Il vecchio musicista – Apricale 2016

Quinto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del vecchio musicista e del barone rampante! Il vecchio musicista (oppure no) e il barone rampante (oppure no) di Paolo Silingardi «Barone, credo che il gatto sia stato oltremodo magnanimo nell’assegnarmi questo compito. Abbiate solo la compiacenza di sfilarvi il guanto in modo che possa osservare l’anello con il sigillo del casato e il mistero sarà subito risolto» «Ma certo! Nonostante l’età il suo cervello è davvero… ahi» la bocca si piega in una smorfia di dolore. «Diavolo, mi sono ferito. Mi era parso in effetti di avvertire un fastidio.» «E’ un taglio.» «Non ho la minima idea di come me lo possa essere procurato» «E il suo anello è sparito.» «Forse sono stato rapinato.» «È quello che intendo scoprire, signor barone. I miei ossequi.» Immerso nei miei pensieri ho abbandonato la cacofonia della piazza per trovare rifugio nella quiete dei vicoli ombrosi. Il gatto ha detto che l’incantesimo colpisce solo i forestieri. Senza dubbio il primo passo è dunque quello di domandare nelle locande. Mi metto quindi in cammino mentre riassumo nella mente le caratteristiche del barone. I vestiti paiono di eccellente fattura, il portamento è nobile, la voce è bassa e impostata. Solo quel barbone nero da brigante stona con il resto, ma vai a sapere come sono adesso le mode dei giovani. Assorto in questi pensieri mi ritrovo infine davanti a una locanda, l’insegna malandata che cigola alla brezza del mattino. Non pare posto adatto a un signore, ma da qualche parte si deve pur cominciare. E poi ho bisogno di andare in bagno e riposare qualche minuto. «Mi hanno detto che in questa locanda alloggia il barone di… di… Mi aiuti bella signorina ché alla mia età la memoria gioca brutti scherzi…» La fanciulla scoppia a ridere così forte che quasi rovescia il mio bianco amaro. Il suo petto sussulta meraviglioso come quello di certi soprani… «Un barone qui. Questa è bella davvero bella» i seni palpitano ancora mentre si curva sul tavolino. «Eppure dovrebbe alloggiare in una locanda come questa, se non erro.» «Voi forestieri in questi giorni… I nobili non alloggiano alla locanda, ma al castello, in cima alla rocca. » Ringrazio allungando una moneta. «Questa è per il vino, per l’informazione e per la grazia delle sue risate.» Mi scocca un bacio sulla tempia e si allontana ancheggiando tra le risa. Metto in tasca un sottobicchiere per ricordarmi della bella cameriera ed esco salutando con un sorriso sornione. Il bianco ghiacciato mi ha un po’ rinfrancato, ma tutte queste scale con gli alti scalini e le pedate irregolari che spezzano il ritmo… Mi tuffo nella garitta del guardiano come in un laghetto gelato. «Il signore è atteso?» «Ma certo! Io sono… Sono Giacomo Puccini!» «Un musicista. È il primo questa settimana» declama il servitore attraversando a passo troppo svelto, l’ampio salone silenzioso. «Tuttavia il barone è assente. Non so quando tornerà. Come ben saprà si tratta di un uomo piuttosto eccentrico» soggiunge quindi in tono confidenziale. Poi indica una sedia e si dilegua. Mi guardo intorno mentre recupero il fiato e le gambe rallentano il tremore. La grande sala colpisce per il silenzio del suo spazio. Un soffitto spiovente in legno, sorretto da robuste capriate, veglia muto sull’aria immobile. La campana rintocca una volta. Poi tace. Passeggio un poco per mantenere attiva la circolazione. Ho bisogno di andare in bagno e ne ho bisogno in fretta. Forse dietro questa porta… In un attimo mi ritrovo nel gabinetto particolare del barone. Alle pareti scaffali ingombri di libri. Al centro un pesante tavolo di quercia ricoperto di faldoni e strumenti musicali. Su un leggio, illuminato dalla luce polverosa, uno spartito scritto a meno: una ballata ingenua, ma orecchiabile. Sgattaiolo via furtivo e in pochi istanti ritrovo sotto i piedi i ciottoli sconnessi dei vicoli. Un cane orina contro un muro, innaffiando incurante un vaso di gerani. Beato lui, penso mentre cerco un angolino appartato per imitarlo. Trovo un anfratto e finalmente mi libero, beandomi del rintocco delle gocce nella piccola pozzanghera che si va formando accanto a quell’altra macchina scura che pare…sì, pare proprio… sangue. Sangue non del tutto asciutto. Accanto altre chiazze più piccole si allontanano fitte lungo il muro perdendosi nel buio. Da una finestra giunge a tratti un fischiettare sommesso. Un gatto nero mi sguscia accanto scomparendo nell’ombra alle mie spalle. Qualche metro più avanti il vicolo termina in una lunga ripidissima scala che conduce a una botola fradicia e rappezzata. Il fischiettare è ora più nitido. Forse qualcuno intento a imbottigliare vino o ad accatastare legna, penso mentre istintivamente riprendo l’arietta in contrappunto e… Un minuto dopo le mie nocche percuotono la porticina con tutta la forza rimasta. «Apra Barone!» «Temo di non esserne in grado» la voce baritonale ha preso il posto del fischio e giunge nitida da dietro la botola. «Sono legato come un salame». Provo a scuotere il portello con uno spintone, ma invano. «Bisogna sollevare il ferro morto, amico mio. Possedete una spada o un pugnale?» Mi viene in mente il sottobicchiere affondato nella tasca. Lo infilo nella fessura facendolo scorrere piano verso l’alto. Al quarto tentativo la botola si apre e quasi precipito all’interno inciampando nel gradino. «Dunque ha riconosciuto la mia ballata. Notevole.» «Penso di aver riconosciuto anche vostro fratello, ora che vi osservo meglio.» «Il mio gemello. Secondogenito per quaranta minuti» sorride il barone massaggiandosi i polsi. «Un usurpatore, dunque. Bisogna dare subito l’allarme. E chiamare un medico per la vostra ferita.» «Calma, amico mio. Io sto benissimo. È stato Rinaldo a ferirsi nel duello di stanotte. Io a quel punto mi sono arreso prima che finissimo per farci male davvero.» «E se vi avesse ucciso?» «Sciocchezze. Ha bisogno di tenermi vivo per estorcermi tutte le informazioni necessarie

