Quello che abbiamo scoperto frequentando le maestre delle Scuole dell’Infanzia del Comune di Genova è che vanno sempre a scuola per formarsi su qualcosa di nuovo, si aggiornando di continuo e poi applicano con grande impegno e passione. Dal Laboratorio di formazione sulla narrazione tenuto da Officina Letteraria sono uscite molte storie che le maestre hanno scritto per i loro bambini scegliendo parole e immagini. Ecco un esempio. — Leo di casa in casa. La pioggia ticchetta sulla finestra, grosse gocce scendono lentamente lungo i vetri, grosse lacrime scendono dalle guance della maestra. “Maledetta cipolla!”. La maestra dondola ritmicamente al suono della mezzaluna che batte sul tagliere, a tratti si asciuga gli occhi con la manica sinistra. “Maledetta cipolla!”. La maestra, mentre sminuzza le verdure per il soffritto del ragù pensa ai suoi bambini che, in mattinata a scuola hanno costruito un razzo per arrivare sulla luna e tornare a terra in tempo per il secondo turno del pranzo. “Ci siamo divertiti! ” pensa. Un rumore ovattato, uno “stump, stump” attira la sua attenzione, abbandona la mezzaluna sul lavandino… “Marco sei tu? o ha bussato qualcuno?” Marco con le cuffie in testa si muove per la stanza ad un ritmo che solo lui riesce a sentire. “Stump, stump!”, “Ma da dove viene questo rumore?” Lo sguardo della maestra inizia a viaggiare per la cucina e prosegue per tutta al casa… Un’ombra, una forma sconosciuta dietro il vetro della portafinestra del terrazzo attira la sua attenzione. C’è qualcuno là fuori, alla pioggia e al vento, qualcuno che la maestra non conosce. Apre la porta, uno scroscio di pioggia entra di prepotenza fermandosi sullo scalino: appena fuori, un piccolo personaggio con criniera e ciuffo della coda arancione, gilet e calze verdi, un grosso nasone su cui brillavano due piccoli occhi neri come il carbone, bagnato anzi inzuppato di pioggia, la osservava dal basso all’alto. “Ma tu da dove vieni?”, “Giuseppeee!” (il gabbiano reale amico della maestra che racconta storie che solo chi possiede le ali può conoscere)…”sei tu che mi hai portato questo Piccolino?” Alla domanda risponde solo lo scrosciare della pioggia, nel cielo più grigio del porfido solo nuvole pesanti di pioggia. La maestra accoglie Piccolo, gli prepara un bagno caldo, lo asciuga… “Il soffritto può aspettare e poi non ho voglia di cucinare.” Piccolo tace o forse non conosce la lingua della maestra, ma ormai il senso del dovere le impone di preparare la cena. Piccolo la segue con lo sguardo e lei se lo porta appresso. “Le verdure nel wok sono pronte, vieni che andiamo a scegliere i libri da leggere ai miei bambini a scuola.” Il cielo ha smesso di piangere mentre le ombre della notte avanzano sui tetti della città. Le ultime nuvole si dissolvono scoprendo un cielo illuminato dalla facciona della luna che sorride mostrando tutti i denti del Mare della Tranquillità. Piccolo, scalando la grande Stella di Natale, riesce a raggiungere il davanzale della finestra e non distoglie lo sguardo dal satellite terrestre. Il giorno dopo, nevica. La maestra accompagna i bambini in giardino che con la bocca aperta e la lingua di fuori rincorrono i piccoli fiocchi di neve. Al rientro a casa: “Ti sei annoiato Piccolo? Hai visto la neve? Vieni sul terrazzo. Guarda è bianca, è fredda, presto che si scioglie!” Piccolo sa ascoltare e la maestra gli racconta dei giochi, delle storie, delle facce sorridenti e imbronciate dei suoi bambini, delle risate e dei pianti, dei nasi moccicosi, delle voci che riempiono la testa e il cuore… La mattina successiva, sveglia alle 6.30. La scuola aspetta la maestra per aprire il suo portone verde. “Devo sbrigarmi, Piccolo. Che fai qui dalla porta? Vuoi venire anche tu? Ora non posso, ma ti prometto che domani ti porto con me.” In classe la mattinata trascorre in fretta con il racconto di Piccolo e del suo strano ritrovamento, della sua voglia di venire a scuola, della promessa di portarlo, domani, a conoscere ai bambini. Il pomeriggio in casa della maestra è denso di preparativi. “Piccolo prova ad entrare nella valigia, ci stai? Devo preparare la busta per le foto, forse un quadernino dove scrivere, disegnare… le proprie emozioni.” Trillo della sveglia, sono le 6.30 del grande giorno. Piccolo è già prontissimo. “Andiamo, i bambini ti aspettano.”
