Nicola Magrin ha realizzato per Officina Letteraria l’immagine del manifesto promozionale dei laboratori 2018/19, Scrivere apre i porti. Pittore di Monza, conosciuto anche nell’editoria per le sue evocative copertine tra cui Le otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi), l’opera di Primo Levi (Einaudi) e di Tiziano Terzani (TEA), è coautore di Il Cane, il Lupo e Dio con Folco Terzani (Longanesi) e la sua ultima mostra La traccia del racconto, attualmente in corso, è ospitata dal Centro Saint-Bénin di Aosta. Acquerellando uomini e donne in cammino, la montagna e i suoi abitanti, fino alle recentissime balene, Nicola Magrin accoglie l’imprevisto tipico di questa tecnica e dà forma a idee trasparenti, corpo alla luce, mescolando colori raffinati ed essenziali in uno stile del tutto personale e riconoscibile. Gli abbiamo fatto alcune domande. Nicola Magrin: accogliere l’imprevisto L’acquerello non puoi sempre controllarlo, devi lasciarlo camminare, devi affidarti. Occorre aprirsi per diventare liberi da paure e pregiudizi. Come hai interpretato lo spunto Scrivere apre i porti? Negli ultimi anni i miei acquerelli sembrano voler tracciare una mappa di emozioni date da esperienze a stretto contatto con la natura. Una sorta di diario dove le immagini prendono il posto delle parole per suggerire o svelare le tappe di un cammino, di una crescita personale. È come se quest’acqua sporca seguisse l’avanzare dei miei pensieri. Bagno la carta, creo miscugli di colori in ciotole per la colazione e, a un certo punto, nel momento in cui adagio il pennello sulla superficie so che l’avventura ha inizio perché l’acquerello non puoi sempre controllarlo, devi lasciarlo camminare, devi affidarti. Occorre aprirsi per diventare liberi da paure e pregiudizi. Penso che se si vive insieme a tanti libri non si sarà mai soli, si potrà essere solitari, ma non soli. I libri ispirano il tuo lavoro? Hai degli autori di riferimento? Penso che se si vive insieme a tanti libri non si sarà mai soli, si potrà essere solitari, ma non soli. E penso che l’età migliore per crearsi dei maestri sia da bambini, quando si ha un bagaglio emozionale e culturale ancora leggero e non appesantito dagli studi, dai consigli degli amici, degli adulti. I primi acquerelli che ricordo di aver visto sono stati quelli di Pinin Carpi, di Paul Klee e di Hugo Pratt. Esistono nella mia libreria degli autori ai quali sono particolarmente affezionato, rileggere le loro parole a volte mi aiuta a focalizzare meglio un’idea, un’immagine. Penso a Mario Rigoni Stern, Ernest Hemingway, Thomas Merton, Maxence Fermine, Chaim Potok, Lalla Romano e Hugo Pratt. Come nasce una tua copertina? Dopo aver saputo il titolo del libro e letto una breve sinossi, mi lascio guidare dal mio istinto creando tre immagini che possano soddisfare il gusto mio, dell’editore e dell’autore. I miei strumenti di lavoro sono carta Arches 300 gr, un pennello cinese, tre ciotole che riempio con un colore più o meno diluito e un bel secchio di acqua freschissima. Nessuno schizzo preparatorio ma solo la volontà di collegare mente-cuore-mano e far scivolare così il pennello sulla carta… che forse diventerà una nuova copertina. Grazie, Nicola Magrin. E a voi, quale storia ispira l’immagine del manifesto? Scrivetela in 2000 battute per vincere l’iscrizione al nostro laboratorio di 1° livello La grammatica delle storie. Qui il regolamento del concorso.
Il Far West non è una vecchia storia con cavalli, cowboy, sparatorie dentro i saloon e bicchieri di whisky. Il West esiste ancora, il Texas c’è ancora, e dentro al Texas e le sue strade polverose può capitare di trovarci ancora qualche sceriffo oscuro a caccia di vendetta. Basta seguire le orme degli pneumatici, le impronte degli stivali, le scie di bossoli, ci vuole poco per caderci dentro con due piedi, come nello sterco… “Nel dolore” di Alessandro Zannoni Certo: i cowboy non viaggiano più per il paese in groppa ai loro destrieri, ma usano pickup scassati; le pistole però sono cambiate poco, e fanno sempre molto male. Questi sono i presupposti d Nel dolore (A&B editrice) di Alessandro Zannoni, autore nato a residente a Sarzana, con diverse pubblicazioni alle spalle. Nel dolore è il secondo romanzo che ha come protagonista Nick Corey, un italo-americano immigrato in Texas, figlio di una madre che parla una lingua mischiata tra inglese, italiano, il messicano e quella dei nativi. La prima volta Nick Corey è apparso nel 2011 in Le cose di cui sono capace, uscito con Perdisa Editore. La gestione della collana era già in mano a Antonio Paolacci (tra le altre cose, maestro di Officina Letteraria), erede naturale di Luigi Bernardi, e Antonio ne curò anche l’editing. «E con Stella come va». Alzo gli occhi dal piatto e la guardo serio. «Bene, ma’. Le cose vanno bene». «Cercherai anche stavolta di sposarla, io credo». «Credo che sì, quella è l’idea. Ma stavolta me lo ha chiesto lei», dico facendole un mezzo sorriso vincente. «Quindi sei tu quello che scapperà con i motociclisti», dice senza ridere. Nick Corey è sceriffo di BekereedgePass, è fidanzato con Stella, ragazza che è tornata da lui dopo averlo abbandonato all’altare e lasciato solo per sette anni, e ha un problema con l’alcol. Di recente, qualcuno ha ammazzato il suo unico e migliore amico Rudy. Quindi Nick ha anche una missione: trovare chi ha ucciso Rudy, e fare giustizia. A modo suo. Il romanzo è narrato in prima persona, da Nick, e il linguaggio è quello che ci si aspetta da lui: duro, amaro, masticato più volte come una foglia di tabacco. Dritto come la trama, un proiettile verso la fine; una brutta fine. «Pensi che finirà male, Nick?» «Credo proprio non ci sia alternativa, Stella». Ad alcuni, il nome di Nick Corey potrebbe suonare familiare. C’è un motivo, e ve lo spiega l’autore stesso, a cui abbiamo fatto alcune domande. OL: Come è nata l’idea di ambientare il romanzo nel Texas, e l’idea di utilizzare un protagonista italo-americano? Alessandro: È un’idea nata da una provocazione che avevo fatto a Luigi Bernardi su Facebook: si possono fare cover di canzoni arcinote, si possono fare remake di film straconosciuti, ma a nessuno verrebbe in mente di riscrivere un libro famoso perché verrebbe subito accusato di plagio. Bernardi venne fuori con questa proposta: avrebbe pubblicato chi si fosse cimentato a riscrivere un classico. Ci ho pensato un po’ su e mi sono reso conto che il mio classico per eccellenza, parlando di noir, è un libro scritto nel 1961, ma che ha una freschezza che sembra uscito dalla tipografia un’ora fa: Colpo di spugna di Jim Thompson. Del romanzo originale ho mantenuto l’ambientazione americana per svariati motivi, il più importante dei quali è che volevo poter giocare ad armi pari con gli autori d’oltreoceano – partono avvantaggiati, nell’inventare una storia, perché in America tutto è possibile e i lettori italiani accettano questo assioma senza storcere la bocca, cosa che non accade nelle trame ambientate in Italia, dove ti fanno le pulci su qualsiasi cosa -. L’idea di utilizzare un protagonista italo-americano è derivata dalla mia voglia di giustificare l’uso del nome di Nick Corey. Mi pareva davvero irrispettoso usare a cuor leggero un personaggio così iconico e riconoscibile, quindi mi sono immaginato che questo nome fosse in realtà davvero casuale, nato dalla traduzione dell’italianissimo Nicola Coretti, figlio di immigrati naturalizzati americani. E questa cosa la spiego perfettamente nel primo romanzo con protagonista Nick Corey. Il mistero della vita è che non c’è nessun mistero. Nasci vivi muori. Stop. OL: Come ti sei documentato su questi luoghi? Sono reali o di fantasia? Alessandro: Siamo esterofili, che ci piaccia o no, e l’America ci ha plagiato ben bene. Perciò credo proprio che ogni italiano di mezz’età abbia un ottimo background americano, grazie a libri, film e documentari, e con tutte queste informazioni non è servito andare in Texas di persona per ricreare una realtà plausibile e credibile. Ho scelto un luogo ideale dove immaginare la città di BakereedgePass, ho studiato alcune cittadine reali che sorgono in quella zona tramite Google Maps, e poi tutto mi è venuto naturale, tanto che nessun lettore si è lamentato. Anzi. E ad alcuni di quelli che mi hanno chiesto se ho vissuto in quelle zone, ho risposto di sì, per i primi quindici anni della mia vita, per non deluderli. In effetti credo di aver fatto un buon lavoro. L’amore e la vita sono una merda necessaria. OL: Perché “nel dolore”? Perché “l’amore e la vita sono una merda necessaria”? Alessandro: Per Nick il dolore è la condizione umana naturale. Lo ha messo alla prova, violento e inarrestabile, fin da quando era indifeso e innocente. Ha forgiato il suo carattere, inciso sulla sua vita. Nick non ha paura di affrontarlo, ci si butta a capofitto, perché sa che solo attraversandolo può raggiungere la sua pace. “La vita è una merda necessaria”, dice Nick, perché non può fare a meno di viverla, gliel’hanno data e non può tirarsi indietro, anche se ogni volta che si sbronza cerca di ammazzarsi ficcandosi la pistola in bocca. Sarebbe la via più breve per smettere di soffrire, ma c’è sempre un buon amico che lo aiuta a desistere, e un motivo forte per non farlo. Il motivo è l’amore, quello che prova per Stella, che crede sia la sua redenzione per diventare un uomo migliore e vivere una vita diversa e felice. In fin dei conti,