“Scrivi con Baricco”: su D di Repubblica il racconto di Laura di Biase

873 racconti in quattro mesi: sono questi i numeri raggiunti dal concorso proposto per i vent’anni di D, in collaborazione con Alessandro Baricco e la Scuola Holden. L’iniziativa. La vicenda iniziale, scritta da Baricco per D, e lasciata in sospeso per essere continuata, ha dato il via a un susseguirsi di storie, ipotesi, immagini. Più di ottocento, tra lettori e lettrici, hanno raccolto la sfida lanciata, e hanno deciso di partecipare, inviando uno o più racconti. L’incipit. La storia iniziava con un lago, e un padre, che porta il figlio a pescare. Poi una telefonata, una donna che risponde “Amore?“ (la stessa che, a casa, attende il rientro del marito e del figlio? Un’altra?). Da quel momento, uno stacco temporale, un salto lungo vent’anni. Cosa è successo, in quel tempo taciuto? Un’allieva di Officina tra i pubblicati. Il concorso ha raggiunto tutta Italia, ed è stato proposto all’interno delle Case Circondariali di San Vittore e Milano Opera. Tra tutti gli elaborati arrivati, ne sono stati selezionati dieci. Migliori per contenuto, forma, creatività, atmosfera. Tra i pubblicati, anche il racconto di Laura di Biase, affezionata allieva di Officina Letteraria. Di seguito potete leggere il racconto di Laura. Leggi l’incipit di Baricco. Sei sempre stato così. Facevi finta di sapere, volevi dire, volevi insegnare. A quel figlio che ti faceva paura. Più del bosco che hai attraversato quella notte. Avevi paura dell’oscurità di tuo padre, che non avevi conosciuto se non nei momenti più bui, quelli che avresti voluto più accesi di luce. Che lui invece spegneva, ogni volta. Ogni volta che ti avvicinavi. Ogni volta che chiedevi. E lo vedevi sempre più lontano. Lontano fino a nascondersi in un ripostiglio che tenevi nell’angolo più inaccessibile della tua mente, del tuo ricordo, seppellito dalle foglie e dagli stracci della vita. Avevi gettato lontano la chiave, che invece era ritornata tra le tue mani quando ti avevo detto di essere incinta. Avevi paura. Pianificavi tutto quello che avresti fatto, che avresti detto. Poi tutto svaniva, la realtà non è i nostri desideri, i nostri piani. È la realtà, dicevi. E così mi avevi telefonato dal lago, quella sera. Avevi freddo e sudavi. Dovevi tornare e non avevi detto niente a tuo figlio. Non avevi detto niente a te stesso, cioè. Volevi dargli forza e sicurezza, sulla vita, essere un grande padre. Ed eri caduto nella trappola. Tutte quelle parole morivano dentro di te prima di uscire fuori. Troppo grandi, troppo pesanti, per un bambino di dieci anni. E la paura ti aveva morso. Una scossa rovente nella pancia. Ti ho sentito respirare, in quel bosco lontano. Neanche a me sei riuscito a dire niente. Un concentrato d’aria usciva dai tuoi polmoni a fatica. Quella che hai tolto a nostro figlio. L’ho capito dopo, quando non sei rientrato e ho chiamato la polizia. Ti hanno ritrovato nel lago. Poi hanno trovato Jimmy. E io ho perso me. Ho perso la luce e l’ombra, il sangue e la carne. L’ho capito dopo, quando non sei rientrato e ho chiamato la polizia. Ti hanno ritrovato nel lago. Poi hanno trovato Jimmy. E io ho perso me. Ho perso la luce e l’ombra, il sangue e la carne. Non ricordo più, dopo. Un buco, una ragnatela di nulla. Così ho preso un martello e ho distrutto tutto. La mia casa, mattone dopo mattone. Il mio corpo, vene, pelle e budella. Ho vomitato, ho asciugato tutto, mi sono seccata. Sono andata in letargo. Ho aspettato. Atteso silenziosa. Che arrivassero i primi segnali, i primi movimenti sotterranei. Che una piccola radice sentendo l’umidità della notte venisse di nuovo fuori. Ed eccomi qui adesso. In questo posto assurdo, alla soglia dei miei cinquant’anni, che sono arrivati così, alba dopo ogni tramonto. Un posto che nessuno sceglierebbe per festeggiare. Infatti non l’ho scelto, è il posto che ha scelto me e mi ha attirata con la sua voce. Una voce fatta di vento e di foglie marce, le foglie ormai cadute da tempo sulla riva di un lago. Laura Di Biase A questo link potete trovare tutti i racconti pubblicati.

Il cavaliere inesistente – Apricale 2016

Quarto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del cavaliere inesistente! Il cavaliere inesistente (oppure no) e il vecchio musicista (oppure no) di Manuela Romeo Non è il gatto parlante a sorprendermi: ne è piena la letteratura. Non è l’austerità della pietra grigia a incutermi soggezione: mi fa sentire a casa. Non è il canto lontano delle rane a turbarmi: di acquitrini sono piene le campagne battute dai cavalieri, la loro nenia mi rasserena. A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono. A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono. Mi trascino in salita tra le case che il tempo ha gettato come per scherzo, a manciate, sui colli intorno a me. Dame e baroni, contadini e artigiani, cavalieri di tutti i tempi devono essere passati di qua. E anch’io, che mi porto addosso il peso di un’armatura che mi schiaccia le ossa che non ho. Dentro questo involucro di ferro che emette suoni striduli, io sono vuoto, disfatto, consistente di niente. Non che io sia frivolo o privo di sostanza e significato: sono un cavaliere ricco di idee e curiosità. Ad esempio un paio di giorni fa, nell’ora del tramonto, proprio qui, davanti alle grandi fontane della piazza, un tale dall’aria misteriosa ha attirato il mio interesse. C’era qualcosa di severo e malinconico nel suo portamento. Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo. Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo. Si guardava intorno, non rideva, né sorrideva, la sua bocca conosceva solo la smorfia del beffardo seduttore. Fingeva premure nei confronti degli occasionali interlocutori ma accendeva uno sguardo che diceva “Che ne sai della mia vita? Sono mica uno qualunque io. Vengo dritto dritto da un set di Hollywood e posso legarti a me in un istante, per la vita, fosse anche per un mio capriccio. Fai bene a temermi, potrei diventare la tua ossessione”. Corteggiava tutte le donne del paese, di tutte le età, ma esibiva con più evidenza una seduzione nei confronti di se stesso, in fondo era innamorato pazzo solo della propria arte. Lo manifestava canticchiando arie d’opera, muovendo le belle dita sul muretto come sulla tastiera di un pianoforte e mimando, occhi chiusi, la direzione di un grande concerto per orchestra. Ce la metteva tutta perché voleva piacere e giocava tutte le sue carte per catturare l’attenzione altrui. Non aveva conquistato la mia simpatia, ma di certo la mia curiosità. Era un personaggio sui cui valeva la pena indagare o che poteva fornirmi indizi utili per fare chiarezza su che cosa facessero un cavaliere inesistente e un vecchio sciupafemmine in un posto come questo. Così, stamani, rieccomi sulla piazza del borgo a fissare il castello sonnolento e la torre col suo orologio severo. Prima o poi, il mio uomo passerà di qua. Il gatto parlante attraversa la piazza senza parlare, mi strizza l’occhio. Che mi legga nel pensiero? Eccolo, il mio uomo, appare all’improvviso come il primo violino di un’orchestra e avanza immaginandosi gli occhi di una platea infinita addosso. “Per caso ha visto vagabondare un gatto nero?”, la voce è chiara, ma non profonda. Che sia un tenore? Mi chiedo. “Da ieri avrò incontrato almeno una decina di gatti, almeno cinque o sei erano neri. Forse lei si sta riferendo a un gatto in particolare, con qualche caratteristica curiosa e insolita?”, chiedo al mio interlocutore che si avvolge in un unico gesto solenne e deciso nel suo anacronistico mantello di raso. “Beh, sì, insomma, trattasi di un gatto speciale, potrei dire magico.” “Ma certo, caro signore, questi, si sa, sono luoghi in cui tanto tempo fa streghe e megere furono perseguitate, processate e massacrate o arse vive sotto gli occhi della folla crudele, bramosa di atrocità e fatti di sangue. Queste creature del demonio, si dice, si sono poi impossessate delle anime dei gatti neri e le hanno moltiplicate nel fluire delle generazioni”. “Già, ma il gatto che cerco io è buono e simpatico” dice “La sola cosa che lo distingue dagli altri gatti è che, se gli gira, ha un mucchio di storie da raccontare.” Il mio uomo ora è sceso dal podio della sua solitudine, si guarda attorno sornione. “Eccolo”, esclama ad un tratto. “E’ quel gattone laggiù, proprio ora sta inarcando la schiena e sta stiracchiandosi. Lo vede?” Avevo bisogno di quel gatto, creatura buona o malvagia che fosse: era l’unico che potesse aiutare sia me, sia il mio nuovo compagno, un vecchio musicista oppure no. Quel diavolo d’un gatto mi passa davanti muovendo le anche come un divo e pretendendo attenzione. “Vuole che lo seguiamo, ci porterà in qualche luogo segreto e magico, vedrai. Dai, andiamo”, non esisto, ma so trovare un timbro di voce convincente, all’occorrenza. Il presunto vecchio musicista sembra non aver notato che sono un’armatura senza uomo, gli sembra normale il vuoto che mi riempie, il niente che mi appartiene. Sa guardare oltre, si vuole fidare di me, perché anche lui ha bisogno di andare in fondo a questo mistero. Ci incamminiamo fianco a fianco, io cigolando lui intonando una qualche melodia, prendendo la salita ripida e disconnessa che conduce in cima al paese, dentro il grappolo di case. Non incontriamo nessuno lungo il sentiero, non udiamo voci, non si aprono porte o persiane. Anche i fantasmi stanno attenti a non essere maldestri, in

