Il cavaliere inesistente – Apricale 2016

Quarto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del cavaliere inesistente! Il cavaliere inesistente (oppure no) e il vecchio musicista (oppure no) di Manuela Romeo Non è il gatto parlante a sorprendermi: ne è piena la letteratura. Non è l’austerità della pietra grigia a incutermi soggezione: mi fa sentire a casa. Non è il canto lontano delle rane a turbarmi: di acquitrini sono piene le campagne battute dai cavalieri, la loro nenia mi rasserena. A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono. A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono. Mi trascino in salita tra le case che il tempo ha gettato come per scherzo, a manciate, sui colli intorno a me. Dame e baroni, contadini e artigiani, cavalieri di tutti i tempi devono essere passati di qua. E anch’io, che mi porto addosso il peso di un’armatura che mi schiaccia le ossa che non ho. Dentro questo involucro di ferro che emette suoni striduli, io sono vuoto, disfatto, consistente di niente. Non che io sia frivolo o privo di sostanza e significato: sono un cavaliere ricco di idee e curiosità. Ad esempio un paio di giorni fa, nell’ora del tramonto, proprio qui, davanti alle grandi fontane della piazza, un tale dall’aria misteriosa ha attirato il mio interesse. C’era qualcosa di severo e malinconico nel suo portamento. Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo. Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo. Si guardava intorno, non rideva, né sorrideva, la sua bocca conosceva solo la smorfia del beffardo seduttore. Fingeva premure nei confronti degli occasionali interlocutori ma accendeva uno sguardo che diceva “Che ne sai della mia vita? Sono mica uno qualunque io. Vengo dritto dritto da un set di Hollywood e posso legarti a me in un istante, per la vita, fosse anche per un mio capriccio. Fai bene a temermi, potrei diventare la tua ossessione”. Corteggiava tutte le donne del paese, di tutte le età, ma esibiva con più evidenza una seduzione nei confronti di se stesso, in fondo era innamorato pazzo solo della propria arte. Lo manifestava canticchiando arie d’opera, muovendo le belle dita sul muretto come sulla tastiera di un pianoforte e mimando, occhi chiusi, la direzione di un grande concerto per orchestra. Ce la metteva tutta perché voleva piacere e giocava tutte le sue carte per catturare l’attenzione altrui. Non aveva conquistato la mia simpatia, ma di certo la mia curiosità. Era un personaggio sui cui valeva la pena indagare o che poteva fornirmi indizi utili per fare chiarezza su che cosa facessero un cavaliere inesistente e un vecchio sciupafemmine in un posto come questo. Così, stamani, rieccomi sulla piazza del borgo a fissare il castello sonnolento e la torre col suo orologio severo. Prima o poi, il mio uomo passerà di qua. Il gatto parlante attraversa la piazza senza parlare, mi strizza l’occhio. Che mi legga nel pensiero? Eccolo, il mio uomo, appare all’improvviso come il primo violino di un’orchestra e avanza immaginandosi gli occhi di una platea infinita addosso. “Per caso ha visto vagabondare un gatto nero?”, la voce è chiara, ma non profonda. Che sia un tenore? Mi chiedo. “Da ieri avrò incontrato almeno una decina di gatti, almeno cinque o sei erano neri. Forse lei si sta riferendo a un gatto in particolare, con qualche caratteristica curiosa e insolita?”, chiedo al mio interlocutore che si avvolge in un unico gesto solenne e deciso nel suo anacronistico mantello di raso. “Beh, sì, insomma, trattasi di un gatto speciale, potrei dire magico.” “Ma certo, caro signore, questi, si sa, sono luoghi in cui tanto tempo fa streghe e megere furono perseguitate, processate e massacrate o arse vive sotto gli occhi della folla crudele, bramosa di atrocità e fatti di sangue. Queste creature del demonio, si dice, si sono poi impossessate delle anime dei gatti neri e le hanno moltiplicate nel fluire delle generazioni”. “Già, ma il gatto che cerco io è buono e simpatico” dice “La sola cosa che lo distingue dagli altri gatti è che, se gli gira, ha un mucchio di storie da raccontare.” Il mio uomo ora è sceso dal podio della sua solitudine, si guarda attorno sornione. “Eccolo”, esclama ad un tratto. “E’ quel gattone laggiù, proprio ora sta inarcando la schiena e sta stiracchiandosi. Lo vede?” Avevo bisogno di quel gatto, creatura buona o malvagia che fosse: era l’unico che potesse aiutare sia me, sia il mio nuovo compagno, un vecchio musicista oppure no. Quel diavolo d’un gatto mi passa davanti muovendo le anche come un divo e pretendendo attenzione. “Vuole che lo seguiamo, ci porterà in qualche luogo segreto e magico, vedrai. Dai, andiamo”, non esisto, ma so trovare un timbro di voce convincente, all’occorrenza. Il presunto vecchio musicista sembra non aver notato che sono un’armatura senza uomo, gli sembra normale il vuoto che mi riempie, il niente che mi appartiene. Sa guardare oltre, si vuole fidare di me, perché anche lui ha bisogno di andare in fondo a questo mistero. Ci incamminiamo fianco a fianco, io cigolando lui intonando una qualche melodia, prendendo la salita ripida e disconnessa che conduce in cima al paese, dentro il grappolo di case. Non incontriamo nessuno lungo il sentiero, non udiamo voci, non si aprono porte o persiane. Anche i fantasmi stanno attenti a non essere maldestri, in

Repertorio dei matti della città di Genova

  Una volta ero a Genova per fare un seminario di letteratura e a me a Genova, non so perché, la gente, mi sembrano tutti un po’ squinternati, e ai ragazzi che facevano il seminario, quando ho letto dei pezzi dal Repertorio dei pazzi della città di Palermo, di Roberto Alajmo, ho chiesto ai ragazzi che facevano il seminario “Ma perché non fate il Repertorio dei pazzi della città di Genova? Paolo Nori Cos’è un repertorio dei matti? A prima vista sembrerebbe un seminario di scrittura creativa. Paolo Nori, il curatore del seminario, sembrerebbe di fronte a semplici aspiranti scrittori, pronti a cimentarsi in nuove prove. Invece, Nori è di fronte a dei cronisti medievali, che racconteranno quello che succede oggi.  E ogni scrittore dovrà rinunciare al proprio stile, per dare vita a un prontuario omogeneo dei matti della propria città. Chi sono i matti? Il matto viene prima dello scrittore, dell’astrologo, dell’alchimista; in qualche modo, è la figura archetipa, l’esempio che costoro imitano. È ovvio che non si valuta un matto: non si dice “costui è un matto bravo”, non ci sono matti migliori di altri; un matto è un capolavoro inutile, e non c’è altro da dire. Giorgio Manganelli   Chiariamo che non si parla di matti “veri”. Più che veri, non si parla di matti “seri”, ossia quando la pazzia porta serie devianze fisiche e mentali, e altrettante serie conseguenze. I matti di cui si scrive al Repertorio dei matti sono altri. Matti sono coloro che su un attraversamento pedonale con semaforo verde non attraversano se non hanno visto, con i loro occhi, scattare il verde e allora aspettano il giro successivo cercando di darsi un tono. Matti quelli che, per non far vedere che si possono permettere gli abiti griffati, quando noti che ne indossano uno dicono “ah sì , era la sola cosa stirata che avevo nell’armadio”. O quello che in un racconto di Andrea Bajani cerca sempre di pagare con dieci euro falsi e poi, se lo scoprono, si scusa e tira fuori quelli veri. Ne abbiamo tutti un elenco. Siamo sicuri che lo avete anche voi, un vostro elenco personale di matti. Sì, ma quanto si deve scrivere? I Repertori dei matti sono brevi documentari. Cose del tipo: C’era uno che passava le giornate affacciato alle finestre aspettando l’incidente. O un poco più lunghe: C’era uno che tutte le sere andava a sedersi su una panchina davanti al tramonto. Fissava il mare, l’orizzonte e aspettava con pazienza che il sole sparisse. E tutte le sere ci rimaneva male. Comunque non si va mai oltre la pagina. Ma ognuno scrive di più matti, e tutti i matti si mischiano dentro queste magiche antologie che raccolgono gli scarti di ogni città italiana. Gli scarti che forse, come il grasso che cola, sono anche il meglio di quelle città, ciò che le caratterizza. Lo voglio fare. Quando inizia? Il Repertorio dei matti della città di Genova inizia a Gennaio. Il corso si tiene durante due week-end, più un incontro conclusivo. È un’occasione unica e irripetibile; sarebbe da matti, lasciarsela sfuggire. Per tutte le informazioni dettagliate, vi rimandiamo a questa pagina. Uno soffriva talmente tanto doversi alzare presto la mattina che quando poteva dormire rimetteva lo stesso la sveglia, la faceva suonare e poi, con un ghigno di rivalsa, le diceva “Ma vai in culo!” e la spegneva rimettendosi a dormire. Gli estratti presenti in questo articolo sono tratti dal “Repertorio dei Matti della città di Livorno”, a cura di Paolo Nori, edito da Marcos Y Marcos (2016).