Alcune domande a Yasmin Incretolli, giovanissima autrice di Mescolo Tutto, ultima pubblicazione di Tunuè Edizioni. “Non è affar mio, far finta che non esisto.” Quello che ho letto non è un libro “tipico”. L’ultima pubblicata dalla giovane casa editrice Tunué è un’autrice ancora più giovane: Yasmin Incretolli, classe 1994, nel suo Mescolo Tutto si esprime in modo inusuale. Inusuale, ma necessario; perché la lingua di Maria (la sua protagonista) è programmatica alla storia. Facciamo alcune domande a Yasmin, per addentrarci maggiormente in questo strano mondo racchiuso nel suo romanzo. Officina Letteraria: Mescolo Tutto fu menzione speciale al Premio Italo Calvino del 2015. Quanto è cambiata la stesura del romanzo dal concorso letterario all’edizione con Tunué? Yasmin Incretolli: Assieme a Vanni Santoni [curatore della collana “Romanzi” di Tunué n.d.r.] abbiamo escluso subito un’eventuale e importante alterazione della natura sperimentale dell’opera, che a suo avviso andava anzi mantenuta. Ero diffidente a causa di offerte editoriali arrivate in precedenza, che richiedevano come condizione la ‘‘commercializzazione’’, e quindi semplificazione a livello di lingua e struttura, nonché edulcorazione a livello di contenuti, del testo. Il romanzo è stato emendato gradualmente, attraverso scambi d’email durati alcuni mesi. Sebbene io sia molto giovane, Vanni ha accettato di buon grado le proposte e tenuto conto delle obiezioni che avanzavo. Quello che lo premeva di più era sopratutto far emergere la storia, che nella stesura iniziale accusava un po’ l’intransigenza dello stile. Inoltre il libro era più scarno nella seconda metà, che mi ha chiesto di ampliare. Ho sposato all’istante la prospettiva, lavorando su nuovi testi da integrare. “[…] l’amore, proprio mai l’avevo immaginata tale. Malgrado ne dicessero, a proposito, ch’era strozzafiato e ti metteva in ginocchio, come un’esecuzione. Alla domanda di cosa fosse la sostanza percepita riversarsi a fiotti lungo la gola, «Marmellata», rispose, pizzicandomi il mento.” OL: Nel tuo libro le parole hanno una grande importanza. Quelle che vengono scelte da Maria, la tua protagonista, sono studiate e meditate. Quale sforzo ti ha richiesto la scelta di un titolo per questo lavoro? Quali erano le motivazioni del primo titolo, Ultrantropo(rno)morfismo, con cui concorresti al Premio Italo Calvino, e quali sono state le ragioni del cambio in Mescolo tutto? Yasmin: L’evoluzione del titolo del libro è stata particolarmente faticosa, prima d’arrivare a quello finalmente scelto c’è stato un furoreggiare di brutture: questo già in prima stesura, tant’è che arrivata all’esasperazione le ho fatte implodere ottenendo: Ultrantropo(rno)morfismo. Chiaramente questo titolo non potevo lasciarlo, Vanni allora mi ha chiesto di stilarne una lista di una ventina diversi, e tra quelli a spuntarla è stato Mescolo tutto. Ispirato all’azione omonima dell’artista pioniera della body art Gina Pane. OL: Come hai scelto questa performance di Gina Pane, e qual è la relazione con la storia che racconti? Yasmin: Come Maria, la protagonista di Mescolo tutto, Gina Pane ha utilizzato il corpo nel tentativo di stabilire un dialogo con l’altro. Nel 1972 lambisce il suo viso con una lametta nell’azione Il bianco non esiste, dimostrando come la faccia sia il tabù dell’estetica umana. Molte delle sue performance cercano infatti di destrutturare un certo principio assai diffuso nella società: ‘‘non mettere in discussione’’. Anche Maria opera sulla propria pelle una personale verità fatta di stimoli violenti: di fatto, preferisce essere definita dalle ferite autoinflitte, piuttosto che dall’etichettamento sistematico (donna-corpo-figlia di madre single, etc.) in cui vogliono confinarla, un’immagine sulla quale non ha ne controllo né respiro. Mi piace ricordare anche un’altra azione di Gina Pane, Escalade non anesthésiée, dove s’arrampica su una scala chiodata: trovo che anche quella sia riconducibile alla postura che Maria assume durante la storia, ovvero quella di procedere malgrado il dolore. “I tagli, nient’altro che incantate fessure, ante socchiuse: spioncini dai quali è concesso sbirciare un pezzo d’archè.” OL: Come hai sentito il bisogno di raccontare di Maria, una diciannovenne autolesionista? Hai sentito necessaria una vicinanza di età con il tuo personaggio? Hai sentito la necessità, o semplicemente la voglia, di raccontare il dolore adolescenziale in una forma nuova? Yasmin: Scrivo da quando ho sette anni. Maria e la sua storia sono il risultato della mediazione tra un’adolescenza piegata all’elaborazione/proiezione di figure di donne forti (si scrive del resto anche per provare a ridisegnare il mondo e noi stessi), e la realtà dei fatti nella nostra contemporaneità, che vede la donna sempre come corpo o vittima, o le due cose assieme. Ho deciso d’introdurre una protagonista ‘‘cutter’’ perché è una forma fortemente simbolica di introiettamento della sofferenza, e anche perché si dice che l’autolesionismo sarebbe tipico nelle persone di talento, magari non riconosciuto, alla costante (e spesso ossessiva) ricerca del consenso da parte di chi non gli vuole bene (ahimè). Era un tratto particolarmente adatto, quindi, per caratterizzare una ragazza in continuo contrasto con una società sempre tesa a limitarla e incasellarla: perché donna, perché portatrice d’un aspetto che riconduce a una determinata condizione sociale, perché proveniente da una storia familiare travagliata, verso cui, come sempre accade, la comunità assume un ruolo inquisitorio, gioca a fare il tribunale invisibile. Quest’anno è giunto un nuovo alunno, espulso dall’antecedentemente frequentato I.P.S. Il suo nome è Jesus Fernando Rodriguez, si fa chiamare Chus. […] Nonna spifferò che un buon modo per regolarsi sulla cattiveria delle persone è controllare la storia traumatica del loro mento: Chus l’ha rotto due volte.” OL: Maria è il nome della protagonista, Jesus il nome del suo amato. Si tratta di un accostamento casuale? Yasmin: Sono emersi in modo naturale, scrivendo, e non credo che le dimensioni simboliche debbano emergere troppo o imporsi sulla storia. Maria è un nome comune in Italia, e Jesus in America latina non è inusuale. Verso la fine del romanzo la protagonista si paragona alla Maria Maddalena, la peccatrice penitente che attraverso la devozione al Cristo vuole espiare le sue colpe. Si potrebbe dire che nella ‘‘mia’’ Maria scatti qualcosa di molto simile con Jesus/Chus, il ragazzo argentino appena trasferito nella sua classe, e che in qualche modo diventa una sorta di incarnazione d’un purgatorio sociale – anche perché in lui non c’è niente di
Quando incontro Francesca, non so se la porta si aprirà sull’ingresso di casa sua o sulle stanze del suo atelier. “Tutte e due”, mi dice, e vengo accolta in una casa-studio luminosa, sui toni del bianco e del grigio. Francesca Biasetton è un’illustratrice e una calligrafa, non una grafologa, sottolinea sorridendo e facendo allusione alla scarsa conoscenza che ancora esiste in Italia attorno alla materia, nonostante l’Associazione Calligrafica Italiana, di cui è Presidente dal 2011, sia attiva da più di vent’anni. La calligrafia è argomento sfuggente, semplice e complesso al tempo stesso. Bella scrittura che si manifesta nel rispetto di regole di proporzione, codice di segni, che sono anche suono e significato, non esclusiva forma, né semplice contenuto, regolarità e caso. Il segno che il tiralinee lascia sul foglio non è del tutto controllabile mi spiega Francesca, perciò, anche se si interviene sulla pressione esercitata sulla pagina o sull’inclinazione dello strumento, il risultato finale non è completamente prevedibile. Questo argomento mi incuriosisce, e mi incuriosisce anche il tiralinee, oggetto di cui ho forse un vago ricordo scolastico: “è quello strumento che si trova nelle scatole dei compassi e che nessuno sa come usare”, chiarisce Francesca. Un rapido sorriso – mi accorgo in quell’istante che tutta la casa è intonata ai suoi occhi grigi, nero inchiostro più bianco pagina, mi piace pensare – e sparisce nella stanza accanto. Ritorna con un tiralinee e diversi pennini, per mostrarmeli. L’unità di misura è lo strumento mi spiega, perciò se si scrive con un pennino a punta tronca o con un calamo arabo, le proporzioni cambiano. Per imparare si lavora in trasparenza, utilizzando la