La pittrice francese – Apricale 2016

Terzo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto della pittrice francese! La pittrice francese (oppure no) e il cavaliere inesistente (oppure no) di Annalisa Soldà Voici l’histoire. Sono sospesa nell’aria, da questa terrazza si vedono solo le cime delle colline. È un paesaggio diviso a metà. Metà verde e metà azzurro. Mi trovo nel verde di questa tavolozza. Bastarebbe una leggera pennellata verso l’alto… et voilà,un piccolo spostamento del pennello verso l’alto e sconfinerei dove i colori si mescolano, sarei prima in un vert-bleu, poi in un bleu un po’ sporco di verde e poi in un bleu assoluto. Il verde è tutto intorno al paese. Lo abbraccia come una cornice. Mi sporgo dal parapetto di ferro. Guardo giù. In basso è grigio pietra: strade, muri e tetti si confondono. Il sole colora di giallo solo la piazza e gli ombrelloni dei ristoranti. Fra i turisti seduti ai tavolini, una sagoma di ferro con un pennacchio in cima. È un cavaliere rinchiuso in un’armatura. In molti si voltano a guardare, ma nessuno lo ferma per sapere la sua storia. Mon Die! Je dis, se pa possible un chevalier con l’armatura e tutto il resto cosa ci fa qui ad Apricale? Dunq je attend, per vedere come se la cava. Una nuvola fa sparire il sole, la piazza diventa bianca, poi all’improvviso ritorna gialla. Il cavaliere è fermo in mezzo ad una chiazza di sole che si spegne e si riaccende. Decido di capire. Lo raggiungo, è alto come me. Gli dico: “Bonjour. La posso aiutare?” Lui non si muove. Mi avrà sentito? Come arrivano i suoni dentro un elmo? Allungo una mano per bussare sull’armatura. Una voce sottile deformata dal riverbero del ferro che la contiene, mi parla. “Mi perdoni se non mi volto a guardarla ma è difficile per me rimanere in equilibrio, se vado in avanti nessun problema, se mi volto rischio di cadere, può venire davanti all’elmo per cortesia?” Non è il tipo di voce che mi aspettavo da un cavaliere, ma non glielo dico per non sembrare scortese, dato che la cortesia è uno dei valori a cui i cavalieri tengono molto. Sono davanti a lui e muovo una mano per salutarlo. “Ca va bien?” Gli chiedo. “Mah!?!” mi risponde e non dice altro. Lo guardo, so che mi sta guardando. Resto in attesa per qualche minuto, poi di allontanarmi. Mi chiama. “Aspetti. Credo di sì. Di avere bisogno di aiuto. Vede, il mio è un problema singolare.” “Aspetti. Credo di sì. Di avere bisogno di aiuto. Vede, il mio è un problema singolare. So di essere venuto qui mosso da alti ideali, per portare a termine una missione. Ma, ecco, il mio problema è che non ricordo.” “Non ricorda?” “No. Non ricordo la missione.” “E tutto il resto?” “Neppure.” “E il suo nome?” “Nemmeno.” “Bel nome. Se original!” “No. Nemmeno non è il mio nome, o almeno credo, il mio nome non lo ricordo.” “Capisco.” “Davvero?” “Biensure. Ho il suo medesimo problema. Ma dato che non posso far nulla per me vediamo se posso fare qualcosa per lei. Per esempio l’elmo. Potrebbe toglierlo così ci sarebbero più possibilità che qualcuno la riconosca.” “Ho già provato. Non c’è modo.” “Ai ai ai… Mi faccia pensare. Un fabbro. Me ui. Il fabbro se la solution!” “No. No. Non voglio.” “Pourquois?” Ho paura. “Ma non è da lei. Un cavaliere che ha paura di un fabbro?” “Ma non è da lei. Un cavaliere che ha paura di un fabbro?” “Beh, ho paura.” “Se il fabbro non va bene allor, proviamo con qualcos’altro. Qualche elemento che potrebbe aiutarci. Che cos’ha lì?” “Questo?” “No. Non l’alabarda.” “Questo?” “Nemmeno lo scudo. No. Che cos’ha nella mano sinistra? Un manuale? Una mappa?” “No. È un libro. Di poesie.” “Se magnific! Mi fa dare un occhiata?” Lui senza dire nulla allunga il braccio verso di me, io prendo il libro, sposto una sedia e mi accomodo di fronte a lui. La copertina è di cartoncino ruvido di un celeste sbiadito con il titolo scritto a caratteri di colore nero che riproducono una scrittura in corsivo: “Poesie per una sposa” di Augusto Pontini. Lo sfoglio. Una dedica. La leggo ad alta voce: “A te. A nessun altro. Solo a te. Augusto.” Alzo lo sguardo verso il suo elmo e dico: Se Facil! Sei Augusto! “Mmmh… dici?” “Ma sì. Sei Augusto adesso dobbiamo solo capire a chi hai dedicato le poesie in modo che tu possa consegnarle alla tua amata. Era questa la tua missione.” “Ok. Ma come?” “Leggiamo le poesie. Leggo la prima” A volte chiudo gli occhi. I miei pensieri come rondini incrociate in voli sciocchi Il cielo ha il tuo colore Nel celeste, mio amore Si rinnova il mio ardore Nel celeste voglio stare Se tu mi vorrai amare. Chiudo il libro. Penso di avere intuito il nome della donna a cui sono dedicate le poesie. “Celeste.” Gli dico. “Bisogna cercare Celeste.” Mi alzo dalla sedia. Andiamo. Le strade sono strette, percorse dal vento che sale e che scende veloce su e giù. Domandiamo ad uomo che sta giocando a pallapugno: Mi scusi conosce Celeste? Domandiamo a una donna che ha un viso scolpito e un fazzoletto legato in testa. Domandiamo e domandiamo, ma questo paese è un rompicapo, si sale, si scende, si fanno scale, si volta a destra e a sinistra e alla fine a forza di camminare ci si ritrova da dove si è partiti. Inseguiamo il rumore di un tagliaerba, io raggiungo l’uomo e gli domando. Lui mi dice: “Sì, la conosco.” Inseguiamo il rumore di un tagliaerba, io raggiungo l’uomo e gli domando. Lui mi dice: “Sì, la conosco.” Arriviamo ad una porta di legno piccola e bassa come tutte le altre porte del paese. Sopra la porta in