Il progetto di Cecilia Campani Ho aggiunto gli ultimi dettagli poco fa, finalmente ho finito il progetto. O almeno, ho finito di disegnarlo. Mi è arrivato l’ordine di costruire una cosa del genere una settimana fa, non ci ho messo neanche tanto. E’ stato difficile capire inizialmente come strutturare la cosa, ma credo di aver trovato il giusto compromesso. Sono delle docce, un po’ particolari. Il profilo della doccia classica è in ceramica, colorato alle volte. Queste le ho dovute fare in metallo: al passaggio del gas non avrebbe retto se no il materiale. Il tubo l’ho di collegamento l’ho fatto sottile mentre il soffione l’ho fatto un po’ più grosso, se no risultava inutile. Il tubo di collegamento dovrebbe proseguire al di sotto del pavimento, non era necessario una piazzola con il buco di scarico quindi l’ho omessa. Prosegue nel pavimento fino alla cabina energetica che lo alimenta. Accanto a essa vi sono i serbatoi: ne ho aggiunti alcuni, magari non bastano. Il resto non era di mio compito ma ho sentito i miei colleghi e dovrebbero aver quasi finito gli ultimi pezzi. Il nome tecnico delle cabine è motori, quello dei serbatoi generatori e le docce le ho nominate scaricatori. Il gas non l’ho scelto, non sta a me tale scelta. E’ stato molto divertente lavorare a questo progetto: uno potrebbe pensare sia una bazzecola per un ingegnere ma non è pr niente così. I primi giorni a ogni aggiunta spuntavano problemi di diverso tipo, sui materiali, la grandezza, l’utilità dei pezzi, la loro posizione. Un lavoro faticoso, molto, ma soddisfacente, molto, ora che l’ho finito. Il capo sarà proprio contento della mia efficienza e velocità. Forse riuscirà anche a togliermi questo dubbio: perché le docce a gas gli servono? Cioè, quelle a acqua lavano, ma queste?
Rom, un uomo di Claudia Badaracco L’estate stava terminando quando in città arrivò una comunità rom. Svernavano nelle periferie urbane, separati da una società di cui non volevano fare parte, ma che poteva fornire un folto pubblico per i loro spettacoli. Ricordo che raggiunsero Trieste una tarda mattinata di inizio settembre. Lavoravo vicino al luogo da loro scelto e vidi che iniziarono subito a montare i loro tendoni. Mi fermai a osservarli. La loro cultura, per quanto diversa dalla mia, mi affascinava. I loro volteggi nell’aria suscitavano in me il desiderio di una leggerezza capace di smorzare le rigidità del mio carattere. Immerso in questi pensieri, soffermai il mio sguardo su una figura in lontananza, asciutta e agile: era certamente un acrobata. Si avvicinò e mi colpì l’espressione pacata, ma sicura di sé che trasmettevano quegli occhi neri e sottili. Mi salutò cortesemente con un cenno. I giorni passavano e arrivammo a scambiare anche qualche parola. Si chiamava Stevan. A poco a poco capii che tutte le tradizioni della sua comunità, dalla musica al viaggio costante, esprimevano un anelito di libertà. La libertà di movimento, tuttavia, era per loro destinata a terminare presto. L’undici settembre, infatti, il governo fascista diede disposizioni per internare tutta la gente come lui, ritenuta “geneticamente criminale”. Dopo qualche giorno non vidi più Stevan né nessuno dei suoi. Vidi che il loro accampamento era deserto e compresi che non erano riusciti a fuggire, ma che erano stati vittime di una legge assurda. Passò un anno e anche a me, oppositore politico, toccò di essere internato. Mi mandarono a Birkenau. Mi spogliarono di tutto. Mi rasarono capelli, barba e peli, tatuarono sulla mia pelle un numero che porto ancora, indelebile. Mi costrinsero a indossare una divisa a righe. Tutto era indistintamente avvolto da una aura grigia di morte. Qualcosa cambiò un giorno. Mi spostarono in una baracca vicino al settore E del campo. E lì, oltre il filo spinato, la vita sembrava diversa. C’era qualcosa che mi era familiare. Vidi che lì erano rinchiusi i Rom e i Sinti. Diversamente dagli settori del campo, lì si trovavano riuniti insieme uomini e donne con i loro figli. Avevano mantenuto i loro abiti e i loro strumenti, con i quali, a dispetto della condizione in cui si trovavano, davano voce alla nostalgia di una libertà che li aveva sempre contraddistinti. Con la loro musica e le loro danze sapevano rimanere in equilibrio in quel mondo letale. Li osservavo e loro sapevano, come un tempo, infondermi il desiderio di una vita diversa. Ma in una notte, tremenda, anche tutto questo finì. Bastarono solo due ore, bastò una decisione di chissà quale pazzo. Improvvisamente sentii cani abbaiare, bambini piangere, donne e uomini strepitare spaventati e poi dolenti. Seguì un silenzio assordante. Il giorno successivo il fumo che usciva dai forni crematori era ancora più nero. Per un attimo il mio pensiero andò a Stevan. Caro mio, nella tua lingua “rom” significa “uomo” e la tua gente non ha mai smesso di esserlo.
di Marcello Mistrangelo I triangoli rosa sono per i pederasti. Ne servono tanti. Si prende una fettuccia già tinta e si taglia in diagonale, prima in un senso e poi nell’altro. Si riprendono poi i bordi perché non si sfilaccino, ma velocemente. Non bisogna perdere tempo, non è alta confezione. Sono solo marchi con cui identificare che veste la divisa. Però è importante la fase di tintura, che il colore sia di qualità e non sbiadisca. Perché giallo è per gli ebrei, rosa per i pederasti, ma rosso per i dissidenti politici. Non deve sbiadire. Un criminale politico non è comunque un sodomita, c’è diversità anche fra i diversi. Il cerchio rosso va cucito dietro, tra le scapole. Identifica chi è stato scoperto a voler scappare. Deve aiutare il soldato di guardia a prendere la mira, se il prigioniero si mettesse a fuggire. Questa commessa ha portato molto lavoro alla sartoria, siamo grate. Era una piccola ditta e la gente ha risparmiato tanto sui vestiti in questi ultimi decenni. Hanno campato a fatica, i padroni, per tenere aperto e riconoscere un po’ di salario a noi operaie. Ripeto, è molto importante la qualità della tintura. Perché nero è per i capi dei prigionieri, marrone per gli zingari. Non è la stessa cosa. Ci sono diversi migliori di altri diversi, in qualche modo. Giallo e blu sono i colori da comprare in maggior quantità, e di buona marca. Perché giallo sono gli ebrei, e blu gli spostati. E sono la maggioranza di coloro a cui danno lavoro, in quei campi.