falsariga, cioè un foglio rigato posto sotto al foglio bianco sul quale si intende scrivere. Spesso gli allievi trovano scuse per non prepararla, ma è un passaggio essenziale. Penso che questo deve avere a che fare con l’abitudine alla velocità, con l’aspettarsi subito il risultato facile, quell’aderenza quasi perfetta tra intenzione e risultato cui ci hanno viziati tasti, leve e interruttori. Ma la Calligrafia è una disciplina che ha a che fare con la lentezza, con la cura, con le mani; nella lettera scritta a mano si compie e si rinnova la perfezione del gesto che si fa parola, prima parlata, poi disegnata sulla carta. Ma che cosa accade quando, progressivamente, la scrittura ritorna al puro segno? Francesca Biasetton si è dedicata anche all’asemic writing, particolare forma d’arte che pone chi osserva tra il leggere e il guardare. Forma d’arte astratta?, chiedo, o espressione pregrafica? Omaggio alla scrittura illeggibile-magica, all’indecifrabile, o ricerca di un modo altro della comunicazione? Tutte queste cose insieme, risponde, e mi racconta il suo metodo Io parto dal testo e procedo per trasformazioni successive. Lavoro per via di togliere, finché non resta che il segno Non posso fare a meno di visualizzare una lunga fila di rapidissimi fotogrammi, che riportano le scritture, i loro diversi alfabeti, al seme iniziale, a quel segno primigenio, comune forse, che trasformò per la prima volta un pensiero pensato in una scrittura scritta, un’idea nella sua orma. Francesca mi mostra i suoi taccuini, alcuni dei quali saranno esposti in Officina Letteraria in occasione della sua personale. Ne ha sempre uno con sé, su cui annota frasi, parole, immagini. Non sono i classici “taccuini d’artista”, mi spiega, non li ha mai compilati pensando che un giorno qualcuno potesse sfogliarli. Contengono idee in seguito diventate concrete, spunti rimasti tali e molti disegni realizzati con la penna a sfera, strumento semplice e versatile, cui è molto affezionata. Lì dentro ci sono probabilmente gli elementi primi di tutte le sue opere, dalle illustrazioni agli abiti scritti a mano per Midali, dall’Abbecedario, Premio Andersen 2003, agli appunti per logotipi, lettering per film, video, libri… Parliamo ancora dell’Iran, dove in occasione di “Incontri”, a Teheran, ha conosciuto la calligrafa Golnaz Fathi: dieci giorni di straordinaria sintonia e di lavoro a quattro mani, che Francesca descrive come un dialogo sulla stessa tela. “Mia nonna era di Alessandria d’Egitto, parlava l’Arabo”, aggiunge. “Mi ha lasciato questo”, indica un mobile accanto al tavolo dove siamo sedute, “insieme alla curiosità per quella lingua e il suo alfabeto”. Lingua e scrittura che ha poi studiato per anni. La conversazione ha qualche pausa – due diverse forme di riservatezza, o forse è la naturale punteggiatura di un discorso che sta per chiudersi: tre gocce di inchiostro che il foglio accoglie. Ringrazio Francesca e ci salutiamo. Un sorriso, occhi grigi: nero inchiostro più bianco pagina, mi piace pensare. In occasione della mostra personale Appunti, tra lettere e figure, che inaugura in Officina Letteraria sabato 12 dicembre, Francesca Biasetton terrà il laboratorio Scrivo (a mano) quindi sono (io), per ritrovare il tempo e il piacere della scrittura manuale, e per un primo approccio alla calligrafia. http://www.biasetton.com/biasettonwebsite/ http://www.officinaletteraria.com/maestri/francesca-biasetton/
I fatti sono questi. Michela Murgia è una narratrice e, quindi, ama imbrogliare le carte: mischia il passato con il futuro, il digitale con l’analogico, il reale con la finzione. Mi è capitato di leggere i suoi articoli, parecchi post e un paio di romanzi. L’ho anche sentita parlare sul palco, alla Notte degli Scrittori. Quando l’ho fermata nel foyer della Sala Gustavo Modena, le ho detto le solite cose che si dicono in quelle occasioni: mio suocero era sardo, la fregola, gli stagni di Santa Giusta. Poi le ho detto che mi era proprio piaciuta quella cosa che la scrittura è necessaria come lo scatto del topo. Cioè, come l’ultimo balzo del topo, preso nell’angolo. Insomma, vedete: io m’incarto e invece lei la dice bene, questa cosa del topo braccato con la scopa. Prima ancora di scriverla, la pensa bene e, quindi, la racconta bene. In pratica, la narra. Perché, al netto delle etichette, Michela Murgia è proprio una narratrice. Di quelle da storie davanti al caminetto. O da sedia in un cortile assolato, se preferite. Ma non divaghiamo. I fatti sono questi: Michela Murgia è talmente narratrice, che i suoi personaggi le scappano dai libri. E, per la precisione, scappano su Facebook. Proprio così. Il suo prossimo romanzo, per Giulio Einaudi editore, uscirà martedì 10 novembre 2015, ma Chirù, il diciottenne che cede il proprio nome al libro, si è già aperto un Profilo Utente Facebook. E si è fatto un sacco di amici. Michela Murgia, dando la notizia dalla propria Pagina Ufficiale Facebook, ha citato Salinger. Qualcuno avrà pensato ai sei personaggi di Pirandello, altri a una mera attività di Social Media Marketing. Ma il dato resta: c’è il personaggio di un romanzo ancora inedito che sta raccontando qualcosa di sé. Qualcosa che, prima, nessuno poteva sapere. Qualcosa che, anche dopo aver letto il romanzo, nessuno potrebbe sapere. Qualcosa che sta al di fuori delle pagine del libro, perché sta dentro a una Pagina di Facebook. Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. (Il Giovane Holden, J. D. Salinger, cap. III) Che io sappia, è la prima volta che accade in questa forma e con questi tempi e, anche se non lo fosse, mi è sembrata una cosa interessante, quantomeno curiosa. Immerso come sono nella mia “Bolla Social”, fatta di comunicazione, libri e LEGO, pensavo ci fossero un sacco di articoli in merito, un mare d’interviste all’autrice e all’editore. E invece no. Così ho stuzzicato il Bot di Einaudi via Twitter, lui ha risposto e lei, Michela Murgia, non solo ha accettato di essere intervistata, ma mi ha pure telefonato. Ed eccoci qui, con l’intervista: Fruttero e Lucentini attribuivano enorme importanza ai nomi dei loro personaggi tanto che hanno redatto un tomo che, successivamente, è diventato un long seller intitolato “Il libro dei nomi di battesimo”: ci racconti perché hai scelto il nome Chirù? I genitori sanno bene che i nomignoli dati ai figli sono spesso parole deformate, quelle che da bambini non riuscivamo a pronunciare bene. Chirù è un nome dato in quel modo e richiama la parola ghiro perché è un dormiglione. È semplice da ricordare e non significando niente non è traducibile. Non è irrilevante avere un titolo che può restare immutato nelle traduzioni estere. Questo esperimento del Profilo Utente Facebook di Chirù (ora trasformato in Pagina per rispettare le policy) è frutto di un pensiero strategico o di una notte insonne? Di un gesto istintivo che ho fatto a luglio scorso quando ho consegnato l’ultima stesura del libro. Ancora con tutti i personaggi in testa, ho faticato a staccarmi in particolare da questo ragazzo, che nel libro è un personaggio più narrato che narrante, e a cui sentivo di dovere qualcosa di più. Ho aperto il profilo e ho cominciato a postarci senza sapere bene dove andare a parare. Dai gruppi di Anobii alle bacheche di Pinterest: le discussioni social intorno ai libri si moltiplicano. Posso chiederti perché hai scelto proprio Facebook? Perché è il mezzo con cui ho maggiore dimestichezza, il più immediato e il più multimediale. Twitter in questo senso è un mezzo di vecchia concezione: frequentato da pochi e soprattutto da addetti ai lavori, è uno spazio prediletto dai mediatori e raggiunge un numero minore di lettori. FB invece in questo è insuperabile. Si parla molto di narrazioni crossmediali ed enhanced eBook: Chirù ci sta portando in questo territorio o sono fuori strada? Credo siano categorie che interessano più chi osserva per studio queste narrazioni che non chi le compie. Per me è naturale cercare di raccontare con tutte le forme di comunicazione possibili, anche intersecandole. Non credo sia vero che quello che sto facendo con Chirù non lo ha mai fatto nessuno, ma se fosse vero me ne meraviglierei moltissimo. Chirù posta, fotografa, interagisce (non a monosillabi). Di solito, risponde in meno di un’ora. Come riesci a gestire tutto? Divertendomi. Se mi annoiassi non riuscirei a seguirlo e credo che non seguirebbero lui sulla pagina. Riguardo alla Pagina di Chirù, hai parlato di “Gioco di Ruolo”: dimmi che da ragazza giocavi a Dungeon & Dragons e guadagni subito 5 D20 di nuovi fan. Molto peggio. Ho giocato per dieci anni in una community di GDR online di ambientazione medieval-fantasy. È stata una palestra, perché non c’erano gli avatar, ma solo la parola scritta: quello che c’era esisteva nella misura in cui si era in grado di descriverlo. Senza dubbio Chirù è debitore a quell’esperienza e a quella nostalgia, che ogni tanto ancora mi prende. Com’è fatto il cervello di una scrittrice che riesce, sia nei tempi dilatati di stesura di un romanzo, sia nella quotidianità di una Pagina Facebook, a indossare comodamente i panni di un ragazzo di diciotto anni? Chi ha detto che sono comodi quei panni? Chirù è un personaggio letterario