La pittrice francese – Apricale 2016

Terzo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto della pittrice francese! La pittrice francese (oppure no) e il cavaliere inesistente (oppure no) di Annalisa Soldà Voici l’histoire. Sono sospesa nell’aria, da questa terrazza si vedono solo le cime delle colline. È un paesaggio diviso a metà. Metà verde e metà azzurro. Mi trovo nel verde di questa tavolozza. Bastarebbe una leggera pennellata verso l’alto… et voilà,un piccolo spostamento del pennello verso l’alto e sconfinerei dove i colori si mescolano, sarei prima in un vert-bleu, poi in un bleu un po’ sporco di verde e poi in un bleu assoluto. Il verde è tutto intorno al paese. Lo abbraccia come una cornice. Mi sporgo dal parapetto di ferro. Guardo giù. In basso è grigio pietra: strade, muri e tetti si confondono. Il sole colora di giallo solo la piazza e gli ombrelloni dei ristoranti. Fra i turisti seduti ai tavolini, una sagoma di ferro con un pennacchio in cima. È un cavaliere rinchiuso in un’armatura. In molti si voltano a guardare, ma nessuno lo ferma per sapere la sua storia. Mon Die! Je dis, se pa possible un chevalier con l’armatura e tutto il resto cosa ci fa qui ad Apricale? Dunq je attend, per vedere come se la cava. Una nuvola fa sparire il sole, la piazza diventa bianca, poi all’improvviso ritorna gialla. Il cavaliere è fermo in mezzo ad una chiazza di sole che si spegne e si riaccende. Decido di capire. Lo raggiungo, è alto come me. Gli dico: “Bonjour. La posso aiutare?” Lui non si muove. Mi avrà sentito? Come arrivano i suoni dentro un elmo? Allungo una mano per bussare sull’armatura. Una voce sottile deformata dal riverbero del ferro che la contiene, mi parla. “Mi perdoni se non mi volto a guardarla ma è difficile per me rimanere in equilibrio, se vado in avanti nessun problema, se mi volto rischio di cadere, può venire davanti all’elmo per cortesia?” Non è il tipo di voce che mi aspettavo da un cavaliere, ma non glielo dico per non sembrare scortese, dato che la cortesia è uno dei valori a cui i cavalieri tengono molto. Sono davanti a lui e muovo una mano per salutarlo. “Ca va bien?” Gli chiedo. “Mah!?!” mi risponde e non dice altro. Lo guardo, so che mi sta guardando. Resto in attesa per qualche minuto, poi di allontanarmi. Mi chiama. “Aspetti. Credo di sì. Di avere bisogno di aiuto. Vede, il mio è un problema singolare.” “Aspetti. Credo di sì. Di avere bisogno di aiuto. Vede, il mio è un problema singolare. So di essere venuto qui mosso da alti ideali, per portare a termine una missione. Ma, ecco, il mio problema è che non ricordo.” “Non ricorda?” “No. Non ricordo la missione.” “E tutto il resto?” “Neppure.” “E il suo nome?” “Nemmeno.” “Bel nome. Se original!” “No. Nemmeno non è il mio nome, o almeno credo, il mio nome non lo ricordo.” “Capisco.” “Davvero?” “Biensure. Ho il suo medesimo problema. Ma dato che non posso far nulla per me vediamo se posso fare qualcosa per lei. Per esempio l’elmo. Potrebbe toglierlo così ci sarebbero più possibilità che qualcuno la riconosca.” “Ho già provato. Non c’è modo.” “Ai ai ai… Mi faccia pensare. Un fabbro. Me ui. Il fabbro se la solution!” “No. No. Non voglio.” “Pourquois?” Ho paura. “Ma non è da lei. Un cavaliere che ha paura di un fabbro?” “Ma non è da lei. Un cavaliere che ha paura di un fabbro?” “Beh, ho paura.” “Se il fabbro non va bene allor, proviamo con qualcos’altro. Qualche elemento che potrebbe aiutarci. Che cos’ha lì?” “Questo?” “No. Non l’alabarda.” “Questo?” “Nemmeno lo scudo. No. Che cos’ha nella mano sinistra? Un manuale? Una mappa?” “No. È un libro. Di poesie.” “Se magnific! Mi fa dare un occhiata?” Lui senza dire nulla allunga il braccio verso di me, io prendo il libro, sposto una sedia e mi accomodo di fronte a lui. La copertina è di cartoncino ruvido di un celeste sbiadito con il titolo scritto a caratteri di colore nero che riproducono una scrittura in corsivo: “Poesie per una sposa” di Augusto Pontini. Lo sfoglio. Una dedica. La leggo ad alta voce: “A te. A nessun altro. Solo a te. Augusto.” Alzo lo sguardo verso il suo elmo e dico: Se Facil! Sei Augusto! “Mmmh… dici?” “Ma sì. Sei Augusto adesso dobbiamo solo capire a chi hai dedicato le poesie in modo che tu possa consegnarle alla tua amata. Era questa la tua missione.” “Ok. Ma come?” “Leggiamo le poesie. Leggo la prima” A volte chiudo gli occhi. I miei pensieri come rondini incrociate in voli sciocchi Il cielo ha il tuo colore Nel celeste, mio amore Si rinnova il mio ardore Nel celeste voglio stare Se tu mi vorrai amare. Chiudo il libro. Penso di avere intuito il nome della donna a cui sono dedicate le poesie. “Celeste.” Gli dico. “Bisogna cercare Celeste.” Mi alzo dalla sedia. Andiamo. Le strade sono strette, percorse dal vento che sale e che scende veloce su e giù. Domandiamo ad uomo che sta giocando a pallapugno: Mi scusi conosce Celeste? Domandiamo a una donna che ha un viso scolpito e un fazzoletto legato in testa. Domandiamo e domandiamo, ma questo paese è un rompicapo, si sale, si scende, si fanno scale, si volta a destra e a sinistra e alla fine a forza di camminare ci si ritrova da dove si è partiti. Inseguiamo il rumore di un tagliaerba, io raggiungo l’uomo e gli domando. Lui mi dice: “Sì, la conosco.” Inseguiamo il rumore di un tagliaerba, io raggiungo l’uomo e gli domando. Lui mi dice: “Sì, la conosco.” Arriviamo ad una porta di legno piccola e bassa come tutte le altre porte del paese. Sopra la porta in