Grete e Anne di Patrizia Minetto Il Dr. Franz mi deve parlare. Me lo ha mandato a dire da mia madre. E’ più di un medico per noi, un amico, una persona cara. Ha detto che deve parlarmi di una cosa molto importante che riguarda Anne. Ma non so niente di più. Anne è una bambina malata. Ora ha sei anni. Ha un gigantismo cerebrale, così mi dicono. E’ nata grande, troppo grande, con la testa enorme. Non sapevo come fare. Piangevo, piangevo, la guardavo e pensavo che era mostruosa. La baciavo sulla fronte per calmare il suo e il mio pianto. Non ha fatto tutto quello che fanno i bambini della sua età e mai ci riuscirà. Anche Franz me lo ha detto. È ritardata. Poverina. Forse ci sarà qualche notizia per me. Ci spero, ho sentito dire che sono stati aperti dei nuovi centri che studiano le malattie genetiche. La medicina sta facendo passi da gigante. Che emozione! Anche la mia piccola Anne forse è stata scelta per partecipare a questi studi nuovi. Me ne ha parlato la mamma di Frederick, Frieda. Anche lei ha un bambino malato. Ha una malattia diversa da quella di Anne ma anche lui non parla, non capisce proprio tutto. Anche lui, dice Frieda, ha una malattia ereditaria. Mi sono documentata e ho letto che c’è un nuovo filone di studi chiamato eugenetica che si interessa proprio alle malattie ereditarie e che illustri medici incaricati da Hitler in persona, stanno studiando nuove cure. Chissà se anche Anne è stata scelta. Frieda ha acconsentito alla somministrazione di queste nuove cure per suo figlio e mi ha raccontato che sono pericolose. Mi farò spiegare bene dal Dr. Franz quali sono i rischi. Anche un piccolo miglioramento sarebbe meraviglioso per Anne. Piccola mia, la immagino magari giocare con gli altri bambini. Un sogno! Frieda va a trovare Frederick ogni volta che può e so che le è dura stare lontano da lui. Non so se potrei stare lontana da Anne, non ci siamo mai separate, ha bisogno di me. Qualche giorno fa Frieda mi ha detto che Frederick è stato trasferito. Ora è in un altro centro più lontano. L’ho vista molto triste. Mi ha detto che le avevano scritto una lettera ma che ancora non le sapevano dire dove si trovava. La lontananza si può superare se la speranza di una vita migliore per tuo figlio esiste. Sì, posso farcela anche se dovessimo vederci poco per qualche tempo. E poi andrei a trovarla anche fosse in un ospedale più lontano. Sono tanti i bambini che sono stati scelti per ricevere queste nuove cure ma per ora non tutti. Mentre cammino penso a come starei senza Anne e quanta paura se dovesse capitarle qualcosa. Addirittura morire. Mi hanno detto che con queste cure i bambini possono morire. A volte gli devono fare anche una dieta particolare, chiamata dieta E . non so di cosa si tratta ma so che fa parte di questi nuovi metodi che la medicina sta sperimentando. Mentre uso la parola sperimentando mi sento male. Penso che nessun bambino neppure il più malato possa essere trattato come una cavia ma poi penso che tutte le cure nuove, proprio come i vaccini, possono essere pericolosi e all’inizio vengono sperimentati, Si, speriamo che ci sia una speranza anche per Anne. Cammino verso casa e il mio passo, non so perché, sta accelerando e così anche il battito del mio cuore. Il passo si sta trasformando in una corsa. Un brivido mi percorre. Avvicinandomi a casa sento mia madre, mio marito, sento le loro voci. Sono per strada fuori dalla porta. Intravedo le loro sagome ma non vedo quella di Anne. Dov’è ? il cuore in gola, corro sempre più veloce. Anne. L’hanno portata via. Non l’ho salutata, non ho firmato niente. Un foglietto nelle mani di mia madre con il nome dell’ospedale dove la porteranno. Non ho scelto. Non avevo deciso. Volevo sapere. Non avevo deciso. Perdonami bambina mia. Ti troverò. Perdonami .
Ester che ama una donna di Nadia Carì La amo. Ci amiamo. Ci amiamo di un amore che per noi è sincero, ma anche puro. Cosa che non è, oggi, agli occhi del mondo. Ma cosa esiste di più bello, nel creato, dell’amore? E chi lo ha detto che l’unico amore possibile debba essere solo quello tra un uomo e una donna? Se il sentimento dell’amore è proprio di ogni uomo e ogni donna, e ognuno di loro ha nella sua disponibilità quel meraviglioso sentimento, esso può poter essere elargito a qualcun altro che lo ricambi. A chiunque altro. E allora che differenza può mai fare se io, donna, esprimo il mio, verso un’altra donna? E se un’altra donna fa lo stesso, con me? E noi ci amiamo di un amore sincero e puro. Come solo il VERO amore, può essere: PURO E SINCERO. Io, Ester, lesbica ed ebrea. Questo, per il mondo in cui vivo è un binomio inaccettabile. Oh, non è che essere “solo” lesbica, o “solo” ebrea, non sia un problema nel mondo in cui vivo. Il mondo in cui vivo non è il mio mondo.