Il bambino americano – Apricale 2016

Secondo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del bambino americano (oppure no)! Il bambino americano (oppure no) e la pittrice francese (oppure no) di Roberta Bracco Un gatto che parla. Wow! Come Puss in Boots di Shrek! Mi chiedo cosa abbiano tanto da preoccuparsi questi tipi assai più strani e incredibili di lui. Certo, qualcosa non torna: dove può essere finita mum? Mi sarò addormentato mentre facevo la conta e lei sarà ancora nascosta da qualche parte? O forse mi avrà iscritto lei a questa specie di caccia al tesoro e salterà fuori solo alla fine? Tanto sono libero, dai! Quasi quasi salgo un pochino sulla fontana, o corro fino agli orti fuori le mura o mi infilo sotto questo tavolo e vado a tirare la coda a quel cane che dorme, così magari trovo anche un compagno per giocare a palla più sveglio di questi. “Nessuno ha qualcosa in contrario, giusto? Forse tu, bella signora dagli occhi azzurri?” Silenzio, lei non mi guarda nemmeno. “Il gatto ha detto che tocca a me trovare la tua storia, ma puoi fidarti sai? Io sono un vero esperto di storie. Conosco a memoria tutti i film di Walt Disney, non potrà essere così difficile trovare una storia per te.” Ancora niente, proprio non c’è verso di smuoverla. “Ehi, mi senti, sono qui in basso, non vedi? – ritento – Non fingere di non vedere che continuo a tirarti questa tua gonna nera, che ti fa sembrare una vecchia. Insomma, ti muovi, per favore? What’s up? Dobbiamo vincere la caccia al tesoro, ti vuoi decidere a darmi la mano? Magari se io trovo la mia mamma finisce persino che tu riesci a trovare il Principe Azzurro e diventi un po’ più felice…” Fa una smorfia terribile. Per un attimo ho paura che voglia uccidermi proprio. Ok, magari provo con una voce un pochino più dolce. “So che non ricordi niente, darling, ma non devi essere triste per questo. Pensa a me, che sono piccino e senza mamma e devo anche occuparmi di te. Preferirei scoprire come ha fatto quella bicicletta ad arrampicarsi fino in cima al campanile. Ma a noi ora tocca stare insieme. Quindi, let’s go. Il gatto ha detto che sei una pittrice francese. Perciò adesso noi ci sediamo a questo tavolino e tu fai un disegno per me. Se ti tira su posso darti un bacio, anche se io, di solito, non le bacio mica le ragazze!” Si scosta brusca ma alla fine mi segue e dice qualcosa che non capisco, in una lingua che però ha un suono dolcissimo. Magari salterà fuori che questa tipa è una sirena e mi toccherà pure riportarla al mare. Si mette al lavoro in silenzio e poi mi allunga un foglio. Sussurra ancora qualche parola con quella sua voce che sembra far le fusa, non so perché, mi fa stropicciare tutta la faccia. Quando mi riprendo, Quando ha finito guardo il disegno e non mi piace: ha fatto solo case arrampicate con forme strambe, buie come i suoi vestiti. ”Non puoi fare qualcosa di meglio? Non c’è nessun colore qui!” Mi sa che devo averla offesa perché di colpo si mette a piangere e mi allontana “Laisse-moi tranquille! Non sai di cosa parli… Io… ho perduto tutti i miei colori…!” “Cosa vuol dire perduti? You mean che non li trovi più?” Non mi risponde. La tiro forte per un braccio, per convincerla ad alzarsi. Devo trovare un modo, comunque. Non può esistere una pittrice felice senza colori. “Stop crying, my friend! Ti aiuterò io a trovare i tuoi colori!” Mi prende per mano, finalmente: questo è il momento di insistere. “Vieni, muoviamoci di qui. Ho appena visto un passaggio segreto che ci porterà velocemente oltre queste case grigie di pietra, in un posto coloratissimo. Inizieremo a cercare da lì. Dammi la mano e non avere paura. È una via stretta e c’è puzza di pipì di gatto, ma tu sei magra e ci passi.” Quando siamo dall’altra parte, le chiedo come fa la gente, secondo lei, a vivere in questo posto così piccolo senza McDonald’s, centri commerciali e neppure una gelateria. Mi sa che non capisce e non mi ascolta neanche: fissa i tetti delle case come se non fossero tutti uguali. Anyway, mi sa che sta cominciando a sentirsi una vera pittrice: si è fermata a disegnare ancora. “Fa’ vedere un po’? Bello, questo! Wow! Sempre un po’ scuro, ma I love very much quella buffa casetta con mulino. La conosci?” “Peut-etre”, sussurra, e sembra perplessa. Intanto, eccoci fuori dalle mura. Finalmente un po’ di colori. “Ci arrampichiamo su quell’albicocco lassù per vedere le rondini?”, propongo, ma lei non mi pare affatto convinta. Corro ad arrampicarmi – se non altro per mettere qualcosa nello stomaco, visto che lei a mangiare non ci pensa proprio – quando mi accorgo di qualcosa di strano. “Un momento, guarda, non noti niente? Confronta il tuo disegno con questo angolo qui! Se provi a immaginare la tua casa piccina al posto di quest’albero, il luogo che hai disegnato è lo stesso. I tetti delle case vicine combaciano perfettamente, isn’t it? Non è che vivevi qui? Ma la casa che era al centro del disegno dov’è finita? Presto, dammi una mano a scendere. Dobbiamo rientrare in paese e chiedere notizie della casetta mulino. Sento che è la strada giusta, trust me.” Rotolo a tutta velocità giù dal sentiero e mi infilo nella prima casa che vedo. Sono fortunato: trovo due vecchietti che di certo devono abitare qui da tanto tempo. “Scusate, siete di Apricale? Sapete dirmi se un tempo laggiù c’era una casetta con mulino?” “Certo, bambino”, mi risponde gentile il signore, abbassando il giornale, “una casa abbandonata da prima che tu nascessi, però. È andata distrutta qualche anno fa,