Il bambino americano – Apricale 2016

Secondo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del bambino americano (oppure no)! Il bambino americano (oppure no) e la pittrice francese (oppure no) di Roberta Bracco Un gatto che parla. Wow! Come Puss in Boots di Shrek! Mi chiedo cosa abbiano tanto da preoccuparsi questi tipi assai più strani e incredibili di lui. Certo, qualcosa non torna: dove può essere finita mum? Mi sarò addormentato mentre facevo la conta e lei sarà ancora nascosta da qualche parte? O forse mi avrà iscritto lei a questa specie di caccia al tesoro e salterà fuori solo alla fine? Tanto sono libero, dai! Quasi quasi salgo un pochino sulla fontana, o corro fino agli orti fuori le mura o mi infilo sotto questo tavolo e vado a tirare la coda a quel cane che dorme, così magari trovo anche un compagno per giocare a palla più sveglio di questi. “Nessuno ha qualcosa in contrario, giusto? Forse tu, bella signora dagli occhi azzurri?” Silenzio, lei non mi guarda nemmeno. “Il gatto ha detto che tocca a me trovare la tua storia, ma puoi fidarti sai? Io sono un vero esperto di storie. Conosco a memoria tutti i film di Walt Disney, non potrà essere così difficile trovare una storia per te.” Ancora niente, proprio non c’è verso di smuoverla. “Ehi, mi senti, sono qui in basso, non vedi? – ritento – Non fingere di non vedere che continuo a tirarti questa tua gonna nera, che ti fa sembrare una vecchia. Insomma, ti muovi, per favore? What’s up? Dobbiamo vincere la caccia al tesoro, ti vuoi decidere a darmi la mano? Magari se io trovo la mia mamma finisce persino che tu riesci a trovare il Principe Azzurro e diventi un po’ più felice…” Fa una smorfia terribile. Per un attimo ho paura che voglia uccidermi proprio. Ok, magari provo con una voce un pochino più dolce. “So che non ricordi niente, darling, ma non devi essere triste per questo. Pensa a me, che sono piccino e senza mamma e devo anche occuparmi di te. Preferirei scoprire come ha fatto quella bicicletta ad arrampicarsi fino in cima al campanile. Ma a noi ora tocca stare insieme. Quindi, let’s go. Il gatto ha detto che sei una pittrice francese. Perciò adesso noi ci sediamo a questo tavolino e tu fai un disegno per me. Se ti tira su posso darti un bacio, anche se io, di solito, non le bacio mica le ragazze!” Si scosta brusca ma alla fine mi segue e dice qualcosa che non capisco, in una lingua che però ha un suono dolcissimo. Magari salterà fuori che questa tipa è una sirena e mi toccherà pure riportarla al mare. Si mette al lavoro in silenzio e poi mi allunga un foglio. Sussurra ancora qualche parola con quella sua voce che sembra far le fusa, non so perché, mi fa stropicciare tutta la faccia. Quando mi riprendo, Quando ha finito guardo il disegno e non mi piace: ha fatto solo case arrampicate con forme strambe, buie come i suoi vestiti. ”Non puoi fare qualcosa di meglio? Non c’è nessun colore qui!” Mi sa che devo averla offesa perché di colpo si mette a piangere e mi allontana “Laisse-moi tranquille! Non sai di cosa parli… Io… ho perduto tutti i miei colori…!” “Cosa vuol dire perduti? You mean che non li trovi più?” Non mi risponde. La tiro forte per un braccio, per convincerla ad alzarsi. Devo trovare un modo, comunque. Non può esistere una pittrice felice senza colori. “Stop crying, my friend! Ti aiuterò io a trovare i tuoi colori!” Mi prende per mano, finalmente: questo è il momento di insistere. “Vieni, muoviamoci di qui. Ho appena visto un passaggio segreto che ci porterà velocemente oltre queste case grigie di pietra, in un posto coloratissimo. Inizieremo a cercare da lì. Dammi la mano e non avere paura. È una via stretta e c’è puzza di pipì di gatto, ma tu sei magra e ci passi.” Quando siamo dall’altra parte, le chiedo come fa la gente, secondo lei, a vivere in questo posto così piccolo senza McDonald’s, centri commerciali e neppure una gelateria. Mi sa che non capisce e non mi ascolta neanche: fissa i tetti delle case come se non fossero tutti uguali. Anyway, mi sa che sta cominciando a sentirsi una vera pittrice: si è fermata a disegnare ancora. “Fa’ vedere un po’? Bello, questo! Wow! Sempre un po’ scuro, ma I love very much quella buffa casetta con mulino. La conosci?” “Peut-etre”, sussurra, e sembra perplessa. Intanto, eccoci fuori dalle mura. Finalmente un po’ di colori. “Ci arrampichiamo su quell’albicocco lassù per vedere le rondini?”, propongo, ma lei non mi pare affatto convinta. Corro ad arrampicarmi – se non altro per mettere qualcosa nello stomaco, visto che lei a mangiare non ci pensa proprio – quando mi accorgo di qualcosa di strano. “Un momento, guarda, non noti niente? Confronta il tuo disegno con questo angolo qui! Se provi a immaginare la tua casa piccina al posto di quest’albero, il luogo che hai disegnato è lo stesso. I tetti delle case vicine combaciano perfettamente, isn’t it? Non è che vivevi qui? Ma la casa che era al centro del disegno dov’è finita? Presto, dammi una mano a scendere. Dobbiamo rientrare in paese e chiedere notizie della casetta mulino. Sento che è la strada giusta, trust me.” Rotolo a tutta velocità giù dal sentiero e mi infilo nella prima casa che vedo. Sono fortunato: trovo due vecchietti che di certo devono abitare qui da tanto tempo. “Scusate, siete di Apricale? Sapete dirmi se un tempo laggiù c’era una casetta con mulino?” “Certo, bambino”, mi risponde gentile il signore, abbassando il giornale, “una casa abbandonata da prima che tu nascessi, però. È andata distrutta qualche anno fa,