Ero solo un farmacista di Elena Gallia Ero solo un farmacista, oggi sono criminale Da quel momento divenni responsabile dell’approvvigionamento e della formulazione di nuove preparazioni a base di morfina, scopolamina, luminal e verolan. Mi chiamo Albert Keller, sono nato nel 1901 nel distretto di Wiesbaden. Ho studiato chimica, come mio padre e prima di lui mio nonno, per diventare farmacista e rilevare l’attività di famiglia. Mio fratello maggiore è morto durante la grande guerra, mia sorella è entrata in seminario per divenire suora di clausura, quindi in un certo qual modo sono rimasto l’unico figlio. All’età di sedici anni mi è stata diagnosticata una distrofia della retina all’occhio destro, che mi ha impedito di entrare nell’esercito, fanteria, come è stato per mio fratello. Nel 1924 mi sono sposato e mia moglie ha dato alla luce 4 bellissimi bambini, Alfred, Erich, Helmut e la piccola Annette. Era il 4 marzo del 1936 quando mi venne recapitata a casa una lettera dal Ministero della Sanità, nella quale mi veniva richiesto di prendere servizio presso il centro di Eichberg come responsabile chimico-farmaceutico. Dal 1936 al 1940 la Farmacia Keller venne gestita ad orario ridotto da mia moglie, mentre io tutte le mattine dal lunedì al sabato, timbravo la presenza presso l’Istituto di Salute Pubblica. Dapprima mi venne chiesto di riorganizzare i magazzini, inventariando e trovando nuovo destino ai farmaci scaduti. In un secondo momento mi venne chiesto di firmare un plico di documenti nel quale garantivo segretezza e discrezione circa il mio operato al servizio del governo. Da quel momento divenni responsabile dell’approvvigionamento e della formulazione di nuove preparazioni a base di morfina, scopolamina, luminal e verolan. Ogni settimana arrivavano ricarichi di materia prima, era quindi mio compito saggiarli, stoccarli e via via formularli in mono-somministrazioni iniettabili. Avevo a disposizione un laboratorio non più grande di 12 metri quadri, adiacente a un magazzino grande tre volte tanto. Trascorrevo le mie giornate li dentro, scandite da 4 campane. La prima del mattino all’arrivo del carico. La seconda a distanza di circa tre ore, per il ritiro del primo lotto di siringhe. In 2 ore riuscivo a preparare all’incirca 30 mono dosi. La terza a metà giornata indicava la pausa pranzo. E con l’ultima veniva ritirata la seconda tornata. A quel punto potevo rientrare a casa. Non mi era concesso di parlare con nessuno, non disponevo di nessun collaboratore. Gli stock di monodose pronti all’uso dovevano essere lasciati al suono della campana sul carrello metallico dell’anticamera. Sarebbero stati recapitati pochi minuti dopo da un’infermiera. Per molto tempo non conobbi il destino di quelle fiale. Un giorno chiesi al mio superiore, l’uomo che in origine mi fece firmare le carte, e rispose che l’ospedale aveva aumentato i posti letto accogliendo pazienti in fase terminale. La mattina dovevo entrare dalla porta sul retro, quella dell’ala nord ovest, e dovevo obbligatoriamente accedere al mio laboratorio attraverso le scale interne. Non mi era permesso transitare per i corridoi, accedere ai reparti. Dissero per ragioni di sicurezza e riservatezza. Venni a sapere per caso. Non si accorsero che la porta dell’ultimo bagno in fondo era chiusa e che in quel momento non mi trovavo in laboratorio. Stavano in piedi davanti all’orinatoio con l’uccello tra le mani. – Nelle ultime due settimane abbiamo avuto 32 decessi e nessuno dei genitori può sospettare non si tratti di morte naturale. Quelle iniezioni discrete sono miracolose, la polmonite è salvifica .- Scrollarono l’uccello, chiusero i bottoni e risero come rapaci appagati. Dopo allora ricordo solo la puzza di vomito tra i piedi.
Diversa di Cristina Colombo Bolla Non avrei mai pensato che la mia ribellione giovanile si potesse concretizzare in una stella gialla. “Io sarò diversa” era la mia frase preferita, quella che concludeva la discussione, quando litigavo con i miei genitori e uscivo dalla stanza sbattendo la porta. Ora lo sono davvero – diversa – ma come hanno deciso loro, non come intendevo io. Mi sentivo diversa perché a diciotto anni volevo continuare a studiare invece di accasarmi con un marito scelto dai miei genitori e crescere pargoli. Invece mi hanno detto che non potrò più andare a scuola, nè tantomeno iscrivermi all’università. Mi sentivo diversa perchè avevo cominciato a lavorare come cameriera in un ristorante per guadagnare qualcosa per i miei studi. Invece mi hanno licenziata, perchè il ristorante ora è riservato agli ariani. Mi sentivo diversa perchè alla sera non stavo chiusa in casa a ricamare e pregare come mia madre ma uscivo con i miei amici e andavamo a ballare. Ora non è più possibile. Molti di loro non mi possono più frequentare ed il buio è diventato pericoloso perché questa stella gialla brilla più di quelle nel cielo e rischio di essere aggredita e insultata senza che nessuno muova un dito per difendermi. Volevo essere diversa e ora vorrei solo urlare: “Non mi riconoscete più? Sono sempre io, sono la stessa di prima. Che cosa è cambiato? Che cosa ho fatto di male? Io sono uguale a voi”.