Il gatto magico… oppure no! – Apricale 2016

Ecco il primo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016: la cornice che abbiamo preparato per le storie dei partecipanti ad un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del gatto magico… oppure no! Il gatto magico… oppure no! I pavimenti di pietra non sono tutti uguali, eh no. Possono essere grigi, o bianchi, o neri. Possono essere lisci e rifiniti, o rustici, o colorati. Vi sfido a trovare due pavimenti di pietra identici. Vanto una certa esperienza in materia e vi garantisco una cosa: comunque sia fatto, un pavimento di pietra non è MAI un letto comodo. Uno poi si adatta, per carità, io dormo persino sui cornicioni all’occorrenza. Non sono un gatto schizzinoso. Ma nove umani addormentati per terra, in cerchio, non sono uno spettacolo che capita tutti i giorni. Stavo tornando dalla caccia notturna e sono rimasto a bocca aperta: talmente aperta che la lucertola mi è scappata. Mi sono affrettato a miagolarle dietro “vai, cara, oggi mi sento magnanimo!”, perché non si sparga la voce che sono un pasticcione, e poi mi sono acciambellato su un gradino a leccarmi le zampe. “Sento odore di bella storia. Vediamo un po’ che hanno combinato questi nove elementi…” Beh, ho aspettato a lungo: si sono svegliati che il sole era già alto, massaggiandosi le ossa doloranti. Uno dopo l’altro si sono messi a sedere e a portare in giro per la piazza nove sguardi smarriti. Sono balzato in mezzo al cerchio con l’aria di chi la sa lunga: “dormito bene, signori? Abbiamo alzato un po’ il gomito ieri sera, eh?” Una donna si è coperta la mano con la bocca mugolando: “oh mio Dio, un gatto che parla!” E qualcun altro: “un gatto magico!” E io: “…oppure no! Vi prego, signori, sono solo un normale gatto parlante. Niente di eccezionale, da queste parti. Anche il mio francese è discreto, se preferite…” Mi hanno fissato tutti e nove sbigottiti, come se non avessero mai visto un gatto parlante. Mi veniva da sbattere la coda dal nervoso. Capite, questi dormono per strada come i gatti, ma guai se un gatto parla come un uomo, sacrilegio! Due pesi e due misure, come sempre. “Voi, piuttosto. Voi chi diavolo siete?” Un altro lungo silenzio. “Miao? Un miao vi mette più a vostro agio? MIAO! Vi ho chiesto i vostri nomi! Che c’è, il gatto vi ha mangiato la lingua?” Quelli restavano zitti, e ho sentito ridacchiare dal muro di pietra la lucertola che mi era sfuggita. La mia immagine rischiava di venire decisamente compromessa dall’insubordinazione di quegli umani cafoni. Ho soffiato all’aria e sono tornato con un balzo sul gradino, pronto ad alzare i tacchi, quando uno di loro, un bambino con un forte accento straniero, ha preso la parola. “Non lo sow, chi sowno, I swear.” Gli ha fatto eco una seconda voce: “nemmeno io.” “Nemmeno io.” “Nemmeno io.” Tutti hanno alzato la mano, come a scuola, guardandosi l’un l’altro con aria interrogativa. Ecco. Perfetto. Non solo quei nove derelitti mi avevano fatto scappare la colazione, ma non avevano neanche una bella storia da raccontare! Ho sbuffato con impazienza. “Ma sì, state tranquilli. Ho capito. È la solita, noiosissima, amnesia del 3 di luglio. Mi ero scordato che giorno fosse.” “L’amnesia del 3 di luglio? Di che parli, gatto?”, ha chiesto una giovane. “ANCORA? Ancora nel 2016 il Comune di Apricale non avvisa i turisti della maledizione?” “…maledizione?” “La maledizione, maledizione, andiamo! È dal 1300 che i forestieri che si trovano ad Apricale il 3 di luglio perdono la memoria. È storia vecchia. E ancora a nessuno viene in mente di diffondere un comunicato stampa, chessò, di mettere un volantino. Turisti, tornate a visitarci domani, che se entrate nel borgo oggi vi va in pappa il cervello, una roba così.” “Ma parbleu, come è possibile? Chi ha lanciato una maledizione del genere, e perché mai?” “Senta, signorina, io sono solo un gatto parlante. Non ho le risposte a tutte le domande. E comunque nel 1300 non ero ancora nato, grazie tante. È semplicemente così. Una stupidaggine qualsiasi, credo. Qualche menestrello di passaggio che ha spezzato il cuore alla strega sbagliata. Vai a sapere. Ora, se volete scusarmi, lo stomaco brontola…”, ho concluso lanciando uno sguardo minaccioso alla lucertola irriverente. “Aspetta, gatto! Aiutaci, per favore. Come facciamo a recuperare la memoria?” “Lo sanno tutti. Dovete stanarla in paese, aiutandovi l’un l’altro. Nessuno può ritrovare la sua memoria da sé: bisogna che vi mettiate alla ricerca della memoria di qualcun altro. Ah, importantissimo: dovete riuscirci prima che il sole tramonti l’8 di luglio.” “Perché, che succede l’8 di luglio?” “Succede che o vi ricordate chi siete allora, o potete salutare per sempre i vostri ricordi. Tutto chiaro?” I nove a quel punto mi hanno riproposto la loro performance preferita: fissarmi in silenzio con aria grave. Fantastico. Ho deciso di perdere altri cinque minuti ad aiutarli perché vi giuro, erano il peggior caso di amnesia del 3 di luglio che avessi mai visto. “Ok. Dovreste ricordare qualcosa. Qualcosa di vago. In senso orario, prendete la parola e provate a darmi almeno un indizio… Può aiutare il compagno che cercherà la vostra memoria per Apricale.” Ha cominciato il bambino: “Absolutely nothing, davvero.” L’ho liquidato in fretta. “Ok, diciamo che sei un bambino. Sembri americano, dall’accento. Sarai un bambino americano, oppure no.” La giovane donna ha ammesso, timidamente: “forse je suis un’artista. Dipingo. Forse.” “Perfetto. Una pittrice francese. Oppure no. Avanti il prossimo.” Un omone dall’aria affranta ha scrollato le spalle: “Non ne ho idea. Ti direi un cavaliere, ma la situazione è talmente assurda che mi viene da dubitare della mia stessa esistenza.” “Va bene. Diciamo che sei il cavaliere inesistente. Oppure no.” L’anziano alla sua sinistra ha preso la parola con un colpo di tosse: “Musicista. Sono quasi sicuro di essere un musicista.” “Il