Copertina Zero K Don DeLillo

Analizziamo la copertina di “Zero K” di Don DeLillo

Per la serie di post Questione di pelle, analizziamo la copertina dell’ultima fatica di Don DeLillo: Zero K, pubblicato da Einaudi nella collona dei “Supercoralli”. Questione di pelle: “Zero K” di Don DeLillo, Einaudi, 2016. Bisogna dire che qualunque titolo – anche il decimo pezzo della saga di Twilight – sembra subito un classico, se a pubblicarlo è Einaudi. Gli ingredienti sono pochi, semplici e immortali: il bianco di sfondo, un’immagine centrata, una scritta asciutta. Che la copertina sia rigida o morbida, i libri Einaudi sembrano sempre pronti per entrare nello scaffale di una biblioteca e restarci per sempre. E spesso lo fanno. L’ultima perla di Don DeLillo è certamente ben inquadrata all’interno della collana Einaudi. Pochi altri editori avrebbe potuto restituire a uno dei più grandi scrittori americani viventi una veste degna del suo Zero K; un libro che porta con sé gli ingredienti che lo consacrano già a classico per licei: distopia, futuro ma non troppo, grandi temi come l’immortalità e le nuove tecnologie, senso metaforico, frasi ispirate. I Supercoralli Einaudi. Zero K abita la collana dei “Supercoralli” di Einaudi, istituita da Cesare Pavese poco prima degli anni ’50. “Supercorallo” vuol dire un punto fermo della letteratura (che sia italiana o estera), in genere ancora più fermo di un semplice “Corallo”. Possiamo dire che il titolo si prepara quasi certamente a entrare nei “Millenni”. I “Supercoralli” hanno principalmente tre opzioni di veste grafica: La classica impostazione bianca con immagine centrata (quella che analizzeremo a breve); Un’immagine espansa a piena pagina (con foto al sangue), che funge da sfondo al titolo e autore. Talvolta, come in questo caso de L’uomo che cade, titolo e autore lasciano la loro posizione alta e centrata, a favore dell’immagine di sfondo; L’immagine come banda passante su sfondo bianco, un’interpretazione più attuale della classica gabbia centrata che possiamo vedere appliacta in Candore di Mario Desiati (2016). I font Einaudi. Parliamo due secondi del font Einaudi. Senza addentrarci nel dibattito del font utilizzato per i testi interni (anche se pare definitivamente che sia un Simoncini Garamond, anche detto Einaudi Garamond), osserviamo com’è scritto il titolo in copertina: Il font di copertina appare come un Helvetica Neue Bold, leggermente tirato in orizzontale. Per i fan della bianca, un font poco graziato potrebbe stonare con lo stile Einaudi. Se devo dirlo, analizzando il font a sé stante, non lo trovo squisito nemmeno io: le lettere sono larghe, stretchate in orizzontale. Ma riconosco all’Helvetica l’imponenza necessaria a dare peso a un titolo. La distinzione tra titolo del libro e nome dell’autore viene resa palese ai minimi termini. Einaudi cambia giusto il colore (nero / rosso). Stessi punti tipografici, allineamento a lapide. Ringraziamo comunque dell’accorgimento, perché nei primi “Supercoralli” non era concesso neanche il cambio di colore, lasciando spazio a possibili ambiguazioni. Immagine e Immortalità. La scelta del soggetto per l’immagine di copertina è a dir poco azzeccata: è intitolata Sime ed è opera del fotografo Jasper James. Lo scatto della statua vuole farci capire subito e bene il tema del libro: l’immortalità. E cosa meglio di una statua classica – fredda e pietrificata – può farci immaginare cosa voglia dire uno stato di criogenesi, il congelamento necessario per arrivare nel futuro, oltre il proprio tempo? L’impaginazione grafica. Proviamo a entrare nel merito dell’impaginazione con qualche speculazione. Sappiamo che è facile avere una copertina bianca e un’immagine potente; meno facile è sapere come collocare l’immagine all’interno del vuoto. Si può notare una cosa interessante. L’area rossa indica la sezione aurea della copertina, ottenuta riportando la dimensione della base sull’altezza. Salta all’occhio che il naso del viso cade proprio sulla linea di demarcazione del quadrato rosso: si trova quindi in sezione aurea con la dimensione totale della copertina. Otteniamo di conseguenza che la linea del naso divide perfettamente a metà la copertina, e la linea orizzontale degli occhi fornisce l’ascissa del nostro sistema. Nonostante il volto di pietra non sia visibile nella sua interezza, esso è collocato in modo da costituire il centro focale della copertina. Saranno pure speculazioni. Però anche nelle riconosciute proporzioni del volto, la radice del naso si trova in sezione aurea con l’altezza del volto: tracciando un cerchio che ha come diametro la larghezza del volto, la radice del naso si trova sulla circonferenza del cerchio, esattamente nel centro di esso. In conclusione. Il volto di pietra di Zero K è perfettamente proporzionato con se stesso e con la sua copertina. Volute o casuali, queste coincidenze geometriche donano un grande senso di pace; una fermezza, una quiete degna di un grande classico. Nonostante sia stato appena pubblicatob (e noi siamo andati ad ascoltarlo al Ducale). “Zero K” è un libro sulla percezione. DeLillo riesce a far parlare i morti (in 1ª e in 3ª persona, contemporaneamente). #ZeroK #DonDeLillo — Officina Letteraria (@OfficinaLettera) 26 ottobre 2016   In breve: Font: 7 Immagine: 9.5 Titolo: 10 Complessivo: 8.5

Copertina bianca

Questione di pelle: smontiamo la copertina di un libro

Vi siete mai avvicinati a un autore sconosciuto, solo perché il suo libro aveva una bella copertina? Avete mai comprato un libro perché sarebbe stato proprio bene tra i vostri scaffali? Accarezzate i libri, mentre li leggete? Scegliete un ebook perché la copertina vi ha ammiccato dallo store? Perché una buona copertina? Da sempre la confezione di un libro – dalla copertina, passando per la carta, il formato, i colori, i font – influisce in modo significativo sulla promozione del titolo e sul successo di un titolo. Ogni casa editrice cerca di sviluppare un proprio linguaggio estetico; in questo modo, i libri della casa editrice sono più riconoscibili. Tramite una buona copertina è possibile comunicare al lettore di cosa tratta il volume in questione, ma non solo. È una comunicazione visiva, che prescinde dal linguaggio verbale, ma che si esprime attraverso forme e colori. Insomma, è una questione di pelle! In questa rubrica, proveremo a “smontare” la copertina di un libro, cercando di capire le dinamiche grafiche e – di sponda – editoriali che hanno portato a quel risultato. O semplicemente, spiegheremo perché quella determinata pelle è adatta al contenuto o perché, secondo noi, non funziona. Gli articoli. Il primo appuntamento è con Don DeLillo e il suo Zero K (Einaudi editore, 2016).

Edicolibro

Edicolibro: bookcrossing in piazza della Meridiana

Edicolibro è uno spazio per scambiare libri. Vi suggeriamo di portare a Edicolibro quei libri che, per voi, sono importanti, in certo momento. Potete portarne da 1 a 3 e prenderne altrettanti in cambio. Se vi va, sul frontespizio potete scrivere le ragioni che vi hanno portato a condividere quel libro, invece di un altro. Cos’è Edicolibro. C’è una piazza, a Genova, che da un po’ di tempo era più vuota del solito. È nel cuore del centro storico, e accoglie uno dei palazzi più belli della città, ma lì, proprio al centro, il crocevia di storie e voci era venuto meno. Così la immaginiamo, l’edicola. Un viavai di scelte, il solito giornale, anzi no, oggi cambio, cosa c’è di nuovo? Un viavai di chiacchiere, del più e del meno, le stagioni che cambiano, i bambini e le bambine che escono da scuola, e la sera chi porta a spasso il cane. Un viavai di parole scritte, parole lette. In questa piazza, piazza della Meridiana, da qualche tempo si è ridata vita all’edicola. A Edicolibro, talvolta capita che accadano altre cose, come reading o Laboratori di scrittura en plein air. Chi anima Edicolibro. Edicolibro è una rete di associazioni che operano con il patrocinio del Municipio Centro Est: insieme a Officina Letteraria, ci sono A.M.A. Associazione Abitanti Maddalena, Collettivo Linea S, Fischi di carta, Progetto Santiago, Scuola Daneo, Scuola don Milani, UDI Unione Donne Italiane. Quando c’è Edicolibro. Il calendario di Edicolibro cambia e si aggiorna di mese in mese: puoi sapere le aperture in corso leggendo qui sotto, o nella pagina Facebook, o sul calendario che appendiamo all’inizio di ogni mese all’esterno dell’edicola. Ti aspettiamo! Calendario di novembre 2016: Sabato 19 novembre ore 10:00-12:00 con Officina Letteraria; Domenica 20 novembre ore 16:00-18:00 con il Collettivo Linea S; Venerdì 25 novembre ore 15:00-17:00 con UDI; Sabato 26 novembre ore 10:00-12:00 con AMA; Domenica 27 novembre ore 10:00-12:00 con Officina Letteraria.