Famiglia mista di Silvia Casaccio Mio marito è di razza ariana, io sono ebrea. Il nostro è un matrimonio misto privilegiato, come lo definiscono loro. Non sono stata costretta ad abbandonare casa né i nostri figli e portare la stella, ma i vicini non ci rivolgono più la parola e siamo isolati. A me non pesa, mi ferisce il comportamento di Frank che mi costringe a stare lontana dalla mia famiglia. “E’ pericoloso, non possiamo fare mosse false” dice lui. Protegge i nostri figli. Frank mi riferisce che al lavoro i colleghi lo ignorano. Li sente parlare della nostra situazione. Lui non ha il coraggio di affrontarli. Non è mai stato un uomo coraggioso e si fa forza attribuendomi delle colpe. Non apertamente ma coi fatti: cenando in silenzio, non guardandomi negli occhi, non sfiorandomi. Sono sempre io! Vorrei gridarglielo ma le parole mi si strozzano in gola e scoppio a piangere. Ottengo così solo il suo biasimo. Avrei dovuto ascoltare mio padre quando mi diceva di non sposarlo “non è l’uomo per te”. Io però ne ero innamorata. Le persone appaiono migliori quando non ci sono criticità. Con mia madre ci scambiamo delle lettere. Le nascondiamo ogni volta in un posto diverso. In ogni nostra corrispondenza c’è l’indicazione di dove si trova il messaggio successivo. Frank non sospetta nulla. I miei genitori se la passano male, sono senza lavoro nonostante siano due medici stimati. Almeno prima. Ora praticano la professione di nascosto e solo per gli ebrei come noi. Sono stati costretti a vendere i quadri e le porcellane per pochi soldi. Patiscono la fame, mia madre è molto dimagrita anche se non lo ammette. I vestiti gli stanno grandi. Potessi abbracciarla, dirle quanto le voglio bene, portarla via dalla Germania. Non esiterei a lasciare tutto e tutti ma il tempo per fuggire ormai è passato, lasciandoci increduli e senza speranze.
La moglie di un soldato tedesco di Sabrina Branchi Franz dice che è giusto, bisogna farlo per il bene della patria, per la nostra Germania. Come ogni mattina gli ho lasciato la divisa pulita sopra il letto. Quando non la indossa sembra diventare un’altra persona, un padre amorevole che gioca ai soldatini insieme a nostro figlio Thomas. Gli racconta che la sua uniforme è magica perché l’aiuta a sconfiggere gli orchi malvagi. Gli è sufficiente metterla indosso per diventare ancor più forte e coraggioso sebbene non sia lui a dettare le regole. È una guardia ubbidiente e responsabile, qualunque gesto o azione gli vengono ordinati di fare procede senza biasimare perché è un bravo soldato e come tale non si fa troppe domande, non ricerca inutili spiegazioni. Deve soltanto agire in un certo modo, in quel modo considerato da chi sta ben al di sopra di lui come l’unica soluzione possibile ed efficace. Thomas lo ammira e vorrebbe poter avere anche lui una divisa dai simili poteri così da diventare ubbidiente quando mi fa arrabbiare. Ogni sera quando torna a casa il mio caro marito mi bacia sulla fronte, accarezza il viso del nostro bambino e poi ci mettiamo a tavola per cenare. Ogni tanto senza che se ne accorga lo osservo e mi viene in mente proprio la sua favola dell’uniforme magica: “Chissà a quante persone quella bocca calda e carnosa che mi bacia alla mattina e alla sera avrà urlato, umiliato e sputato contro? E le sue mani grandi e forti che fa scorrere lungo la mia pelle nei nostri momenti d’intimità quante frustate avranno dato? Quanti individui avranno impiccato? A quanti esseri umani avranno sparato? Non lo so, meglio non sapere; preferisco pensarla anch’io come la fiaba dell’eroe che salva il suo popolo dai mostri cattivi. Adesso sono stanca e per giunta ho mal di piedi per via di quel paio di decolté nuove. Finisco di riassettare la cucina, metto a dormire il mio piccolo e mi distendo sul divano accanto a Franz.