Prima o poi entrerò nel cuore del mondo – Marco Usai

di Marco Usai, racconto vincitore del concorso di Officina Letteraria “Prima o poi entrerò nel cuore del mondo” era la frase che si era fatto tatuare l’estate della maturità. Parole ad effetto poco sopra le natiche, un’esca a caratteri gotici da aggiungere al piercing al sopracciglio che incorniciava lo sguardo scuro, fermo. Anche quando sorrideva, per lo più se in compagnia di qualche bella biondina glitterata, ad Alex restava appiccicato agli occhi qualcosa di malinconico. Mi faceva pensare a “Boys don’t cry”, con quel sound triste-allegro, tipo “vita innegabilmente amara ma stiamo quieti che così deve essere”.  Insomma era un viveur con qualcosa di rotto dentro. Probabile che nei momenti felici gli capitasse di inciampare nel ricordo del fratello. Gli aveva insegnato i rudimenti dello stare al mondo per poi abbandonarlo senza neppure un ciao. Gente molto legata nonostante la differenza di età, con la stessa frase impressa sulla pelle, come uno stargate per l’aldilà, o forse un memo sul giungere al nocciolo di quel frutto succoso che la vita può essere solo a vent’anni. C’è chi pensava fosse solo un buffone esibizionista Alex, io credo che semplicemente provasse a seguire quel dettame lasciatogli in eredità. Certe sere s’impossessava di lui una follia gaudente e rabbiosa che a stargli accanto la vita poteva sembrare un gioco infinito. Passavamo nottate a esplorare stradine deserte, mentre la città dormiva rubavamo caschi e specchietti per rivenderli a pochi euro. Mi sentivo libero mentre gli facevo da spalla nell’ennesima rissa che  scatenava per futili motivi, eravamo immortali anche nel tornare a casa con il viso segnato o mentre improvvisavamo un rally nelle mulattiere sopra Genova a bordo dell’auto sottratta a chissà quale schiavo sfortunato. Eravamo i sovrani di un mondo popolato da comparse in bianco e nero, in noi l’anarchia assumeva un significato più di stomaco che d’idea, eravamo i soli ad esser vivi… Fino a che mio padre non perse il lavoro. Quella che sarebbe dovuta essere la mia estate indimenticabile divenne quella in cui appresi le regole del giogo. Trovai impiego in un discount in periferia, la mia vita venne scandita da turni e pause caffè, pranzi cronometrati e anima scherzata da frustrati dalla vita. Era brutto ma era necessario, lavoravo molte ore e molte non mi erano pagate ma non c’era altra via. Avevo perso le ali e il mondo intorno perdeva colore, uscivo sempre meno spesso, la stanchezza veniva a riscuotere il suo conto. Alex era sempre lo stesso cercava, il cuore del mondo mentre io sistemavo scatolette. Mi veniva spesso a trovare e mi piaceva vedere come fosse ancora indomito, lui che non aveva crucci. Non lo invidiavo, era lo stendardo della mia anima sopita e adoravo quando rispondeva maleducatamente a miei superiori che mi bistrattavano nelle tediose ore salariate. Era un potenziale cliente, poteva tutto e mi tributava indirette rappresaglie che non tardarono a ritorcersi contro di me. Dovetti dirgli di non tornare a trovarmi a lavoro, la prese a male e non lo vidi più neppure fuori. I giorni passavano tutti uguali, lavoravo sempre, unica nota positiva di quei mesi fu la notizia del furto a danno del gran capo. Lo avevano alleggerito della sua moto da sogno, giusto mentre era parcheggiata sotto il discount. Una sera uscii dopo mesi di ascetismo forzato, mi sentivo spaesato ma risi di gusto quando sotto casa trovai Alex in sella a quella stessa moto. La usava da settimane come fosse sua. Mi disse che si vive davvero solo intorno ai duecento orari o facendosi una tipa diversa ogni sera. Che io stavo al mondo come un morto. Sorrideva, sembrava volermi martoriare ma aveva gli occhi tristi, forse era ferito, forse si sentiva abbandonato. Non lo vidi più. Una mattina grigia d’autunno lessi un trafiletto che parlava di lui. Aveva perso il controllo di quella bestia da cento cavalli fuggendo dalla polizia. Mi piace pensare che abbia avuto un’estate indimenticabile, che almeno lui abbia vissuto il cuore del mondo che sogno ogni mattina.

FINALISTI del concorso “Prima o poi entrerò nel cuore del mondo”

Ecco i cinque racconti finalisti! Votate il vostro preferito per mezzo di un like alla foto corrispondente sulla pagina Facebook di Officina entro le ore 12:00 del 10 settembre 2016. L’autore o l’autrice del racconto con il maggior numero di voti vincerà un’iscrizione gratuita al Laboratorio di Primo livello “Grammatica delle Storie” 2016/17. Gli altri quattro finalisti potranno invece usufruire dello sconto del 15% sul costo del Laboratorio. Grazie ai numerosi partecipanti e all’amico Alberto Casiraghy per averci ispirato con il suo incipit. Buona lettura! “Ora di buio su un pianeta intraprendente” (Giulia Badano) Prima o poi entrerò nel cuore del mondo, ma lasciate almeno che mi presenti, così che la mia speranza a tinte fosche e amare abbia il privilegio dell’identità. Sono rinata circa quattro miliardi di anni fa dopo un’esplosione cosmica che ha sconvolto tutto. Non ho memoria di cosa fossi prima, probabilmente un pianeta come adesso, abitata da altri organismi che mi hanno amata e odiata fino al nebuloso collasso. Nella lenta ma costante dilatazione dell’universo ho vagato per lunghi eoni del tempo, senza meta, senza soluzione, in guisa di particella abbandonata a sé stessa ad oscillare per exametri indefiniti. Vita dura, quella della particella. I più massicci residui di materiale cosmico ti prendono a spallate per accaparrarsi il posto ritenuto migliore a loro unica discrezione, senza riuscire ad ammettere di essere più confusi di me. In realtà, in un mare di polveri bollenti, avevamo tutti perso l’orientamento e lo scopo della nostra esistenza, quale che fosse. E’ stato durante questa situazione di profonda incertezza e smarrimento che ho perso particelle a cui sentivo di voler bene. Annichilite dal calore infernale, hanno varcato la linea congelata e abbracciato il ghiaccio, scoprendo quanto quell’elemento possa essere magnifico e terribile e bastare di per sé. Una di loro si è guadagnata il nome di Nettuno. Dal canto mio, vagabonda errante e solitaria, non ho saputo scegliermi un angolo di universo senza prima chiedermi cosa volessi diventare. Ho impiegato meno tempo del previsto: qualche millennio, per sfiorare l’idea della completezza delle forme e dei climi. Nelle infinite pieghe del cosmo ho incontrato un granello brillante, circondato da un alone di argentata luce riflessa e discreta, con cui ho deciso di trascorrere il resto della mia esistenza a tre passi dalla nuova Fiamma che ci intiepidiva senza bruciarci. Io e il granello abbiamo trovato il nostro posto nello stesso isolato e cominciato a formarci al ritmo scandito dai suoi sorrisi un po’ sghembi, un po’ malinconici, dalle sue forme ciclicamente tonde, sbeccate, consumate, frizzanti, stanche. Crescendo accompagnata dai suoi umori mutevoli, ho dato forma all’esistenza, ho partorito terre e mari, ho innalzato montagne spruzzandole di neve, ho sguinzagliato il vento, ho addensato le nuvole e liberato il fulmine, ho rinfocolato il mio cuore con fluidi incandescenti e l’ho protetto avvolgendolo in mantelli solidi e compatti. Ho eretto templi ombrosi con radici, tronchi e rami, ho soffiato la sabbia su vaste distese di deserti ostili, ho generato microrganismi e vegliato sulla loro costante evoluzione. Anche sulla vostra. Così nudi. Senza denti aguzzi né artigli, senza ali per volare né branchie per immergersi, avete costruito armi, inventato scafandri per le profondità abissali e uccelli di ferro per solcare i cieli. Io ho amato la vostra astuzia, ho ammirato il vostro ingegno, ma ho sofferto nel vedervi ergervi a padroni miei e di voi stessi. Ho pianto lacrime di pioggia, mentre i vulcani hanno rovesciato la mia collera rovente. Mi sono spezzata gridando di dolore sotto scosse di terremoti violenti. Ho provato a vegliare su di voi, e quante vite ho visto accendersi e spegnersi, quanti passi ho sostenuto. Ma quante ruote, e chiglie, e rotaie, e trivelle e bombe mi hanno segnata. Quanto sangue ho dovuto bere e nascondere, quant’acqua ho dovuto accogliere per sentirmi pulita. Non so come faccio a essere così stanca e paziente, come sopporto di essere stata divisa in confini, tagliata da muri, frazionata da recinti e cancelli, a perdonare l’arroganza che vi rende indifferenti a ciò che calpestate. Prima o poi entrerò nel cuore del mondo, nel vostro cuore, e ricambierete l’amore che vi ho offerto senza pretese. Ma forse sarà tardi. Prima o poi vi guarderete indietro, e nella triste desolazione che avrete lasciato scoprirete l’impronta indelebile delle vostre colpe. “Orfeo ed Euridice” (Ilaria Carrozzo) Prima o poi entrerò nel cuore del mondo. “Si inizia scavando”, mi dicesti, seduta di fronte a me al tavolo della cucina, palpebre calde, girasoli al tramonto, il profumo di una bambina, le mani tese sopra la tovaglia ruvida come un’anziana cartomante, mostrandomi  le unghie, tanto gialle da sembrare l’escrescenza dell’osso. Io cominciai da ragazza, grattando la porta di casa, impaziente di uscire come un cane d’appartamento, scattando fuori con una violenza nuova, la stessa di chi calpesta i gradini per raggiungere il proprio sedile in cima allo stadio. Le dita galleggiavano nell’aria, confuse, in attesa di impulsi. Fissavo atomi annoiati e scintillanti muoversi davanti alle pupille come nubili sospiranti a una festa. “Graffia le persone, i muri, le strade”. Le sillabe si attaccavano tra loro, mescolandosi, il tuo profilo era quello di una madre determinata che parlava con la voce di chi ha fumato l’ansia di essere schiacciata dal corpo morto di una vita che non ha mai sentito sua. Raggiungevo la scuola con l’energia rumorosa di un’onda, mi abbattevo su fiori che volevano essere forti, felpe e camicette orgogliose, ricordo che avevano profumi invincibili. Incidevo lettere sui banchi e li osservavo, rumorosi come canoni in una cattedrale durante una messa di Natale. “Lascia segni su tutto quello che vedi, solleva la superficie, delicatamente, come la corteccia di un albero, poi ruba un pezzetto dell’anima, sbriciolalo sui polpastrelli e usalo per tracciare il tuo rifugio, fuori di qui, perché in fondo scappare è trovare il proprio posto nel mondo, il tuo centro, il suo cuore, pulsante e chiassoso, rumore di zoccoli che ti porta via”, i tuoi occhi grandi, alieni, iridi blu scure ricordavano notti d’agosto sull’asfalto umido, ombre che