Un bene a mondo di Andrea Bajani: sensazioni dalla presentazione di Genova

Andrea Bajani entra nella libreria, la percorre in longitudine e si siede accanto a Emilia Marasco, di fronte alle persone venute lì a ascoltarlo. Poi prende il microfono nelle mani e, con un gioco di passaggi, parla, legge e risponde alle domande che lei gli porge, insieme al microfono, e a molti sorrisi. Introduzione. Genova. Via Luccoli 98r. Libreria L’amico ritrovato. Venerdì 4 Novembre. Ore 18 (e qualcosa). Godersi le cose belle a volte non è facile, non è facile non farsi prendere da una certa ansia di non riuscire a raccogliere tutte ma proprio tutte le pietre preziose che, con semplicità e onestà, Andrea Bajani tira fuori dalle sue tasche, presentando il suo ultimo romanzo. Forse sarà perché si intitola Un bene al mondo, e tutti quanti abbiamo, credo, disperatamente bisogno di trovare un bene, almeno uno, al mondo. Questo lo dice anche lui. E forse sarà perché, dentro al libro, Bajani ha messo proprio questo. Un bene al mondo racconta di un paese sotto a una montagna, a pochi chilometri da un confine misterioso, Un paese come gli altri: ha poche strade, un passaggio a livello che lo divide, e una ferrovia per pensare di partire. Nel paese c’è una casa. Dentro c’è un bambino che ha un dolore per amico. Lo accompagna a scuola, corre nei boschi insieme a lui, lo scorta fin dove l’infanzia resta indietro. E ci sono una madre e un padre che, come tutti i genitori, sperano che la vita dei figli sia migliore della loro, divisi tra l’istinto a proteggerli e quello opposto, di pretendere da loro una specie di risarcimento. Ma nel paese, soprattutto, c’è una bambina sottile. Vive dall’altra parte della ferrovia, ed è lei che si prende cura del bambino, lei che ne custodisce le parole. È lei che gli fa battere il cuore, che per prima accarezza il suo dolore. (Dalla bandella) La mia maestra di Officina Letteraria, Chicca Gagliardo, poco tempo fa ci ha detto che la letteratura è un dono. È stata Laura Bosio a definirla così. È quando puoi donare qualcosa che sei autentico, che vale la pena di provare a farlo arrivare agli altri. E Andrea Bajani questo libro stava aspettando di scriverlo da quarant’anni. Tutti sanno cosa è un bambino e tutti sanno cosa è un dolore, anche se per tutti è una cosa diversa. Vorrei scrivere un piccolo diario di quello che è successo davanti (e dentro) ai miei occhi durante la presentazione, vorrei che fosse una mappa capace di segnare almeno i punti cardinali, anche se le mappe, come le parole, stanno sempre un passo indietro a ciò che accade. Vorrei che ci fossero tre voci, che sono la voce delle domande di Emilia, la voce delle parole dell’autore e la voce della mia penna a riportare le risposte sulla carta. Un flusso di domande e di risposte. Da dove nasce l’idea di rappresentare uno stato d’animo, il dolore, come un qualcosa di concreto, di esterno a noi? Il dolore di Bajani ha una forma di carne e di ossa, ha fatto un balzo dal territorio interno, quello di cui siamo fatti, per materializzarsi letteralmente a fianco del suo padrone, il bambino. Insieme sono i protagonisti della storia. L’incipit letto dall’autore. C’era un bambino che aveva un dolore da cui non voleva mai separarsi. Se lo portava dappertutto, ci attraversava il paese per andare a scuola tutte le mattine. Quando arrivava in classe, il dolore si accucciava ai suoi piedi e per cinque ore se ne stava senza fiatare. […] Il dolore era fedele al bambino, ed era solo con il bambino che voleva giocare. Mentre il bambino pedalava, il dolore a volte correva più veloce di lui con la lingua che gli pendeva tra i denti. […] Quando arrivavano al ruscello, il bambino appoggiava la bicicletta contro il tronco di un albero. Poi cercava dei pezzi di legno e delle foglie, e con quelli costruiva una barca e lasciava che salpasse verso il mare. Il dolore gli portava le foglie e i rametti e si avvicinava alla riva per vederla partire. Quindi tornavano a casa passando per i boschi. […] La sera il bambino si lavava, perché così gli avevano insegnato. Poi si metteva il pigiama. Sua madre e suo padre guardavano la televisione, e quando lui si affacciava a piedi nudi per la buonanotte non si voltavano. Il bambino e il suo dolore si incamminavano lungo il corridoio, che la sera sembrava infinito. Quindi aprivano e chiudevano la porta della camera, e il bambino si infilava sotto le coperte. C’era un giaciglio accanto al letto perché il dolore avesse un suo posto e una coperta per ripararsi dal freddo. Ma il dolore non ci dormiva mai. Saltava sul letto e si addormentava appoggiando la testa sui piedi del suo padrone. A metà della notte si infilava sotto le coperte con il bambino e lo riscaldava alitandogli in faccia fino al mattino. E quando suonava la sveglia, la prima cosa che faceva il bambino, ancora prima di aprire gli occhi, era cercare il dolore col braccio. Il dolore di Bajani è una presenza reale, visibile, che si può toccare con le mani, vedere con gli occhi. Una creazione letteraria che costruisce una via più accessibile per capire ciò che, accadendoci dentro, a volte è impossibile da decifrare. Una idea geniale che è arrivata all’autore dopo un lungo periodo di grande difficoltà nella scrittura. Ci racconta che stava scrivendo un altro romanzo, ma non riusciva a finirlo. Racconta che era come essere finiti in un buco. E che questo lo stava facendo quasi impazzire. Per salvarsi da questo buco in cui era finito, in quel periodo dice di aver scritto cinquanta brevissime poesie, molte di più in realtà, ma dopo una attenta scelta ne sono rimaste cinquanta. Ha sempre letto e scritto poesia, ha iniziato così a scrivere. Ma non erano le poesie che l’editore stava aspettando di ricevere. Lui gliele ha mandate lo stesso, in una e-mail ha scritto: Forse

