla Stevenson, il libro dello scrittore olandese non deluderà le vostre aspettative. Un accenno alla trama. Molto brevemente: Fransje è un ragazzo che, dopo un incidente, si ritrova bloccato su una sedia a rotelle, che può spostare grazie al suo braccio destro, l’unico arto ancora mobile. Nel paese di Fransje si trasferisce un misterioso e affascinante ragazzo che si fa chiamare con un soprannome: Joe Speedboat, appunto. I due fanno subito coppia, e si perdono in strabilianti avventure. Non vi anticipo nulla, ma di mezzo c’è anche un campionato di braccio di ferro. Straordinario. Cambio di titolo, cambio di immagine. Possiamo notare che dalla prima alla seconda edizione per conto di Iperborea, oltre all’immagine, cambia anche il titolo. Da semplicemente Joe Speedboat, si passa a Le avventure di Joe Speedboat (raccontate da un campione di braccio di ferro). Ma dicevamo, soprattutto cambia l’immagine (oltre alla grafica, di cui parleremo nel capitolo successivo). Benché la figura del bambino sull’aeroplano della prima edizione sia forse più rappresentativa del libro (per chi leggerà), la nuova immagine spicca per i suoi colori armoniosi. Iperborea ha infatti sempre manifestato grande gusto cromatico nelle sue copertine. Se le mettessimo tutte in fila e le guardassimo da lontano, sembrerebbero piccoli pixel color pastello, freddi, algidi, ma al contempo accoglienti; formerebbero un grande quadro paesaggistico, riassumibile con le parole “Grande Nord”. La grafica. Fin dalle prime edizioni, le copertine di Iperborea hanno dimostrato originalità con le immagini a vivo, che in quel tempo ancora nessun editore applicava. Dal 2015, le immagini delle copertine si estendono, fino a girare intorno a tutto il libro, andando a occupare anche i (nuovi) risvolti che impreziosiscono l’edizione. Cambia la collocazione del titolo del libro, che ora si trova su un fondo a tinta unita, generalmente in armonioso abbinamento con i colori dominanti dell’immagine di copertina. Scelta apprezzabile, che rende più leggibile i caratteri, rispetto alla vecchia scelta di testo bianco direttamente sovrapposto all’immagine. Il font. Anche il font di Iperborea ha subito una trasformazione dopo il restyling del 2015. Prima era un graziato, del tutto simile a un Garamond allungato (e come poteva non esserlo?) in verticale. Adesso (anche se la nuova edizione di Joe Speedboat conserva ancora il vecchio font) si è passati a un bastone, sempre maiuscolo: più massiccio, più leggibile, forse più attuale. Lo possiamo vedere nella copertina de Il re dell’uvetta di Fredrik Sjöberg (2016, P.S.: divertentissimo libro anche questo!). Il logo. Per finire, è stato cambiato il logo stesso della casa editrice. Prima era una runa che sormontava il nome della casa editrice. La runa si è evoluta, abbandonando il testo scritto, passando da segno a simbolo. Autosufficiente. In breve: Font: 8 Immagine: 7 Titolo: 8.5 Complessivo: 7.8