La giornata di Donatella

di Sonia Vespa Non serve più puntare la sveglia alla sera. Ormai Donatella si alza molto prima della suoneria, malgrado l’ora di coricarsi sia  sempre spostata più in là. Non basta struccarsi, spogliarsi, prendere il libro, accendere l’abat-jour e sprofondare nella lettura che ti accompagna al sonno: si devono ancora controllare gli zaini delle bambine, la merenda, appendere i grembiuli in fondo ai letti, piegare i vestiti, preparare quelli puliti per l’indomani. Intanto Maurizio guarda la TV , legge il giornale, si addormenta sul divano. Lui può. Lei deve ancora finire di cucinare il sugo per lasciarlo pronto alle bambine domani. Lo sguardo cade sulla mensola impolverata. Non ce la fa stasera a togliere la polvere, dovrebbe farlo Irina, cosa la paga a fare? I libri di scuola sono tutti sottosopra. Sono disordinate come lei le sue figlie, non hanno preso dal padre. È ordinato lui, ma non mette mai in ordine la stanza delle bambine; Irina fa quello che può, e più di una volta alla settimana non se la possono permettere. Ed è inutile discutere con Dalia e Laurina: le risponderebbero che hanno preso da lei. Donatella, però, aveva una mamma casalinga che sistemava tutto prima che lei e la sorella tornassero da scuola, che, anzi, non voleva neppure essere aiutata, perché come per  sua madre e sua nonna, la casa era compito di una donna. Il sugo si sta attaccando alla pentola, se l’è dimenticato mentre finisce di stirare le camicie per la trasferta di  Maurizio. Un’altra trasferta di lavoro che comporterà per lei  andare, dopo l’ufficio, a prendere Dalia al maneggio e Laurina a pattinaggio, unici compiti di Maurizio, fermarsi a fare la spesa nel supermercato che chiude alle 21, approfittare del viaggio in auto per chiacchierare un po’ con le figlie, sempre che non stiano litigando tra loro. A Maurizio non soddisfa come stira le sue camicie Irina né la lavanderia, dovrà accontentarsi di come le sa piegare Donatella, senza naturalmente ringraziarla. Tutto dovuto,  a lui e alle bambine. Non voleva finire come sua madre, ma è così, solo che in più lei ha anche otto ore di ufficio e due di tragitto. Laurea in ingegneria e mansioni da segretaria.  Preferisce non pensare alle illusioni di quando era studentessa, quando credeva nella parità dei sessi, nella realizzazione professionale. Dalia non si addormenta senza chiamarla almeno tre volte. Ormai Donatella non si corica prima che sua figlia abbia completato le sue richieste: ho sete, non riesco a dormire, ripassiamo la lezione… Mai grazie mamma, solo capricci, alzate di spalle, pretese arroganti. Laurina è altrettanto capricciosa, ma almeno alla sera crolla e ha sempre dormito da sola. Congela il sugo per tutta la settimana, pulisce i fornelli, sistema velocemente la cucina, porta l’acqua a Delia che sta urlando: allora, mamma arriva quest’acqua?, mentre pensa che il domani sarà migliore, le figlie cresceranno, lei sarà più libera, meno stanca, magari riprenderà a viaggiare come faceva prima di conoscere Maurizio. L’orologio di cucina segna quasi le 23. Manca un’ora al giorno nuovo. Non è per l’insonnia che non dormirà stanotte, è per il discorso che si dovrà preparare mentalmente da fare al capo, domani, dopo aver respinto per l’ultima volta le sua avances: Queste sono le mie dimissioni, la nostra ditta rivale mi ha cercato più volte e oggi ho detto sì. Aumento di stipendio, vicinanza a casa, riconoscimento del mio ruolo, e il capo è una donna.