C’è un uomo che cammina in mezzo a una foresta di tronchi d’albero. Sappiamo che avanza come si conoscono per istinto le cose ineluttabili, sappiamo che va avanti perché nessuno può davvero fare altrimenti. Ma la neve che ha lapidato il suolo – lastra bianca che solo un rovo buca come un ago storto – la neve lo radica a terra, lo sprofonda. È così che si muore, sembra dire. È così che questi pali neri, che sono alberi senza chioma, intrecciano il tessuto bianco e nero di una scenografia naturale e spietata. Che poi a ben vedere non c’è intreccio alcuno: la simmetria della natura è fatta di linee parallele, solitudine geometrica che va avanti all’infinito. In Mortale ho mischiato insieme le Langhe, un quartiere di Barcellona che è un esempio di quarto mondo e Sarajevo mi racconta Paolo Bonfiglio. Intanto, mentre parla, riempie di parallelepipedi il foglio che ha davanti. Mortale, realizzato nel 2009, è uno dei tre cortometraggi prodotti dall’artista insieme al musicista Mick Harris. “Animatic”, si dice, animazione più comic. Il termine non mi piace del tutto, chiarisce, ma è di questo che si tratta in sintesi. La prima collaborazione con Mick Harris però risale al lungometraggio Fragments, un cineconcerto. Ho ricevuto la musica composta da Harris e l’ho unita al mio archivio di immagini (fa un cenno in direzione della sua testa) Harris non ha composto la musica per i miei disegni, così come io non ho realizzato i disegni a partire dalla sua musica: si è trattato di un processo parallelo, fatto anche di aggiustamenti progressivi e reciproci. Io ascolto, caduta a capofitto in questo mondo che affascina solo a sentirlo raccontare, e intanto ripenso a quello che Paolo mi ha raccontato di sé. Da piccolo guardavo un mucchio di televisione, mi ha detto poco fa, cartoni animati belli e meno belli, ne guardavo un sacco. Mi immagino le Langhe – sono nato tra Acqui e Alba – , sono gli anni ’70. Mi immagino il freddo e la neve, il buio presto. Adesso che vive tra Parigi, le lezioni all’Accademia di Belle Arti di Genova e le sue Langhe, quando torna a casa quel tempo lo dedica alla scrittura. C’è troppo buio per dipingere a olio, spiega: Scrivo per ragioni ambientali Davanti alla stufa, con il buio dietro i vetri della finestra, la scrittura diventa un fatto determinato dalla stagione. Sorrido. E penso che questo bisogno di esprimersi praticando molti linguaggi (la scrittura, l’immagine in movimento, il disegno e la pittura) sia l’unico modo di assecondare un impulso narrativo che non dà tregua. Faccio tutto io, mi dice a un certo punto parlando dei suoi lavori teatrali. E non si tratta di mania di controllo, è chiaro, e nemmeno del desiderio pure comprensibile di esprimersi in tutti i modi che gli sono congeniali: è piuttosto un’assunzione di responsabilità totale. C’è un cane che rosicchia un teschio, lo fa per gioco. Ancora bianco e nero. Il teschio – la valigia piena di ossa è il bagaglio del passato, mi sussurra all’orecchio la Mater – il teschio può essere il mio, il tuo, il suo. Il teschio, le ossa, riguardano tutti noi mortali. E mortale può essere la memoria, rosicchiata, rosa, erosa. La scomparsa della memoria è il pericolo più grande Ed è già in atto. Lavoro moltissimo, adesso, mi spiega. Dice che vuole compensare quel periodo di spreco, lo chiama così, di esuberanza creativa in cui ha indugiato da ragazzo. Eravamo nichilisti, la mia generazione ha sprecato, ha vissuto interi anni con poca cura. Si trovava facilmente un impiego negli anni ’90, si poteva viaggiare. Adesso, mi dice, voglio fare bene animazione, e quando insegno, ci metto tutte le energie. Mi parla, ancora, di due nuove idee/immagini su cui lavorerà a breve: la danza dei corvi che si litigano la spazzatura a Les Halles e il movimento delle foglie secche sollevate dal vento – casuale sì, ma c’è una regola, mi assicura, l’ho scoperto facendo una sequenza fotografica, è straordinario. Mi parla di Mala Tempora, un progetto ampio che richiederà moltissimi anni di lavoro. Prima di Mala Tempora, mi spiega, tutto quello che c’è prima l’ho chiamato Tempora. Tutto questo è Tempora. In Officina Letteraria, dal 10 Ottobre al 22 Novembre. www.paolobonfiglio.altervista.org
Quando Herbert George Wells nel 1938 scrisse la sua lecture “The brain organization of the modern world”, non solo ipotizzò un enorme cervello artificiale, una “World Encyclopaedia” nella quale confluissero le conoscenze di tutti gli uomini; non solo auspicò che si realizzasse un’interpretazione integrata della realtà, ma disse che senza tale processo, l’uomo non avrebbe avuto speranze. Molti hanno intravisto nelle sue parole la lungimirante visione di quello che oggi chiamiamo World Wide Web. È il primo argomento di cui mi capita di parlare con Livia Napolitano. Livia cura la rubrica Nottetempo di Radio Libriamoci Web, una webradio no-profit che promuove iniziative di carattere sociale ed umanitario, e produzioni artistiche indipendenti. Tra le rubriche: Copertine (su libri e autori), Nottetempo…Racconti On the Road a Onde Road, Mondo recluso (le voci dal carcere) e molto altro. Il web è uno spazio di libertà, è un veicolo di informazioni molto potente, ma non mi sento di demonizzarlo, mi spiega Livia: si tratta come sempre di utilizzare al meglio uno strumento, di metterlo al servizio di contenuti di qualità. Radio Libriamoci, “la radio che ama chi legge”, è un’associazione culturale nata dall’incontro fortunato e casuale di persone affini, accomunate dall’impegno nel sociale e dall’amore per la lettura. La mancanza di confini della rete crea sinergie al di là delle distanze geografiche, unendo creatività e passione di persone che non si sono mai incontrate nella vita reale Quando si dice cultura libera e indipendente, si dice questo. Proprio attorno alla passione per la lettura, sta prendendo forma il prossimo progetto per Radio Libriamoci. Che cosa ha significato per te partecipare a #ioleggoperché ? Sicuramente la possibilità di raccogliere le più diverse testimonianze sul rapporto con la lettura, mi risponde. Se una delle finalità dell’iniziativa è quella di avvicinare alla lettura chi ancora si tiene a distanza, Livia ne ha fatto un modo di operare, scegliendo di registrare le testimonianze in luoghi e contesti non convenzionali, e andando ad incontrare anche chi nei libri ha appena messo il naso, come i bambini della scuola del Consolato Francese. Livia mi racconta della sua esigenza di comunicare, e lo fa partendo da una passione, adesso messa da parte ma non dimenticata, il canto. Non è la prima volta che mi capita di sentirla parlare di questo, in relazione alla sua esperienza in radio. Che cosa hanno in comune la parola cantata e la parola detta? C’è la musica. La musica diventa un elemento importante per veicolare il messaggio, per creare suggestioni La musica di strumenti e voci che consuonano, ma anche quella quotidiana, emessa dalle cose che accadono, perché per dirla con Erri De Luca “la macchina mondo è un’orchestra musicale”. E poi c’è la musica della parola, vibrare di corde vocali, quelle frequenze impercettibili che la voce segue, il moto ondoso della parola detta, l’alzarsi e l’abbassarsi, il procedere e il ritirarsi del discorso. Radio Libriamoci è soprattutto una talk radio, una realtà molto più diffusa in Inghilterra, Stati Uniti, Germania, mi racconta Livia. Qui in Italia siamo un po’ pionieri, ma è un buon momento adesso, sembra di rivivere quello che accadde negli anni ’70 con le prime radio libere. E proprio le onde, le frequenze del discorso ci portano a parlare di Radio Aut e di Radio Cento Passi, della comunicazione libera come esigenza di verità, come forma di resistenza. Al Sud, quando cresci devi scegliere i tuoi eroi. Il mio era Peppino Impastato Radio Libriamoci è anche uno spazio per dare voce a chi non ce l’ha. Chiedo a Livia di raccontarmi di Marina Garaventa, scrittrice e poetessa che da tredici anni vive grazie ad un respiratore e non potendo parlare né muoversi, comunica attraverso il suo pc. Livia le ha prestato la voce e l’ha ospitata in radio con la lettura dei suoi racconti. Mi piace meravigliarmi, continuare a trovare meraviglia. La radio mi rende felice mi dice, e sorride con la bocca e con gli occhi: impossibile non crederle. Lunedì 20, alle ore 17.oo, Livia Napolitano, messaggera della lettura di #ioleggoperché, sarà in Officina Letteraria per permettere a chi lo vorrà di condividere la propria passione per la lettura. Tutte le testimonianze confluiranno in una trasmissione radiofonica che verrà trasmessa su Radio Libriamoci Web.