andrea bajani

Un bene al mondo, Andrea Bajani: recensione

Anche il dolore – come la vita – non si può mettere in ordine alfabetico. Il dolore è un disegno senza colore, è un cibo senza sapore, è una consolazione, una difesa. Ci sono dolori che non fanno male a nessuno e altri che possono anche ammazzare. Ci sono dolori che si possono lasciare a casa quando usciamo e dolori che sono sempre con noi, ci seguono dappertutto. Ci sono dolori da chiudere a chiave e dolori da prendere in braccio. Ci sono dolori che qualcuno ci lascia e dolori che lasciamo a qualcuno. Un bene al mondo, l’ultimo libro di Andrea Bajani per Einaudi, comincia con il “C’era una volta…” delle favole per bambini anche se non è una storia per bambini. Il protagonista è un bambino, un bambino come tanti altri, come quello che siamo stati o che ci circola per casa; un bambino senza nome proprio perché è un bambino come ce ne sono tanti. Il bambino ha un dolore per amico che lo accompagna a scuola, nei boschi, lo consola e lo difende. Stare vicini al dolore di un bambino è la prova più difficile che possa capitare agli adulti. Andrea Bajani ci chiede di farlo, di essere vicini al dolore del bambino però ci accompagna, ci tiene per mano perché sa che certi territori sono difficili da attraversare e che è possibile solo se qualcuno ci tiene per mano. Entriamo in una casa e in un paese, osserviamo gli adulti con le loro miserie e le loro fragilità, osserviamo i bambini con la loro crudeltà e la loro innocenza, incontriamo la bambina sottile che lascia il dolore a casa, si lega i capelli sulla nuca e affronta con coraggio le situazioni. Sperimentiamo i confini, quelli della casa e del paese e i confini dello spazio nel quale si muove il dolore. Con il bambino cerchiamo di passare inosservati, di essere bravi, proviamo a scappare e a nasconderci, con il bambino sperimentiamo il vuoto, il silenzio che a volte è un posto sicuro. Con il bambino entriamo in un mondo in cui è più facile che siano i bambini a proteggere gli adulti piuttosto che il contrario. Con il bambino viviamo una emozionante storia d’amore che ci tiene con il fiato sospeso fino alla fine. Il racconto di Bajani chiede molto al lettore, gli chiede di sostenere una grande tensione, gli chiede di percepire quasi fisicamente la fatica che il bambino fa per mantenere un equilibrio, perché le cose non si rompano. Ma poi, c’è sempre un momento in cui qualcosa cede e quasi tutto va in frantumi. La fine è un nuovo inizio, non meno difficile ma ricco di possibilità. Le cose che si aprono e le cose che si chiudono fanno sempre un rumore caratteristico, quando si aprono e quando si chiudono. Il bambino lo sa e a un certo punto decide di raccontarlo, di usare le parole per descrivere il rumore che fanno le cose quando si aprono e quando si chiudono. E tutto cambia.

Il gatto magico… oppure no! – Apricale 2016

Ecco il primo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016: la cornice che abbiamo preparato per le storie dei partecipanti ad un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del gatto magico… oppure no! Il gatto magico… oppure no! I pavimenti di pietra non sono tutti uguali, eh no. Possono essere grigi, o bianchi, o neri. Possono essere lisci e rifiniti, o rustici, o colorati. Vi sfido a trovare due pavimenti di pietra identici. Vanto una certa esperienza in materia e vi garantisco una cosa: comunque sia fatto, un pavimento di pietra non è MAI un letto comodo. Uno poi si adatta, per carità, io dormo persino sui cornicioni all’occorrenza. Non sono un gatto schizzinoso. Ma nove umani addormentati per terra, in cerchio, non sono uno spettacolo che capita tutti i giorni. Stavo tornando dalla caccia notturna e sono rimasto a bocca aperta: talmente aperta che la lucertola mi è scappata. Mi sono affrettato a miagolarle dietro “vai, cara, oggi mi sento magnanimo!”, perché non si sparga la voce che sono un pasticcione, e poi mi sono acciambellato su un gradino a leccarmi le zampe. “Sento odore di bella storia. Vediamo un po’ che hanno combinato questi nove elementi…” Beh, ho aspettato a lungo: si sono svegliati che il sole era già alto, massaggiandosi le ossa doloranti. Uno dopo l’altro si sono messi a sedere e a portare in giro per la piazza nove sguardi smarriti. Sono balzato in mezzo al cerchio con l’aria di chi la sa lunga: “dormito bene, signori? Abbiamo alzato un po’ il gomito ieri sera, eh?” Una donna si è coperta la mano con la bocca mugolando: “oh mio Dio, un gatto che parla!” E qualcun altro: “un gatto magico!” E io: “…oppure no! Vi prego, signori, sono solo un normale gatto parlante. Niente di eccezionale, da queste parti. Anche il mio francese è discreto, se preferite…” Mi hanno fissato tutti e nove sbigottiti, come se non avessero mai visto un gatto parlante. Mi veniva da sbattere la coda dal nervoso. Capite, questi dormono per strada come i gatti, ma guai se un gatto parla come un uomo, sacrilegio! Due pesi e due misure, come sempre. “Voi, piuttosto. Voi chi diavolo siete?” Un altro lungo silenzio. “Miao? Un miao vi mette più a vostro agio? MIAO! Vi ho chiesto i vostri nomi! Che c’è, il gatto vi ha mangiato la lingua?” Quelli restavano zitti, e ho sentito ridacchiare dal muro di pietra la lucertola che mi era sfuggita. La mia immagine rischiava di venire decisamente compromessa dall’insubordinazione di quegli umani cafoni. Ho soffiato all’aria e sono tornato con un balzo sul gradino, pronto ad alzare i tacchi, quando uno di loro, un bambino con un forte accento straniero, ha preso la parola. “Non lo sow, chi sowno, I swear.” Gli ha fatto eco una seconda voce: “nemmeno io.” “Nemmeno io.” “Nemmeno io.” Tutti hanno alzato la mano, come a scuola, guardandosi l’un l’altro con aria interrogativa. Ecco. Perfetto. Non solo quei nove derelitti mi avevano fatto scappare la colazione, ma non avevano neanche una bella storia da raccontare! Ho sbuffato con impazienza. “Ma sì, state tranquilli. Ho capito. È la solita, noiosissima, amnesia del 3 di luglio. Mi ero scordato che giorno fosse.” “L’amnesia del 3 di luglio? Di che parli, gatto?”, ha chiesto una giovane. “ANCORA? Ancora nel 2016 il Comune di Apricale non avvisa i turisti della maledizione?” “…maledizione?” “La maledizione, maledizione, andiamo! È dal 1300 che i forestieri che si trovano ad Apricale il 3 di luglio perdono la memoria. È storia vecchia. E ancora a nessuno viene in mente di diffondere un comunicato stampa, chessò, di mettere un volantino. Turisti, tornate a visitarci domani, che se entrate nel borgo oggi vi va in pappa il cervello, una roba così.” “Ma parbleu, come è possibile? Chi ha lanciato una maledizione del genere, e perché mai?” “Senta, signorina, io sono solo un gatto parlante. Non ho le risposte a tutte le domande. E comunque nel 1300 non ero ancora nato, grazie tante. È semplicemente così. Una stupidaggine qualsiasi, credo. Qualche menestrello di passaggio che ha spezzato il cuore alla strega sbagliata. Vai a sapere. Ora, se volete scusarmi, lo stomaco brontola…”, ho concluso lanciando uno sguardo minaccioso alla lucertola irriverente. “Aspetta, gatto! Aiutaci, per favore. Come facciamo a recuperare la memoria?” “Lo sanno tutti. Dovete stanarla in paese, aiutandovi l’un l’altro. Nessuno può ritrovare la sua memoria da sé: bisogna che vi mettiate alla ricerca della memoria di qualcun altro. Ah, importantissimo: dovete riuscirci prima che il sole tramonti l’8 di luglio.” “Perché, che succede l’8 di luglio?” “Succede che o vi ricordate chi siete allora, o potete salutare per sempre i vostri ricordi. Tutto chiaro?” I nove a quel punto mi hanno riproposto la loro performance preferita: fissarmi in silenzio con aria grave. Fantastico. Ho deciso di perdere altri cinque minuti ad aiutarli perché vi giuro, erano il peggior caso di amnesia del 3 di luglio che avessi mai visto. “Ok. Dovreste ricordare qualcosa. Qualcosa di vago. In senso orario, prendete la parola e provate a darmi almeno un indizio… Può aiutare il compagno che cercherà la vostra memoria per Apricale.” Ha cominciato il bambino: “Absolutely nothing, davvero.” L’ho liquidato in fretta. “Ok, diciamo che sei un bambino. Sembri americano, dall’accento. Sarai un bambino americano, oppure no.” La giovane donna ha ammesso, timidamente: “forse je suis un’artista. Dipingo. Forse.” “Perfetto. Una pittrice francese. Oppure no. Avanti il prossimo.” Un omone dall’aria affranta ha scrollato le spalle: “Non ne ho idea. Ti direi un cavaliere, ma la situazione è talmente assurda che mi viene da dubitare della mia stessa esistenza.” “Va bene. Diciamo che sei il cavaliere inesistente. Oppure no.” L’anziano alla sua sinistra ha preso la parola con un colpo di tosse: “Musicista. Sono quasi sicuro di essere un musicista.” “Il