Tra le persiane di Cristina Biglia Jean apre gli occhi nel buio della stanza, un rumore leggero ha attirato la sua attenzione. Il cuore ha un’accelerazione involontaria, i sensi all’erta. Le lunghe notti trascorse abbracciato al fucile con la guancia a riposare sulle pareti fangose della trincea di Somme l’hanno addestrato a percepire anche il più piccolo spostamento all’interno del suo spazio. Una striscia di luce come una lama affilata trapassa le imposte chiuse e gli colpisce la retina, provocandogli un moto di nausea alla bocca dello stomaco. Rivede ancora le esplosioni dietro le palpebre, le schegge incandescenti degli shrapnel come fuochi d’artificio alla festa del paese. Riapre gli occhi, in sottofondo sente l’acciottolio rassicurante della madre che rassetta in cucina, ma c’è qualcos’altro, un rumore nuovo, impercettibile, qualcuno che si muove nella sua stanza. Nessuno deve entrare. Gli amici non sono ammessi, neppure Maria, che passa spesso sotto le sue imposte chiuse, anche se la madre glielo avrà già detto cento volte “Maria trovati un altro giovane, non si può mettere su famiglia con uno così”. Jean non ha rimpianti, ha già deciso tutto, a Maria non ci pensa più. Gli dispiace per lei, se lo vedesse, la smetterebbe di passare lì sotto e di chiamarlo. La sua vita futura gli è molto chiara, non ci saranno sorprese come per gli altri suoi amici, prova quasi pena per loro. Lui sa già che vivrà e morirà in quella stanza. Al buio. Ha scoperto che ci sono dei sotterranei nell’anima, dei sensi vivi in quel che resta del suo corpo. E lì che inizia il suo viaggio, l’esplorazione, è lì che vivrà. La vita come la conosceva prima può rimanere fuori, per lui non esiste più. Ancora quel rumore, simile a un fruscio di vesti, a un frullo, è lì vicino a lui. Si mette seduto puntandosi sui gomiti, si abitua alla penombra della stanza. Il rumore viene dalla finestra. La luce che filtra fra le gelosie verde scuro della persiana si diffonde intorno e lo abbaglia, come un dio prepotente che voglia entrare di forza nella sua stanza. Qualcosa si muove al margine inferiore della persiana chiusa, nella striscia di luce che la separa dal davanzale. Spostandosi nel letto con le braccia, Jean si avvicina: ora le vede, sono le zampette delle rondini, che passeggiano avanti e indietro come sentinelle sul marmo della finestra. In qualche modo, in quel mondo impazzito di guerra là fuori, deve essere tornata la bella stagione. Jean batte le mani, lancia un urlo, vuole cacciarle. Ma le rondini lo ignorano, continuano a disegnare arabeschi di ombra e di luce col loro passeggiare impertinente. Ogni tanto una di loro si stacca dal davanzale, Jean la immagina volare nella vallata, la sente garrire. Dopo il volo tornano sempre alla sua finestra, attratte da qualcosa di misterioso. Non se ne vogliono andare. Gli occhi di Jean si riempiono di lacrime, è come se la vita stessa premesse contro la finestra, e lui con la sola forza delle sue braccia non può più spingerla indietro. Per la prima volta dal suo risveglio in ospedale, scoppia in un pianto disperato, rotto, senza freni. Vede con impietosa chiarezza lo scempio del suo corpo, il lenzuolo vuoto dove un tempo c’erano le sue gambe, il viso da fantasma riflesso nello specchio dell’armadio. Un bussare discreto, sua madre entra con la colazione. Rimane ferma sulla soglia, guardando il viso del figlio bagnato di lacrime. “Vai a chiamare Maria” le dice Jean in un soffio.
Ma cosa sono ‘sti nidi di ragno? di Marco Cassini Giovedì 27 luglio 2017 ore 11. Siamo nella saletta della Biblioteca di Apricale per l’inizio del Laboratorio Estivo di Officina Letteraria “Cercatori di Storie”. Vengono fatte le presentazioni: Alessandra, Angela, Cristina, Clara, Lena ed io (finalmente libero dagli impegni lavorativi che mi avevano impedito di partecipare alle prime quattro precedenti edizioni), la nostra vita in poche parole per conoscerci meglio e legare. Il depliant recita “Da uno spazio, una persona, un oggetto, a un incipit. Cinque scatti per una storia. Una macchina fotografica, è sufficiente quella del cellulare, e un giro per il paese. Ecco i Cercatori di storie. Impressioni visive, intuizioni, emozioni. Quando si entra in uno spazio occorre decifrarlo, Si ‘scatta’ e poi si selezionano le immagini per una storia. All’interno del suggestivo Castello di Apricale, Ester Armanino, scrittrice/architetto, ed Emilia Marasco, scrittrice/docente di Storia dell’arte,, vi racconteranno spazi e figure, vi offriranno informazioni, suggestioni e metodi per scrivere un incipit fulminante per una storia intorno a cinque scatti fotografici, Le storie saranno pubblicate sul sito di Officina Letteraria www.officinaletteraria.com”. Emilia sottolinea che si tratta di un laboratorio, un concept, la meta è possibile ma non sicura. Dovremo cercare, guardare, vedere, osservare, imprimere, saper afferrare un’idea nello spazio fisico e mentale di un borgo, medievale ma vivo. Individuare e cogliere “i segni più deboli del luogo”: un indumento, un’ombra, un tatuaggio, un chiodo arrugginito in un muro, possono diventare protagonisti (la parola muro mi fa balenare l’idea/ricordo dei nidi di ragno). Si prosegue citando Picasso “io non cerco trovo!” Ester ricorda l’approccio che hanno i bambini, curiosità, emozioni, impressioni che andranno finalizzate ad individuare una didascalia, un titolo. Ci viene consegnato il racconto Avventura di un fotografo di Italo Calvino ( immancabile ma per me che combinazione!), sul bancone viene posto Tentativo di esaurire un luogo parigino di Geoges Perec e se ne discute. La situazione mi piace ma forse si parla troppo e ci si distrae. Ore 12,30, ci viene assegnato un breve “compito in classe”: Descrivi il paradiso. “L’aria è frescolina e anche le persone un po’ gelide. Sorridono tutti, Sembra non manchi niente, È soprattutto la musica che ti fa sentir bene. Celestiale. E le luci. Le luci sono allegre. La musica aumenta. L’atmosfera si scalda. Mi faccio coraggio: «Permette signorina?» «Non so ballare!» «Neanch’io!». Cominciò tutto così alla balera “Il Paradiso”. Questo è stato il mio “svolgimento, gli altri tutti più in tema con descrizioni piacevoli, prevalentemente bucoliche, forse per me il Paradiso è troppo lontano, o troppo vicino. Alle 13 pranzo al ristorante A Ciassa : verdure ripiene (mitici i fiori di zucca), insalata mista, minerale e caffè, 10 euro. Breve pausa. Alle 15 si ritorna in biblioteca, conduce