Sabato 11 aprile Officina Letteraria ospiterà Barbara Fiorio e la sua ironia per un laboratorio di scrittura ironica. Barbara, che ha fatto dell’ironia la sua cifra stilistica, spiegherà ai partecipanti cosa è l’ironia, come possono usarla al meglio per raccontare le loro storie, e li metterà alla prova con qualche esercizio di scrittura, ovviamente, ironica. Come lanciare meringhe a un Castello – non vi viene già voglia di farlo con un titolo così? – sarà un laboratorio divertente e leggero, e io, che sono già passata tra le mani di Barbara, non posso che consigliarvelo. Nel frattempo, mentre aspettate che arrivi sabato 11 aprile per venire a Officina letteraria e conoscere di persona Barbara, gustatevi l’intervista che le abbiamo fatto. I : Come hai iniziato? B : A scrivere, a sognare di scrivere o a pubblicare? Perché a scrivere ho iniziato da bambina, alle elementari, quando ho anche cominciato a leggere da sola i libri, verso i sette/otto anni. Il sogno di fare, da grande, la scrittrice è nato lì, ma ci son voluti più di trent’anni prima che io ci provassi davvero. Da adulta, ho iniziato con un blog sotto pseudonimo, quando erano ancora poche le persone in Italia che avevano un blog, parlo di tredici anni fa, e quelle poche amavano più scrivere che apparire. Quindi era tutto un po’ carbonaro, le community si creavano per osmosi, ci si sceglieva e leggeva per sintonia. Era molto stimolante, e in quello spazio protetto e portentoso ha preso vita il mio primo libro, C’era una svolta, una raccolta di fiabe classiche raccontate alla mia maniera, ma nella loro versione originale dei Grimm, di Perrault e di Andersen, di cui troverete tracce nel mio prossimo romanzo, Qualcosa di vero. Un amico sapeva dell’esistenza di un piccolo editore nel pavese, mi ha dato l’email, ho mandato il libro e il piccolo editore lo ha pubblicato. Per me era fondamentale che venisse pubblicato da qualcuno che non lo facesse per amicizia e che non chiedesse contributi alle spese. Così è stato, e non ho certo dovuto comprare cinquanta copie del mio libro per assicurare la copertura della stampa. I : Quando hai pensato per la prima volta che avresti potuto scrivere? B : Quando è stato pubblicato il mio primo libro. Fino a quel momento era ancora un mio desiderio che ogni tanto tiravo fuori dal cassetto dei sogni segreti e coccolavo con tenerezza, come si accarezza il vecchio orsacchiotto con cui giocavi da piccola. Quando qualcosa di scritto da me ha preso la forma di un libro vero, ignoti lettori lo hanno comprato, giornalisti che non conoscevo lo hanno recensito con entusiasmo e al mio prof di greco del liceo è piaciuto, ho pensato che forse avrei potuto scrivere sul serio. Avevo già quarant’anni. I :Qual è l’esigenza, il bisogno profondo che ti spinge a scrivere? B : Ho sempre scritto, sempre. Scrivevo da bambina per farmi compagnia e inventarmi storie che mi piacessero, scrivevo lettere, mail, chat con gli amici, persino i lavori che ho fatto si sono basati sulla scrittura: scrivevo presentazioni di spettacoli teatrali, schede di promozione, relazioni, poi comunicati stampa, dichiarazioni, prefazioni. Io comunico scrivendo. Ricordo un colloquio che feci moltissimi anni fa in una grande agenzia pubblicitaria. Era un colloquio come copywriter, stavo facendo un master a Milano, in quel periodo, e un mio professore ha voluto organizzarmi un incontro col direttore creativo di quell’agenzia. Lui, all’incontro, mi ha chiesto di fargli vedere un mio book di testi. Racconti, poesie, fiabe, incipit di romanzi, quel che potevo avere. Ma io non avevo niente di tutto ciò. Non avevo mai pensato di fare la copy finché un professore non aveva deciso che io ero una creativa e dovevo assolutamente scrivere, ma non avevo nulla da far leggere. “Scusa, tu ami scrivere e non hai niente di tuo da farmi leggere?”, mi aveva chiesto stupito il direttore creativo. Gli veniva da ridere, da quanto era assurda la situazione. Gli risposi con un candore che mi imbarazza ancora oggi, e resi ancora più assurdo quel colloquio. “Io scrivo mail, messaggi, post sul mio blog – dissi – ma quelli son privati. Non ho mai scritto racconti o poesie, ho solo scritto fiabe, ma ho smesso da adolescente”. Non ebbi mai quel lavoro, ovviamente, ma tutt’ora sono amica di quel direttore creativo, diventato nel tempo anche un mio lettore. I : Qual è l’aspetto che ti dà più soddisfazione nella scrittura? B : Quando entro nella storia e i personaggi conducono. Perché, sarà bene rivelarlo, scrivere è divertente finché lo fai nel cantuccio della tua stanza e ti fai leggere solo da amici e parenti. Quando diventa un impegno, si aggrava di aspettative, di scadenze, di risultati da raggiungere, di quella professionalità che devi avere per rispetto degli editori e dei lettori. Scrivere è fatica, è ansia di non farcela, è passare un pomeriggio su una frase, è ragionare sul dove mettere le virgole, è rompersi la testa su un aggettivo. Ma è anche, innegabilmente, un privilegio. Riuscire a trasformare la propria passione e il proprio talento in un lavoro è straordinario, ma molto più faticoso e raro di quel che si pensa. Però, quando mi metto davanti al computer, comincio a scrivere e vedo la storia che prende forma, vedo i personaggi muoversi da soli, vedo le parole che scorrono e disegnano un nuovo mondo, in quel momento mio e solo mio, dove io riesco a muovermi con familiarità, dove rido, mi commuovo, mi indigno e partecipo, creo, decido, ecco, quello è il momento in cui sto bene. I : Cosa hai provato quando è uscito il tuo primo libro? B : Quello che ho provato quando è uscito il secondo, poi il terzo e tra pochi giorni il quarto: gratificazione, emozione, trepidazione, paura, ansia. Anche un pizzico di terrore. So che chi è madre potrebbe guardarmi storto – la maternità è intoccabile – però pubblicare un libro è qualcosa che si avvicina molto a ciò che le
“Ho il piacere di leggere per voi stasera”, così Charles Dickens introduceva i suoi Readings in giro per l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Leggeva a teatro, ma anche in contesti meno formali come i circoli culturali, a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento e fino alla fine della sua vita. Premesso che queste performances gli fruttavano più denaro di quanto ne ricavasse dalla pubblicazione dei libri, è indubbio che Dickens traesse molto piacere dalle sue letture ad alta voce, vere e proprie interpretazioni di alcune parti dei suoi romanzi, da lui riadattate per il teatro. E il pubblico rispondeva con entusiasmo. Perché questo bisogno di ritrovare la voce che sta dietro la parola scritta, di recuperarne il suono?Lo chiedo ad Aldo Viganò, critico cinematografico e teatrale, curatore de Le Grandi Parole, gli appuntamenti con la lettura di grandi autori che il Teatro Stabile di Genova propone ormai da molti anni. La dimensione orale appartiene all’essere umano mi risponde, e anche considerando che ai tempi di Dickens l’analfabetismo era una realtà diffusa, il fascino della “parola detta” resta intatto, trasversale ai secoli e agli strumenti culturali. “L’attore” continua Aldo Viganò “offre sempre una chiave di lettura” anche quando il testo è annotato, come nel caso di Dickens, anche quando l’autore ha segnato sulla carta le parole cui voleva dare maggior risalto, i punti in cui la voce si alzava, forse, o si faceva più incisiva. All’attore è riservata l’interpretazione: si sceglie un registro, un’intonazione, tra le diverse possibilità lasciate aperte dalla parola scritta. Charles Dickens si serviva di una scenografia, se così può essere definita, molto scarna. Aldo Viganò mi racconta che quando è stato a Londra a visitare la casa dell’autore, nella stanza dedicata ai Readings ha potuto vedere il piccolo tavolino che Dickens era solito portarsi a teatro e il frac che indossava per le letture. Sul palco del Teatro della Corte si recupera questa scenografia minima, mi spiega, e si lascia pieno spazio alla “dimensione teatrale della parola”. I prossimi appuntamenti saranno il 16 Febbraio con i testi tratti da Il Circolo Pickwick e Oliver Twist, letti da Eros Pagni e introdotti da Melania Mazzucco, e il 23 Febbraio con Dombey e figlio, interpretato da Massimo Popolizio con l’introduzione di Giorgio Bertone.Il filo rosso che lega letteratura e teatro, e tutte le nostre chiacchiere fino a qui, mi fa esprimere ad alta voce una curiosità. Ho letto un’intervista di molti anni fa in cui Aldo Viganò, parlando della nuova drammaturgia, sosteneva che il vero problema è la riluttanza del pubblico a provare interesse per ciò che è nuovo. Chiedo, è ancora così? Perché? Lo stesso discorso pensa si possa applicare anche alla letteratura? “Credo che questo giudizio sia estensibile, soprattutto per quanto riguarda il teatro e soprattutto in Italia”. Le persone preposte all’insegnamento hanno una responsabilità in questo senso, perché tradizionalmente e con poche eccezioni nel nostro Paese il classico è bello, il contemporaneo crea sovente diffidenza. Ma il teatro è sempre stato contemporaneo, continua Viganò, “lo scrivere e il rappresentare erano coincidenti”, erano e sono state per molto tempo descrizioni contigue della realtà presente. Qualcosa di simile accade anche in letteratura e “questo fatto appartiene al problema della diffidenza”, ancora una volta. Tra le intenzioni che hanno promosso l’iniziativa Le Grandi Parole c’è anche questa: offrire al pubblico qualcosa di nuovo, contribuendo a quell’operazione ardua ma doverosa che è la demolizione della diffidenza. “Non rassegnamoci a diventare come l’opera lirica!” stigmatizza con un sorriso.E i nuovi cantastorie, chi sono? chiedo. I cantastorie stanno scomparendo, ma forse al loro posto ci sono i grandi attori di monologhi come Paolini, Celestini, Petruzzelli. Anche loro, come i cantastorie, lavorano per migliorare la conoscenza”. Ma si tratta più spesso di cantori di cronaca, e Viganò vorrebbe ci fosse spazio anche per il mito. Una nuova mitologia, contemporanea, che sappia parlare di oggi nell’oggi. E dall’altra parte del palco (e anche fuori dai teatri, per le strade) il contrario della diffidenza: se non addirittura la fiducia, almeno la curiosità. Grazie ad Aldo Viganò per la piacevolissima chiacchierata.