Prima o poi entrerò nel cuore del mondo – Marco Usai

di Marco Usai, racconto vincitore del concorso di Officina Letteraria “Prima o poi entrerò nel cuore del mondo” era la frase che si era fatto tatuare l’estate della maturità. Parole ad effetto poco sopra le natiche, un’esca a caratteri gotici da aggiungere al piercing al sopracciglio che incorniciava lo sguardo scuro, fermo. Anche quando sorrideva, per lo più se in compagnia di qualche bella biondina glitterata, ad Alex restava appiccicato agli occhi qualcosa di malinconico. Mi faceva pensare a “Boys don’t cry”, con quel sound triste-allegro, tipo “vita innegabilmente amara ma stiamo quieti che così deve essere”.  Insomma era un viveur con qualcosa di rotto dentro. Probabile che nei momenti felici gli capitasse di inciampare nel ricordo del fratello. Gli aveva insegnato i rudimenti dello stare al mondo per poi abbandonarlo senza neppure un ciao. Gente molto legata nonostante la differenza di età, con la stessa frase impressa sulla pelle, come uno stargate per l’aldilà, o forse un memo sul giungere al nocciolo di quel frutto succoso che la vita può essere solo a vent’anni. C’è chi pensava fosse solo un buffone esibizionista Alex, io credo che semplicemente provasse a seguire quel dettame lasciatogli in eredità. Certe sere s’impossessava di lui una follia gaudente e rabbiosa che a stargli accanto la vita poteva sembrare un gioco infinito. Passavamo nottate a esplorare stradine deserte, mentre la città dormiva rubavamo caschi e specchietti per rivenderli a pochi euro. Mi sentivo libero mentre gli facevo da spalla nell’ennesima rissa che  scatenava per futili motivi, eravamo immortali anche nel tornare a casa con il viso segnato o mentre improvvisavamo un rally nelle mulattiere sopra Genova a bordo dell’auto sottratta a chissà quale schiavo sfortunato. Eravamo i sovrani di un mondo popolato da comparse in bianco e nero, in noi l’anarchia assumeva un significato più di stomaco che d’idea, eravamo i soli ad esser vivi… Fino a che mio padre non perse il lavoro. Quella che sarebbe dovuta essere la mia estate indimenticabile divenne quella in cui appresi le regole del giogo. Trovai impiego in un discount in periferia, la mia vita venne scandita da turni e pause caffè, pranzi cronometrati e anima scherzata da frustrati dalla vita. Era brutto ma era necessario, lavoravo molte ore e molte non mi erano pagate ma non c’era altra via. Avevo perso le ali e il mondo intorno perdeva colore, uscivo sempre meno spesso, la stanchezza veniva a riscuotere il suo conto. Alex era sempre lo stesso cercava, il cuore del mondo mentre io sistemavo scatolette. Mi veniva spesso a trovare e mi piaceva vedere come fosse ancora indomito, lui che non aveva crucci. Non lo invidiavo, era lo stendardo della mia anima sopita e adoravo quando rispondeva maleducatamente a miei superiori che mi bistrattavano nelle tediose ore salariate. Era un potenziale cliente, poteva tutto e mi tributava indirette rappresaglie che non tardarono a ritorcersi contro di me. Dovetti dirgli di non tornare a trovarmi a lavoro, la prese a male e non lo vidi più neppure fuori. I giorni passavano tutti uguali, lavoravo sempre, unica nota positiva di quei mesi fu la notizia del furto a danno del gran capo. Lo avevano alleggerito della sua moto da sogno, giusto mentre era parcheggiata sotto il discount. Una sera uscii dopo mesi di ascetismo forzato, mi sentivo spaesato ma risi di gusto quando sotto casa trovai Alex in sella a quella stessa moto. La usava da settimane come fosse sua. Mi disse che si vive davvero solo intorno ai duecento orari o facendosi una tipa diversa ogni sera. Che io stavo al mondo come un morto. Sorrideva, sembrava volermi martoriare ma aveva gli occhi tristi, forse era ferito, forse si sentiva abbandonato. Non lo vidi più. Una mattina grigia d’autunno lessi un trafiletto che parlava di lui. Aveva perso il controllo di quella bestia da cento cavalli fuggendo dalla polizia. Mi piace pensare che abbia avuto un’estate indimenticabile, che almeno lui abbia vissuto il cuore del mondo che sogno ogni mattina.

Qualcuno ci ha detto che hai un cassetto nel racconto!

Domenica 25 settembre, contribuite ad arricchire la nostra giornata open day all’Edicolibro di piazza della Meridiana scrivendo un racconto breve ispirato dal binomio fantastico “Cinque” + “Cassetto”. Ci saranno letture dei binomi degli scrittori di Officina Letteraria Emilia Marasco, Ester Armanino, Sara Boero, Antonio Paolacci e di molti altri amici che stanno aderendo all’iniziativa. Come partecipare. Inviate una email a info@officinaletteraria.com o scrivete il vostro nome nell’evento su Facebook e noi vi metteremo in scaletta! Durante la giornata forniremo informazioni sui nostri laboratori in programma per il 2016/17. Edicolibro resterà aperto per il consueto scambio libri con i volontari di Officina Letteraria. Dalle 20:00 alle 22:00, apertura serale a cura di Collettivo Linea S. Info e FAQ: QUANDO: 25 settembre, 10:30-12:30 / 14:30-17:30; DOVE: a Genova in Piazza della Meridiana, presso Edicolibro; COME: il vostro racconto breve non deve superare le 4.000 battute e lo dovete portare già stampato; COSTO: è gratis, ma dovete prenotarvi; CHE COS’È un “Binomio Fantastico”? È un noto esercizio proposto da Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia, il binomio fantastico si basa sull’associazione di due termini che non hanno nulla a che vedere tra di loro: il compito degli scrittori è quello di riuscire a legare questi due termini inventando una breve storia. Se piove: l’evento si sposterà nella vicinissima sede di Officina Letteraria in via Cairoli 4. Scrivete, iscrivetevi al reading e condividete la notizia!