Ester che chiede: «Quanto conta per voi il paesaggio?». Ambientazione, spazio, location. Il luogo modifica la storia, deve essere percepito. Bisogna sentirlo, trovarcisi. Geografia, toponomastica, mappe. Il paesaggio è un personaggio. Va osservato, descritto, ascoltato. Bisogna starci dentro con curiosità, esplorare. Lo scrittore sta dove vive e dove costruisce il suo romanzo. Quando scrive deve essere presente. Qui e ora. Con tutti i cinque sensi. I luoghi devono essere visibili e concreti. I dettagli poi fanno la differenza, le parole stesse sono dettagli. Non utilizzare le frasi fatte, i luoghi comuni stonano sempre. Arriva Emilia con uno strano volume 462 idee per scrivere, si tratta di una raccolta di esercizi richiesti dai curatori del testo a scuole di scrittura e scrittori in America. Ci viene consegnato un elenco stilato da Georges Perec con 52 specie di spazi. Dopo una discussione – Emilia ed Ester sono professionali, affascinanti e assistenzievoli – ci viene assegnato un altro breve compito: raccontare un luogo esplorato da bambini. La frase iniziale deve essere “Ho sei anni e sono in…”. “Ho sei anni e sono in chiesa, i miei genitori mi portano spesso qui e ho una certa confidenza con questo ambiente ma oggi ho scoperto una cosa strana, stropicciandomi gli occhi assonnati e lacrimosi sono stato sorpreso da una quantità di raggi luminosi. La semplice luce di una candela se la guardo con gli occhi umidi e come se esplodesse in mille strisce di luce e qui le fonti luminose sono molte, comprese le vetrate su cui batte il sole. Non capisco bene, sono esterrefatto, con i miei occhi e le mie lacrime ho modificato la realtà. Mi perdo nell’esplorazione di questi effetti sfavillanti, non mi rendo conto del tempo e del resto. Poi riapro bene gli occhi, nessuno si è accorto di nulla, torno a seguire la funzione, a respirare l’odore d’incenso, con un po’ di senso di peccato”. Vengono letti tutti i brevi testi, mi viene il dubbio che gli altri siano più avanti; la discussione è sempre interessante, Emilia e Ester sono prodighe di consigli e esortazioni, viene citata Anais Nin “Non si vedono le come sono, si vedono come siamo”. Ore 17: visitiamo il Castello di Apricale, riceviamo gli ultimi consigli, poi ognuno va per i fatti suoi in cerca di immagini su cui costruire una Short Story che costituirà il frutto del nostro laboratorio. Io mi dirigo verso la parte del paese esposta a nord-ovest chiamata Ubagu che significa “a baccìo” cioè all’ombra. Il sole vi arriva solo nei mesi estivi, in inverno è fredda, umida e scivolosa. La gente la evita anche d’estate perché infestata di ortiche, muschio ed erbacce. Per noi bambini era la preferita e lì si svolgevano i nostri accampamenti con capanne e battaglie e dissodamenti, lontano dagli sguardi degli adulti. Lì c’è una viuzza chiusa, senza denominazione, disabitata che, partendo da Via Garibaldi poco sotto la Casa del Boia, si va a frangere sotto l’antica cinta muraria. L’avevamo chiamata Via RuMaSiSà in onore dei quattro bambini che si erano improvvisati esploratori: Rubertin, Marcu, Silvano e Sandro (in ordine crescente di età dai 6 ai 9 anni). Lì mi ritrovo a cercare, dopo 55 anni di assenza, un “segno debole del luogo” soggetto che non avevo mai pensato di
Monet è passato di qui? di Alessandra Agostini Partenza, ci sono riuscita, finalmente ! Ci sono voluti due anni di lavoro ai fianchi, di organizzazione logistica occulta, marito convinto, spesa fatta, casa in ordine perfetto, il mio bisogno di controllo assoluto sulle cose soddisfatto. Nell’animo pero’ e’ tutto un casino, si, proprio un casino, non c’e’ termine piu’ adatto. Non so cosa mi aspetta ma sono come attirata da una calamita gigante. Arrivo. Caldo insopportabile, pochi pensieri coerenti, un’atmosfera d’altri tempi, case appese alla collina, vicoli che, in confronto, quelli di Genova sono autostrade, una fontana che, oltre a promettermi acqua fresca, mi incute un timore che non capisco; forse qualcosa dovuto alla sua storia antica, medioevale. E si, il medioevo, qui ad Apricale la fa da padrone e padrone assoluto e’ il castello. Sono sfinita, voglio vedere la mia stanza, il castello dopo. Solo a guardarlo da fuori mi attira, una specie di Circe, chissa quante persone nei secoli hanno avuto la mia stessa senzazione quasi ingestibile…Che poi a me, ad andare cosi’ indietro nei secoli non piace nemmeno. Entro, spedita dentro un cortile. Strano, non capisco se sono opere di artisti un po’ eccentrici o cose lasciate li’ a caso: una damigiana spogliata dalla sua parte di vimini, una scala di legno nodoso e vissuto, dei vasi anche belli nella loro quieta semplicita’, delle statue quasi avvolte tutte dalle erbacce, forse contente di passare inosservate. Dal cortile mi inoltro all’interno quasi senza accorgemene, fino ad un angolo del sottotetto, vedo un un signore con un barba bianca che, se non fosse luglio, potrei scambiarlo per babbo Natale, e penso anche che sono un po’ stordita dal dal viaggio e dalla calura per fare queste associazioni. Questo signore borbotta in francese, sono sicura, e’ l’unica lingua che ho studiato, e sta spostando con un certa energia quattro cavalletti vuoti e ha appoggiato su un lungo tavolo quattro tele coperte da un drappo. Pittore? Francese? Con la barba? Con un cappotto un po’ retro’ a luglio? Oddio … Cerco di tradurre quel suo parlare sottovoce perche’ non so bene se sono sul pianeta terra e vorrei capirlo. Lo sento, sta dicendo: “parbleu, tutto questo tempo a Bordighera, tre` belle, ma qui, un paradiso. Questo castello e’ unico!”. Scusi signor…Monet ? Forse? Ma cosa dico? Ma cosa sto dicendo ? Ma come, cosa ci fai lei qui? Perdoni la mia invadenza ma credo di avere qualche problema spazio temporale. “Guardi, non conosco i suoi problemi, io mi sento in pace con me stesso, mi hanno chiesto di esporre in questo luogo tres fantastique che non conoscevo ed ho solo l’imbarazzo della scelta per posizionare questi miei dipinti su questi quattro cavalletti.” “Lei cosa dice? Le piacciono queste marine? Dalla vostra riviera ci sono degli scorci impagabili! Se avessi tempo mi fermerei,la veduta dal castello e’ sans egal.” Me oui, me oui…mi ritrovo all’improvviso a parlare francese da sola in una stanza, peer fortuna vuota. Ho un forte mal di testa ma sto sorridendo: un pittore strafamoso, francese, mi rivolge la parola e chiede proprio a me un parere su quattro suoi capolavori! Un colpo di caldo, sicuro.