Un libro per l’alluvione. In occasione dell’uscita della raccolta “Undici per la Liguria” a cura di Marcello Fois, undici scrittori liguri hanno messo a disposizione le proprie penne per contribuire, con ciò che sanno fare, alla causa degli alluvionati. Due delle undici penne, le puoi trovare a Officina Letteraria. Le ho intervistate e ho restitutito quello che è emerso in questo post. Intervista doppia: Ester Armanino e Bruno Morchio raccontano dell’evento dell’alluvione attraverso la narrazione di una crisi sentimentale. Comodità, beni irrinunciabili, routine. Solitudine, incapacità di cambiamento, incomunicabilità. Sicurezza, che non è sinonimo di felicità. Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. La città durante l’alluvione è come un “cadavere in putrefazione” (Il postino suona sempre due volte), “il diluvio, spietato e indifferente, non aveva fatto altro che portare a galla la verità” (Il postino suona sempre due volte).”Tra i detriti accumulati un po’ ovunque mi sembra di scorgere le nostre cose. Tu scuoti la testa e mi rassicuri. Ci assomigliano ma non sono le nostre” (Nessun rischio). Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. Ho chiesto ad entrambi com’è nata l’idea di raccontare il disagio sociale anche attraverso quello privato-relazionale. Ester Armanino: “Per me è inevitabile partire dall’esperienza personale sempre e comunque. Non riesco a orientarmi nel generale se il mio occhio prima non coglie i dettagli, le pieghe anche più trascurabili del reale e delle relazioni. L’alluvione ha travolto la città, nella città c’era una coppia: sono partita da qui. Da come avevano arredato casa, dai loro gesti e da ciò che tradiva la presunta solidità del loro rapporto. C’è un racconto bellissimo di Amy Hempel che s’intiola Nella vasca e inizia così: “Il mio cuore – credevo si fermasse. Così ho preso la macchina e sono andata a cercare Dio”; un esempio magistrale di come da un piccolo dettaglio, il battito del cuore percepito nella vasca piena d’acqua, si passi alla dimensione di una macchina più grande e poi a quella indefinibile di Dio, in due sole frasi.” Bruno Morchio: “È nata dalla realtà, dalla mia esperienza personale. In coppia succede di litigare e la trattoria, la Vespa, l’ora in cui sono passato dal luogo dell’alluvione sono un racconto autobiografico. Anche l’idea dell’altro fango, quello mediatico, corrisponde alla realtà. Per fortuna, il resto è fantasia. Il senso di morte, di dissoluzione che accompagna eventi come questi, risulta più efficace se viene associata a un elemento soggettivo, privato.” Poi chiedo loro qual è, se c’è, la differenza tra la lettura della società che danno gli scrittori attraverso la narrazione e quella di coloro che, invece, ci parlano della crisi sociale e politica senza la mediazione dello storytelling (giornalisti, politici). In pratica: Rispetto alla cronaca, il messaggio dello scrittore arriva al lettore in modo più intimo e personale, quindi più efficace? Ester Armanino:“Abbiamo un bisogno incommensurabile di storie, questo è appurato. Io non sono una grande consumatrice di serie televisive, ma la maggior parte delle persone che conosco sì, per loro è come una droga, come per me lo è rileggere periodicamente i libri della mia infanzia. Fabrizio De André ha detto che scriveva “per il bisogno di sentirsi protetto da una storia”, pensiero altissimo che onoro e condivido. In un mondo stracolmo di fatti e informazioni usa-e-getta, le storie hanno il meraviglioso potere di condurci al riparo dal ricatto mediatico, da quel sentirci in dovere di ospitare un’opinione a tutti i costi. Il mondo filtrato da una storia non cambia, ma forse ci coglie più preparati, perché ci siamo concessi il tempo di riflettere attingendo a un immaginario preesitente, archetipico. Anche quando la storia è dolorosa, cruda, non importa: siamo vulnerabili, ma protetti. Abbiamo l’antidoto.” Bruno Morchio: “Credo dipenda dalla bravura dello scrittore o del giornalista. Un buon reportage di cronaca può efficacemente documentare un evento tragico come sono state le alluvioni a Genova (in effetti il titolo del mio racconto dovrebbe essere cambiato: il postino ha suonato tre volte). Però non c’è dubbio che il messaggio “mitopoietico” (narrazione, poesia epica o lirica) ha il potere di raccontare l’esperienza del vissuto, mettendo a nudo la soggettività di coloro che sono coinvolti e, attraverso il meccanismo dell’identificazione, attivando le emozioni del lettore. A chi direbbero qualcosa le pietre di Troia se non avessimo letto l’Iliade?” Proseguo nell’intervista doppia: il filo conduttore di tutta l’antologia sembra essere il rapporto tra la Legge dell’uomo e quella della Natura. Gli scrittori potrebbero dirsi coloro che riescono ancora a vedere e a rispettare la Bellezza del mondo? A “restare umani”? Ester Armanino: “Più che bellezza, direi che gli scrittori indagano la banalità del mondo. Tendono a cogliere lo straordinario nell’ordinario, a rivalutare il banale nelle nostre vite come qualcosa di prezioso e importante. E vale anche il processo contrario: attraverso le parole raccontare ciò che ha avuto una portata straordinaria nella vita di molti e che sarebbe impossibile descrivere se non riconducendolo alla sfera personale, ai dettagli apparentemente banali e ordinari delle singole esperienze.” Bruno Morchio: “Gli scrittori, quando ce l’hanno, posseggono una dote: la capacità di scrivere, cioè di tradurre in parole il vissuto proprio e altrui. Questo è già molto e io mi accontenterei. Non credo che abbiano altre facoltà carismatiche, né che riescano a vedere più lontano degli altri.” Specialmente in Nessun rischio la protagonista osserva la ricostruzione della città in seguito all’alluvione con una sorta di desiderio (“Noi viviamo al terzo piano (…). Al terzo piano non corriamo alcun rischio“), vorrebbe la stessa possibilità di rinascita anche per se stessa e per la sua relazione. Questo mi ispira l’ultima domanda: La crisi puó essere una “benedizione” se porta a un cambiamento sperato? È questo il tipo di “speranza” che i vostri racconti vogliono sussurrare al lettore? Ester Armanino: “Sì, a patto che – come diceva Marcello Marchesi – la morte ci trovi vivi. Perché ogni tanto bisogna correre il rischio di cambiare le cose, “andarsela a cercare”. Altrimenti accontentiamoci di sopravvivere.” Bruno Morchio: “Credo che la teoria delle catastrofi abbia sostenuto qualcosa del genere. Del resto la storia ci insegna che i sistemi economici e
Elena Mearini è nata nel 1978 e vive a Milano. È autrice di 360 gradi di rabbia (Excelsior 1881, 2009), Undicesimo comandamento (Perdisa Pop, 2011), Dilemma di una bottiglia (Forme libere, 2013) poesie, Per silenzio e voce (Marco Saya, 2014). Collabora col settimanale «Vita no profit» e con la rivista letteraria «Atti impuri», nonché con la casa editrice NoReplay. Nel 2015 uscirà il suo prossimo romanzo A testa in giù, per Morellini Editore. Per Officina Letteraria, il 20 dicembre, terrà un Laboratorio su “Scrivere storie dalle nostre canzoni“. Camilla Tomiolo l’ha intervistata per noi, tra prosa e poesia, musica e scrittura. — Intervista a Elena Mearini. di Camilla Tomiolo Elena Mearini con la voce delle parole incide sulla carta la sua pelle, cerca la più viscerale che ha, la trasforma in romanzi e poesia. Tu, se vuoi, puoi appoggiare il tuo corpo e tutto quello che si muove lì dentro sui contorni delle sue storie, raccontate attraverso i cinque sensi. Puoi provare l’effetto che ti fa mettere orecchio, occhi e anima su quella voce di immagini, odori e sapori. Seguirla. La voce costruirà per te personaggi, corpi di carne e sentimenti pieni di minuscoli dettagli. Sto leggendo 360 gradi di rabbia e Undicesimo comandamento, è come se la narrazione si srotolasse in slow motion sui palmi delle tue mani, nei solchi tra il tuo collo e le clavicole, lungo una guancia, in mezzo allo sterno. È una scrittura fisica, procede per azioni, gesti, metafore e sinestesie. Fa riscoprire il peso specifico delle emozioni. Connette l’esterno (gli oggetti, gli spazi, gli altri, il corpo stesso quando diventa l’unica voce per esprimere l’ombra del dolore) con l’interno (non visto e non amato, ma anche autentico e pieno di luce a cui bisogna trovare il modo di accedere). Mi fa venire in mente che “non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie”. “Non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie” Leggere diventa l’azione di entrare nel corpo dei suoi personaggi, respiro, sudore e sangue. Permette di sentirli, ma soprattutto permette di non giudicarli: dentro di loro insieme a loro. E così scopri i loro bisogni, tutto quello che li muove: la qualità emotiva dei loro gesti. Il loro dolore. Elena scrive di dolore con precisione scomoda, ti fa sbattere contro gli spigoli e alla fine ti conduce al riscatto, alla salvezza. Elena ha scritto di donne, dei loro corpi, della loro fame di amore e espiazione, di vittime e carnefici, di colpe che sono illusioni, di persone alla ricerca del loro valore. Di croce e di spine. Trova le parole per dirlo, anche per me, che sto leggendo. Battezza i miei fantasmi e le mie speranze. “Il corpo è poliglotta” Nel nostro scambio di email le ho chiesto se ha sempre scritto in questo modo. Lei mi ha risposto che la sua voce è fisica prima ancora che mentale, che scrive così da quando ha imparato ad ascoltare il suo corpo e a tradurne le molteplici lingue. Perché il corpo è poliglotta, dice. Romanzi e poesia, qual è la differenza tra questi due linguaggi? Elena scrive poesia, qual è la differenza tra questi due linguaggi?, le chiedo. Mi risponde che rispetto alla prosa, la poesia non pretende di essere capita per forza, la sua ambizione è arrivare, toccare, smuovere ciò che sta in attesa di risveglio. La prosa ha bisogno di una durata per portare a termine il proprio compito, la prosa è viaggio, ma la poesia è arrivo. Lei attraversa sia l’una che l’altra, porta l’una dentro l’altra. I cantautori, poesia e musica. Elena ama anche le canzoni d’autore, mi racconta che ha sempre ascoltato i cantautori italiani: sono capaci, attraverso la musica, di diffondere poesia e portare il valore della parola “sana” tra la gente. Durante il Laboratorio che terrà il 20 Dicembre, ascolteremo brani di De Gregori, De André, Fossati e cercheremo di capire il protagonista della storia cantata, il suo punto di vista, il suo vissuto, per poi farlo nostro e reinventarlo in forma di racconto. La canzone ha un doppio potere evocativo: quella della parola e quello della musica, per questo, mi dice, è un grande “detonatore emotivo”, capace di sollecitare emozioni e resuscitare memorie. Ci vediamo il 20 Dicembre a Officina Letteraria con Elena Mearini.