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Eugenio Gardella racconta il suo esordio

Il 20 settembre 2016 uscirà in tutte le librerie Sei sempre stato qui di Eugenio Gardella, edito da Frassinelli. Sembra una notizia normale per il sito di una scuola di scrittura, ma, invece, questa notizia è, per noi, estremamente importante, perché Eugenio Gardella è il primo scrittore che, dopo aver affrontato un percorso di crescita in Officina Letteraria, sia approdato alla meritata pubblicazione. Esordisce, si potrebbe dire. E noi con lui. Per festeggiare, mercoledì 28 settembre alle ore 18:30 la nostra coordinatrice Emilia Marasco presenterà il romanzo di Eugenio a L’Amico Ritrovato di Genova. Abbiamo chiesto a Eugenio di scrivere due righe sul libro, su di lui, su di noi. Dicembre del 2011, nasce Officina letteraria e mi iscrivo. Provo a buttarmi. Lì conosco Emilia Marasco scrittrice, fondatrice della scuola e docente di arte contemporanea e scrittura creativa. I primi giorni in aula, dopo troppi anni di solitaria scrittura da autodidatta alle spalle, trovo persone con la mia stessa passione, trovo un clima di scambio e di confronto. Scriviamo molto, ridiamo e scherziamo anche se a volte non è facile. Per me così refrattario alle regole è faticoso. Ricordo i racconti da improvvisare in cinque minuti poi in tre e poi in due. È un po’ come tornare ai primi giorni di scuola, ma è anche una ventata di freschezza e di entusiasmo. Poi leggo la Memoria impossibile il primo libro di Emilia, sull’adozione dei suoi figli, e mi colpisce per la sua verità. Anche io sono padre adottivo, certe cose non mi lasciano indifferente. Da anni voglio scrivere la storia della nostra famiglia. Dopo qualche giorno Emilia, tiene una lezione sul coraggio autobiografico. Capisco che può essere la strada per l’universalità. Inizio Sei sempre stato qui. Nel frattempo scrivo altri pezzi per Officina Letteraria. Trovare l’incipit, la voce, i punti di vista, stare nel numero di battute, asciugare, lavorare alle chiuse. Comincio a evidenziare un metodo. Comincio ad avere la sensazione che stia succedendo qualcosa. Emilia e Claudia Priano sono d’accordo nel dire che sono arrivato già fatto e finito, con già la mia cifra letteraria, ma io non sono del tutto d’accordo. Officina mi sta donando qualcosa di inestimabile, un ambiente fertile, un percorso di crescita dove il mio background viene fuori, dove imparo a essere consapevole dei meccanismi che utilizzavo da anni per scrivere. Specchiandomi in quello che le mie pagine provocano nei miei compagni, in Emilia e Claudia apprendo una lezione centrale. La consapevolezza di ciò che sto facendo. Alla fine del primo anno andiamo tutti a fare una uscita sui prati, c’è qualcosa di magico nell’aria, sappiamo che questo nostro corso è stato speciale. Durante l’estate lavoro al mio libro. Scrivo tutta la notte. Tutte le notti. A ottobre arrivo al secondo anno di Officina Letteraria pieno di aspettative, con Sei sempre stato qui più o meno finito nello zaino. Claudia non c’è più, ma la gentile anima di Emilia regge le fondamenta. Conosco Laura Bosio e lei mi colpisce con la sua umana professionalità, raccolgo il coraggio e le dò il mio romanzo, le piace e sceglie di utilizzarne il prologo per dare un prodigioso esempio di editing a tutti noi. Partecipiamo ad alcuni indimenticabili workshop, conosciamo i reading debordanti di Paolo Nori e i pazzeschi esercizi per strada, bendati, proposti da Giulio Mozzi. Poi anche questo anno finisce, porto a termine l’editing del mio libro con Laura Bosio e ancora qualche reading con Officina. Un po’ soffro di nostalgia. Passa un anno, ho il tempo di scrivere un altro romanzo e alla fine Emilia mi dà il contatto di un agente letterario. Le mando Sei sempre stato qui. Chissà, mi dico, magari un colpo di fortuna. Dopo qualche giorno ricevo una miracolosa telefonata. Grazie Officina.

Cinque buoni motivi per portare a termine il tuo primo romanzo

Lavoro impegnativo. Full time. Moglie, figli, amici, nonni. Famiglia ingombrante. Blocco dello scrittore. Sindrome da foglio bianco. Mancanza di tempo. Cassetto inchiodato. L’idea non è abbastanza buona. L’idea non è abbastanza nuova. L’idea non è abbastanza scioccante. E, per chiudere, il classico “gomito che fa contatto con il piede”. Ci sono almeno mille motivi per cui non stai utlimando il tuo manoscritto, ma, siccome vogliamo essere positivi, ecco cinque buoni motivi per portare a termine il tuo primo romanzo. 1. Altrimenti non potrai mai scrivere il secondo. Sembra una battuta – e di certo lo è – ma forse non ci avevi mai davvero pensato bene: se sei tra quelli che tergiversano pensando che un romanzo sia un’impresa difficile, pensa invece che potrebbe essere solo l’inizio di una serie. Così è stato per tutti gli scrittori, perché per diventare autori bisogna certo iniziare a scrivere, ma non basta. Per diventare autori bisogna sapere quando e come chiudere il tuo primo lavoro. 2. Stai facendo più fatica a non finirlo di quanta dovresti farne per finirlo. Per alcuni è proprio così: un romanzo può essere un impegno tanto grande da sembrare impossibile da portare a termine. Ma portare avanti la storia che stai scrivendo significa fare delle scelte e ogni scelta comporta che le possibilità si riducono. Alla fine, arriverà un momento in cui non avrai più scelta e non potrai fare altro che finire. Alle volte basta superare uno scoglio che sembrava insormontabile, ma non lo era affatto, per vedere il resto della strada in discesa. 3. Non hai risposte, ma sai porre le domande giuste. Per altri accade questo: si inizia a scrivere un romanzo pensando che si debbano comunicare delle verità assolute, ma scrivere significa anche esercitare il dubbio, e può succedere di arrivare a perdere ogni certezza. Allora ricorda: la letteratura non ha il compito di fornire risposte. La scrittura è figlia del racconto e il racconto nasce per porre domande. Lo scrittore è colui che sa porre le domande giuste. 4. Quello che hai da raccontare non interessa a nessuno, finché non riesci a raccontarlo. Quindi àrmati di sincerità, affronta il tuo demone, quello che tieni chissà da quanto tempo chiuso nel cassetto, e abbi il coraggio di chiederti se a te interessa sapere cosa accadrà ai personaggi che hai ideato, alla trama che hai in testa, quell’idea che spinge per farsi scrivere. Se la risposta è sì, hai già trovato la prima persona che vuole leggerti: sei tu. 5. Perché, in fondo, quello che più conta è come va a finire la storia. O no?