Le rane raccontano Lena Mohler Avevamo cercato dappertutto. Nei carugi, nelle case e anche nel Castello della lucertola. La cosa strana, era che la rete fosse ancora intatta. Niente danni. Niente strappi da dove avesse potuto fuggire. Dopo un bel po’ di tempo arrivò una bella cartolina dall’estero. Il disegno delicato assomigliava alla contessa di Apricale. Però non c’era scritto niente. Anni dopo, seguì una seconda cartolina. Anche quella volta senza scrittura. Vedendo la foto si capì come fosse fuggita un tempo; attraverso il tombino. Non si era mai più lasciata vedere ad Apricale, la rana che diventò una contessa. Le rane però ne cantano ogni sera. Una bambina ad Apricale Già da piccola mi sentivo una principessa, bella come la contessa di Apricale. Adoravo stare sotto una rete appogiata vicino alla piazza tra I carugi. Da lì, nascosta dal mondo, potevo studiare la vita del paese sensa essere vista da nessuno. Ogni tanto mi lasciavo risucchiare dalla vortice che c’era sotto di me. Non era un vortice vero, ma il disegno di un mosaico. Per me diventava realtà e di là immaginavo di viaggiare in tutto il mondo. Oggi sono cresciuta e faccio I viaggi, di cui ho sognato da bambina. Però non sono sicura se I viaggi di una volta, sognati sotto la rete, risucchiata dalla vortice, non fossero I più belli.
La via di casa di Angela Tenca Mi hanno consigliato di allontanarmi per un po’ dalla città, di vivere in un posto senza scarichi di macchine, con aria pulita e salubre. Né al mare né in montagna. Di fare una vita senza stress e un po’ di moto tutti i giorni, con moderazione. Apricale mi è sembrata la soluzione ideale. Il mio passo rimbomba nella notte del caruggio. Sopra i suoi sassi la mia ombra è ben visibile. Io non sono un fantasma e nessun fantasma mi insegue o mi aspetta dietro l’angolo. Sono tranquilla, serena, mi godo le notti solitarie svegliandomi solo per ascoltare il ritmo del mio cuore. La mia grotta è fresca e asciutta, forse una volta è stata una stalla per qualche animale ora ci dormo io tra queste pietre antiche. Antiche quanto? Chi ha costruito la prima casa di Apricale e perché? Forse dovrei studiare un po’ di storia. E come si sono accatastate le une sulle altre senza crollare mai? Quale geniale architetto riuscirebbe oggi a progettare un siffatto labirinto? Non è una storia questa o forse è una piccola storia d’amore per un posto fino a poco tempo fa sconosciuto ma che ha il magico potere di farmi stare bene. Di non farmi sentire mancanze che altrove sento forti. Devo chinare la testa per entrare nella mia grotta. Pochi centimetri più alta e non potrei starci. Pietre a vista lungo i muri, volte a botte per soffitti. Forse non era una stalla ma una cantina. Il vino è buono da queste parti. La mia ombra nel caruggio, sui ciottoli, mi mostra la via di casa. Oggi ho prolungato la mia passeggiata fino al cimitero. Ho voglia di piangere e mi sembra il luogo ideale per farlo. A quest’ora di pomeriggio di luglio sono sola. Non lo so neanche io perché ma sento che ho bisogno di lacrime. Piccole, tiepide, tranquille. Non lacrime di dolore né di felicità. Forse lacrime di tenerezza per le persone che non ci sono più, il loro ricordo mi commuove. I miei nonni, le mie zie, i miei animali anche. Lacrime di tenerezza per me. Si mi regalo qualche lacrima dolce perché me le merito. Perché nonostante tutto ci sono ancora, contenta di quello che sto facendo e del posto in cui mi trovo e mi meraviglio ogni giorno di essere viva. Anche questo mi commuove. Al mio cuore fa bene stare qui. La via di casa è conosciuta. Vado a letto nella mia grotta, prendo le medicine antirigetto e mi addormento.