Pelle. È chiaro al primo sguardo. Non perché l’informazione dai tuoi occhi sia arrivata al cervello, non perché la vista ti abbia realmente informato di qualcosa, niente di tutto questo. Perché si sente e basta, perché la tua carne ha riconosciuto la carne. È un tocco, è conoscenza preverbale. Guardiamoci, sembrano dire. Facciamolo da vicino. Annalisa arriva al nostro appuntamento un po’ trafelata, come avesse fatto la strada di corsa. È lei a riconoscermi per prima. Ci sediamo a un tavolino all’aperto – sono una fumatrice incallita, mi informa – e incominciamo a chiacchierare. Che cosa voglio sapere? Non so. Le curiosità sono tante dopo aver curiosato nel suo sito, ma ogni domanda mi sembra invadente: la lascio parlare. E Annalisa mi racconta di Ettore (ti faccio un esempio, mi dice). C’è un passo dell’Iliade in cui Ettore viene colpito con la lancia da Achille. Ettore è protetto dalla sua armatura, è quasi invulnerabile. Quasi: “…vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte. Qui Achille lo colpì…”. C’è un varco in quell’esoscheletro di bronzo, una fessura che scopre una piccola porzione di pelle. La lancia affonda in quel punto esatto, mi è sembrato di sentire il dolore qui, indica, per molto tempo. Le persone non amano essere guardate da vicino, ma io ne sento l’esigenza. Osservo la mia pelle, quella degli altri, fino a distinguerne i pori Fino a vederci attraverso, penso io, fino a che le pieghe di una mano, le pieghe di pelle di un pugno chiuso, diventano (o tornano ad essere?) un paesaggio che si può abitare. E in quelle cavità che spingono gli occhi nel profondo, risuonano echi di voci perdute, di una vita intrauterina, forse, di cui abbiamo perso il ricordo cosciente, ma non la memoria. Perché la memoria è nel corpo. La memoria è il corpo. Guardiamoci. Facciamolo da vicino. Che cosa sappiamo di noi? Annalisa lavora con la tecnica dell’olio su tela, ci impiega moltissimo a fare un quadro, bisogna aspettare che il colore asciughi per metterne un altro, mi spiega. Utilizza anche fotografia e video, talvolta indagando lo stesso soggetto attraverso tutti questi linguaggi. Mi dicono che faccio troppo, ma capita che una tecnica sia lo studio per un’altra. A volte sono necessari molti linguaggi per dire compiutamente qualcosa. Nella mia testa si formano le parole: cantiere di un corpo. Parliamo della body art, che ha affascinato Annalisa, ma sarebbe volgare adesso, dice. Nel mio lavoro il corpo è mostrato per quello che è, come a dire che non c’è bisogno di un intervento, di una sovrapposizione di segni, perché sia portatore di senso. Lo si può mostrare così, con fascinazione e rispetto. Guardiamoci, facciamolo da vicino, sembrano suggerire. Guardo e recupero il mistero della prima ferita, risento sapore di sangue (pelle graffiata, sbucciata, pelle cambiata milioni di volte). Recupero la memoria prima, del primo contatto (labbra premute, un dito nell’ombelico, un pollice che esplora una bocca tutta nuova). La pelle è l’organo più esteso del nostro corpo, l’unico organo di senso di cui non possiamo fare a meno (mani sul viso, fai piano, mani che ti insegnano a dosare le carezze). Senza pelle non possiamo sopravvivere. Ci protegge, ci espone. Avviciniamo lo sguardo. Non cerchiamo di indovinare, di interpretare. Lasciamoci sentire, abbandoniamo a terra le parole: è stato allora, quando ancora non avevamo un nome per tutte le cose, che ne abbiamo fatto esperienza. Con il tatto, e da vicino. Closer. Closer, di Annalisa Pisoni Cimelli. Presso Officina Letteraria, dal 6 Dicembre al 24 Gennaio
Pubblicato lo scorso ottobre, Codice a sbarre è una raccolta di racconti scritta da otto ospiti della Casa Circondariale Femminile di Empoli e curata da Patrizia Tellini. L’antologia è il risultato finale di un laboratorio di scrittura creativa, in cui le esperienze di vita e le emozioni sono state protagoniste, ideato e curato dalla casa editrice Ibiskos Risolo. Per conoscere meglio questo progetto, abbiamo chiesto un contributo a Graziano Pujia, direttore della Casa Circondariale Femminile di Empoli. Questo il suo intervento per il blog di Officina Letteraria. Il progetto è nato quasi per caso: la d.ssa Risolo (Ibiskos editore) ha letto un’intervista rilasciata da Patrizia Tellini e, spinta dalla curiosità di conoscere il lato femminile del mondo penitenziario, si è recata da me, assieme alla stessa Tellini, per propormi il progetto che avrebbe consentito alle ospiti della struttura che dirigo di raccontare il proprio vissuto detentivo e pre-detentivo. Tra i motivi che mi ha spinto ad aderire al progetto con entusiasmo vi è stata l’idea di contribuire ad abbattere i pregiudizi che la società civile ha nei confronti dell’istituzione carcere. Già, ma in che modo? Ritengo innanzitutto che l’istituzione carcere non si debba considerare istituzione “negata”, nei termini messi ben in evidenza da F. Basaglia negli anni ’60 riferendosi ai manicomi criminali, ma, allo stesso modo, non la si debba considerare istituzione “ultima”, ossia necessaria ma residuale, quasi come a volersene dimenticare, salvo poi interessarsene, solo occasionalmente, in presenza di criticità esplose al di fuori dell’ambiente penitenziario, forse proprio per mancanza delle dovute attenzioni. Per fare ciò occorrerebbe creare continue sinergie, in primis, tra le istituzioni (mi vengono in mente le scuole e il mondo universitario, quest’ultimo finora interessato al mondo penitenziario più come oggetto di analisi che con intenti inclusivi). A tal proposito ritengo sia utile rimarcare l’esempio del progetto “oltre i muri”, che si rinnova ormai da diversi anni, tra il liceo Pontormo di Empoli e il carcere femminile della città, che prevede la preparazione di un’opera teatrale i cui protagonisti/attori sono studenti e detenute, diretti da registi professionisti. È dunque importante creare sinergie con gli enti territoriali (comuni e regioni) affinché affrontino le problematiche penitenziarie con gli stessi stimoli con i quali cercano di risolvere le questioni dei cittadini del territorio di propria competenza. In altri termini, considerare i detenuti al pari dei cittadini, perché tali sono e perché il carcere è soltanto una parentesi della loro vita, alla fine della quale sono “a fortiori” re-immessi nel tessuto sociale, che deve essere pronto ad accoglierli, salvo non si voglia che lo stesso venga nuovamente danneggiato dalla recidiva. Nel contesto sommariamente tracciato svolgono un ruolo di primaria importanza la scrittura e ogni altra forma di creatività (vedi teatro), quali fattori di crescita e di ricerca introspettiva, che aiuti a far emergere la parte migliore di sé; quella parte fino ad allora sopita da desideri “finiti”. Per dirla con Richler: la speranza è che come sono stati grandi nel pensiero (attraverso la scrittura), lo siano anche nelle azioni future. Il ricavato di questo progetto andrà, per espresso desiderio delle autrici e condiviso da Ibiskos editore, al Centro Aiuto Donna Lilith delle Pubbliche Assistenze Riunite di Empoli, che si prende cura di donne che hanno subito violenza di ogni genere. A questo progetto si può contribuire in due modi: acquistando il libro e divulgando l’idea alla base del progetto medesimo. Per acquistare una copia del libro, è possibile contattare la casa editrice Ibiskos all’indirizzo mail segreteria@ibiskoseditricerisolo.it.
Ho avuto il piacere di visitare la redazione di Andersen – Il mondo dell’infanzia, per intervistare la direttrice responsabile Barbara Schiaffino. La sede della rivista è vicinissima a una delle zone più affascinanti e panoramiche di Genova (spianata Castelletto) ed è un posto accogliente, “caldo”, tappezzato di libri: un posto in cui si respira cultura, familiarità, amicizia. La rivista Andersen (oltre che sul sito ufficiale, potete trovare informazioni sulla ricchissima pagina Facebook) è nata nel 1982 ed è l’unico mensile italiano interamente dedicato alla cultura per l’infanzia: grazie alle collaborazioni con esperti internazionali di altissimo livello, negli anni è diventata un punto di riferimento per scuole, biblioteche, lettori, insegnanti, e chiunque si occupi di cultura per l’infanzia e didattica. Il coordinamento redazionale della rivista è affidato a Walter Fochesato e Anselmo Roveda, per Officina “maestro” del laboratorio Oltre le fiabe. Ma Andersen è anche un premio annuale: il più ambito riconoscimento assegnato in Italia agli autori, ai libri, agli editori per ragazzi e ai promotori della lettura. Il premio ha luogo a Genova (dal 2010) a fine maggio, in una cornice di iniziative e incontri in luoghi diversi della città. Non si tratta dell’unico evento curato da Andersen, che nel corso dell’anno collabora in questo senso con enti pubblici, organizzazioni e aziende per mostre, cicli di formazioni e iniziative diverse. Ecco la chiacchierata con Barbara Schiaffino. Come nascono la rivista Andersen e il premio Andersen? Da un bisogno di informazione e da un’intuizione. Nei primi anni ’80 si cominciava a delineare un panorama sempre più ricco di proposte rivolte all’infanzia, articolato in numerose sigle e progetti editoriali che davano voce a nuovi modi e stili con cui scrittori e illustratori rivolgevano le loro storie ai bambini e ai ragazzi. Questo per quanto riguarda l’offerta, ma anche da parte della domanda si stavano manifestando grandi cambiamenti con l’apertura di librerie specializzate e l’istituzione e il consolidamento delle sezioni ragazzi delle biblioteche di pubblica lettura, le prime realtà in Italia a prendersi in carico la promozione della lettura tra i ragazzi. Un mare di nuovi libri e autori, affascinante ma impegnativo da navigare senza un sestante per orientarsi e individuare le rotte del viaggio. Un mare di nuovi libri e autori, affascinante ma impegnativo da navigare senza un sestante per orientarsi e individuare le rotte del viaggio. ANDERSEN è nata con questa missione e continua ancora oggi – mese per mese dalle pagine della rivista e una volta all’anno con le scelte della giuria del premio – a suggerire percorsi, a far conoscere con tempestività le novità più interessanti e mettere in rilievo le qualità espresse dalla letteratura e dall’editoria. Un osservatorio capace di uno sguardo ampio e internazionale, impegnato a raccontare ai lettori del nostro paese quanto accade nella cultura dell’infanzia a tutto tondo. Come è cambiato il mondo dell’editoria da quando hai iniziato a lavorare in questo settore ad oggi? Ho cominciato a metà degli anni ’90, un momento molto fecondo: aumentava il numero di novità proposte dagli editori, nascevano nuovi editori impegnati sul fronte della valorizzazione dell’albo illustrato, cresceva la qualità complessiva della proposta. In questo fiorire, di quantità e di qualità, il settore ha poi trovato, nel volgere di pochi anni, una sua stabilità. Alcuni editori sono nati, altri si sono ritirati, ma il complesso dell’offerta di lettura è rimasto sostanzialmente immutato almeno per tutto il primo decennio del nuovo millennio. Qualche cambiamento, non un vero e proprio arretramento, piuttosto una più oculata gestione dei cataloghi è intervenuta in questi ultimi tre anni di crisi. Discorso diverso per i fenomeni, le mode, le soluzioni editoriali che mutano assai più velocemente, ma questo è comune ad altri settori del libro. Infine, in questo ultimo biennio si è molto parlato di digitale e lettura, ma per quel riguarda i giovani lettori – forse ad esclusione dei cosiddetti young adult – il cartaceo non conosce una messa in discussione pari a quella vissuta da altri segmenti dell’editoria, merito pure del bisogno di spazi per l’illustrazione, non ancora surrogabili nel digitale, e della lettura come esperienza anche “fisica” per i più piccoli. Vedi dei cambiamenti anche dal punto di vista dei “lettori”? Quanto e cosa leggono le nuove generazioni? I lettori godono dell’offerta e della capacità dei mediatori della lettura di porgere loro i libri; in libreria, in biblioteca, a casa e a scuola tutto dipende dall’accessibilità a buone letture, di narrativa e di illustrati. In generale, pur a fronte di fenomeni mass market che coinvolgono soprattutto i lettori occasionali e che non stigmatizzo perché magari rappresentano una prima opportunità d’incontro col libro; in generale, dicevo, esistono giovani e giovanissimi forti lettori che fruiscono dei molti bei libri ogni anno pubblicati in Italia. Di certo, il mercato italiano è un ambito ristretto, basta vedere il numero delle tirature medie che spesso non raggiungono le 2000 copie. Quanto leggono? Le statistiche dicono molto più degli adulti, ma il dato va sempre tarato con la lettura ‘prescritta’. Cosa leggono? Di tutto, certo con picchi e preferenze chiare rivolte ad alcuni fenomeni editoriali perduranti o di moda. Nel primo caso penso ai libri di Geronimo Stilton e compagnia, a quelli di Licia Troisi, alla Schiappa, per certi versi a Harry Potter; nel secondo caso alle molte serie, soprattutto per adolescenti, che hanno indagato paranormale, distopie, vampiri, lupi mannari… Che soluzioni e prospettive vedi per quanto riguarda la crisi del settore editoriale? No comment. O meglio servirebbero un centinaio di pagine… a parte gli scherzi… voglio essere fiduciosa. Spero, e conto, che i prossimi anni portino un po’ di sollievo per tutti, filiera del libro compresa. Tre libri che hai letto da bambina e che ti hanno “accompagnata” nella vita Il primo è stato “Favole al telefono” di Gianni Rodari nell’edizione Einaudi illustrata da Bruno Munari. L’ho sentito mio ancor prima di leggerlo, perché conoscevo già molte di quelle storie che mia mamma, insegnante elementare, mi aveva raccontato con parole sue, facendomi pregustare il sapore del libro: quando mi è arrivato in dono sapevo che era stato scelto
Ha scritto i titoli di testa per La leggenda del pianista sull’oceano e il payoff delle Olimpiadi invernali di Torino. Conosce l’alfabeto arabo e quello latino. Ha esposto in Austria, Germania, Iran, Pakistan e lavorato con i principali brand della moda italiana. Mescola diversi saperi, tra calligrafia, illustrazione e arte. È Visiting Professor presso la NABA e, dal 2011, Presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana. Francesca Biasetton, di tutte queste cose, difficilmente vi parlerà, perché, come molti suoi concittadini genovesi, è una persona riservata cui bisogna estorcere le informazioni (che, più pacificamente, trovate sul suo sito). Capirete, quindi, come quanto leggerete dopo non sia resoconto della classica intervista organizzata via email o al telefono, ma, più che altro, il frutto di un’amichevole chiacchierata. Nei vicoli di Genova, intorno a un tavolo, davanti a un tè. Sappiamo che sei una lettrice forte: che libro hai sul comodino? Dopo anni di escursioni in terra straniera – e in lingua straniera – un classico: Gadda, La cognizione del dolore. Le discipline creative, come calligrafia e scrittura, si possono insegnare? Si può insegnare la tecnica, si possono dare consigli per l’ascolto, ma sentire, in modo personale, è qualcosa che fa parte del nostro essere unici. Scrittura a mano (e corsivo) stanno scomparendo: cosa perderanno le prossime generazioni? Tempo, con l’illusione di averne guadagnato: il tempo dell’immaginazione, dell’apprendimento, del pensare, del progettare. Perderanno la possibilità di tradurre il proprio pensiero in modo personale. Abbiamo (ancora) presente la differenza tra un manoscritto e un testo digitato? La distanza emotiva tra una lettera d’amore e una email d’amore? Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Pensare e scrivere: a mano, a macchina, al PC. Quanto incide il mezzo sul contenuto? Scrivere utilizzando il PC ci ha abituati a pensare velocemente, con la possibilità di cambiare facilmente: copia e incolla, fai e disfa: non esistono più la brutta e la bella copia, distinte una dall’altra. Nel mio lavoro mi occupo di forma piuttosto che di contenuto e so che c’è la possibilità di correggere, cambiare, trasformare quello che è stato creato a mano, una volta acquisito con lo scanner. Ma quando si lavora a un originale non c’è margine d’errore, occorre un’altissima concentrazione. La funzione dell’illustrazione rispetto a un testo: didascalia, supporto o pari dignità? Dipende dal contesto, dall’immagine/illustrazione e da cosa si desidera comunicare. Mi piacciono molto le illustrazioni “sintetiche” che lasciano a chi le guarda ampie possibilità di “completarle”. Viceversa, quando un’immagine è molto descrittiva, ci si può concentrare sui numerosi dettagli, e perdersi. Ci hanno detto che odi le font script: il Times New Roman corpo 11 ti piace? Corpo 10; le font script sono un falso, un vorrei ma non posso, un imbroglio: se si vuole rendere un testo speciale, quindi scritto a mano, perché utilizzare una font che imita questa unicità, senza essere unica? Esistono anche macchine che scrivono “a mano”: il destinatario dovrebbe sentirsi offeso da questa finta “preziosità”. Per anni hai scritto migliaia di parole e, adesso, stai sperimentando l’asemic writing? Di che si tratta, esattamente? Scrittura illeggibile, testo aperto, immagine astratta: mette il fruitore in equilibrio tra leggere e guardare. Per me, che ho seguito un percorso di apprendimento della calligrafia formale, studiando i modelli storici, e professionalmente ho scritto “a comando” per i clienti, è stato uno sviluppo naturale: liberarsi delle forme codificate, del testo e, in un primo tempo, anche dai colori. Rompere le regole, ma solo dopo averle apprese. Qual è l’editore italiano con il format grafico che ti piace di più? Mi piace l’impronunciabile 66thand2nd. E sono nostalgica per il minimalismo di Einaudi. Scriveresti un libro intero? Preferirei fare le figure. Il manoscritto formale, il “buono alla prima”, senza possibilità di sbagliare, non appartiene al mio temperamento. Però potrei fare un manoscritto asemic… Hai scritto su carta, vestiti, mobili, corpi, biciclette: il prossimo obiettivo? Tornare a scrivere sui muri, grandi dimensioni. E poi un desiderio che ho da tempo, lavorare con un danzatore: quando ho iniziato a scrivere in grandi dimensioni è sorto spontaneo questo desiderio, perché scrivere “nello spazio” è una sorta di danza, i movimenti non sono più circoscritti al tavolo da lavoro, diventano ampi; mi piacerebbe “dialogare” con un danzatore. Ma anche disegnare di più, bic su carta. Se potessi scegliere, l’opera di quale autore contemporaneo vorresti illustrare? Thomas Bernhard, vorrei saper rendere quel suo modo di criticare, così ironico e autoironico, incalzante. Mi viene in mente un gioco di negativo/positivo, dove si vede un’immagine che, osservata attentamente, ne rivela altre. Ci fai un autografo? Con la tastiera?
- 1
- 2