Un lunedì qualunque

di Michela Traverso   Ancora a occhi chiusi, mentre la mia mano cerca sotto le coperte quella di mio marito, la mente si accende prima del secondo perentorio richiamo della sveglia e visualizza i fogli dell’agenda. La giornata ha inizio. Mi alzo, mi tolgo il pigiama, mi soffermo un istante di fronte allo specchio: il solito corpo ogni mattino diverso, né meglio né peggio, plasmato da un nuovo giorno. Vado in cucina, preparo la colazione e “drinnnn”, terzo e ultimo squillo della sveglia. Ancora a occhi chiusi, mio marito si accomoda a tavola, con una fumante tazza di tè, biscotti, miele e marmellata ad accoglierlo, mentre io sorseggio un limone spremuto, rimedio a tutti i mali o almeno me ne convinco. Il sapore aspro mi fa tremare, ma sono orgogliosa della mia costanza, allontanando a dopo il secondo step: una fettina di zenzero crudo. Dicono sia un antidolorifico naturale, sicuramente è fuoco vivo in bocca nei secondi necessari per masticarlo e ingurgitarlo. Sono due momenti che definisco al limite del “masochismo” tipico femminile. Mi siedo a fianco a lui e comincio la mia vita “sociale”: parlo, domando, come risposta ottengo mugolii e sbadigli. Dopo circa dieci minuti il mio monologo si trasforma lentamente in un dialogo. Dopo un bacio benaugurale a mio marito e riassettata casa, esco.  Come ogni giorno, affronto l’incubo mattutino: “Traverso, ho le orate in offerta, la rana pescatrice a un prezzo speciale, acciughe nostrane…” Con l’immagine del congelatore strabordante di pesce davanti agli occhi, declino cortesemente l’ invito, maledicendo il giorno in cui mi sono lasciata affascinare da due occhiate fresche. Da quella mattina è sempre la stessa “scenetta” tra le risate dei passanti e i “mugugni” del pescivendolo, deluso dai miei inevitabili  “alla prossima”. Parte così l’avventura della spesa: il giro turistico tra offerte convenienti o truffe indorate, tra bancarelle e negozi. Già carica di sacchetti e sacchettini, alle 9:30 mi concedo una sosta: una tazza di ginseng, una lettura annoiata del quotidiano in dotazione al bar e l’inizio della ricerca “del” lavoro o meglio “ di un” lavoro. Consulto le mail dal cellulare, leggo le offerte sempre più originali, valuto corsi e concorsi, esaminando le competenze richieste esplicitamente e quelle celate tra una parola e un’altra. Prima, cerchi in base alle tue esigenze e, infine, ti plasmi in relazione alle proposte: mi ritrovo così a indossare vestiti troppo corti o troppo stretti o di altri, ma provo comunque. Mi trascrivo sull’agenda mail, numeri telefonici, indirizzi a cui inviare i miei variegati curriculum vitae: “il lavoro della ricerca del lavoro”. Sono inserita nelle “Liste di collocamento mirato” e con una percentuale di invalidità sono stata classificata, inquadrata e per un breve momento ho sentito “garantiti i miei diritti”. Poi ti scontri con la realtà: cerchi le inserzioni specifiche per la tua collocazione e scopri che sono richiesti “inabili perfettamente abili”. Con il solito sconforto post-ricerca, la lista di mail da inviare e le telefonate da fare, torno a casa e mi siedo di fronte al pc con il telefono vicino, candidandomi per l’uno o l’altro annuncio. Esco nuovamente e proseguo le tappe mattutine: posta, banca, assicurazione. Ogni giorno uffici diversi  ma volti uguali con la stessa maschera di falsa cortesia e di reale insofferenza. Terminata la dose di pazienza mattutina, rientro a casa con il solito bus stracolmo, riesco comunque a trovare un angolo in cui incastrarmi e proseguire la lettura di un nuovo libro: terapia  necessaria per ossigenare la mente dall’inquinamento giornaliero dell’anima. Dopo un po’ scopro di aver già superato la mia fermata: pazienza. Varco la porta di casa, evitando vicini bramosi di sparlare dell’uno e dell’altro, e torno di fronte al pc per consultare la posta elettronica: a parte pubblicità o spam, nessuna risposta. Mi preparo il pranzo, organizzo la cena, invio ancora qualche messaggio, faccio le ultime telefonate, arriva così il primo pomeriggio ed è ora di riuscire. Già stremata e con la testa in confusione, inizia la seconda fase della giornata: il mio pomeriggio pseudo-lavorativo. Sono le 14:30,  parto per la Val Bisagno per poi spostarmi in Val Polcevera. Da due anni, in attesa di un vero impiego, mi destreggio con ripetizioni a chiunque me lo chieda. Così trascorro i miei pomeriggi a casa dell’uno e dell’altro, passando da esercizi elementari di matematica alla discussione di funzioni logaritmiche, dall’organizzazione sociale degli antichi egizi ai moti del ’48. Anche se considerarlo lavoro è una battuta comica, è un impegno gratificante. Arriva il tardo pomeriggio. Sono in metropolitana, la mente vaga ed ecco idee confuse si trasformano in possibili incipit per nuove storie. Scrivere è il mio hobby rigenerante, capace di mantenermi psicologicamente stabile, almeno all’apparenza. Estraggo l’agenda, una penna e inizio a cercare una pagina ancora libera a sufficienza per lasciare che una nuova storia prenda forma. Questi sono i miei venti minuti di “Yoga mentale”: libero la mente, riordino i pensieri e alleggerisco le tensioni del giorno. Arrivo a casa, stanca ma rigenerata “dalla mia terapia”, pronta ad affrontare l’ultima parte della giornata. Mi libero dai vestiti e dalla maschera quotidiana e, con un abbigliamento comodo, mi preparo ad accogliere mio marito, di fronte a una tavola “imbandita”. Ancora una controllata alle mail, una lettura veloce alle notizie on-line e spengo ogni contatto con l’esterno: ora è il Nostro momento. Sento la chiave nella toppa: è arrivato! Ceniamo tra aggiornamenti sulla giornata trascorsa, commenti sull’ennesima puntata di Star Trek  e ci coccoliamo con un buon bicchiere di vino per apprezzare ulteriormente queste ultime ore di un lunedì qualunque. Dopo cena ci corichiamo sul divano ad aspettare che inizi uno speciale di Dario Fo sul Caravaggio.  Lui si addormenta, mentre ci coccoliamo. Continuo ad accarezzargli la testa appoggiata sulle mie gambe e a seguire il programma. Ben presto però il suono ritmico del suo respiro mi accompagna in un lento torpore. Dopo un tempo indefinito, ci svegliamo quel minimo indispensabile per raggiungere il letto, coricarci abbracciati e riprendere il nostro viaggio nel mondo dei sogni, con l’augurio di svegliarci l’indomani

“Lacci Mattutini”: racconto di Marta Traverso.

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “Lacci Mattutini” un racconto di Marta Traverso. Piove. Ho fretta. Sono così nervosa che ho scordato di mettere lo zucchero nel caffè. Riunione alle 9.30 e chissà quanto dura, psicoterapeuta alle 12.45, dentista alle 16. Magari dovrei pranzare, in mezzo a tutti questo? Potrei mangiare una brioche per strada, al volo, mentre ritorno in ufficio. Se smette di piovere, che brioche e borsa e ombrello e ho solo due mani. Aspetta, però, ne avevo un’altra da fare oggi… cos’è che mi ha chiesto Alessio, mentre stavo uscendo… mettere a posto il file, il file di… ma perché non mi viene… sempre così fa, mi vede infilare il cappotto e chissà come mai gli torna in mente una cosa assolutamente da fare entro ieri. Perché tutto oggi deve succedere? Ho una lista di cose da fare che si srotola come una pergamena, finisce che ci inciampo sopra. Cioè, non ho una lista delle cose da fare, non in senso materiale, ma se ne avessi una, la prima cosa che scriverei è di compilare tutte le mattine una nuova lista delle cose da fare, invece di sforzarmi (tutte le mattine) a ricordarle una per una sotto la doccia, e spremo così tanto la testa che alla fine metto il balsamo sulla spugna e il bagnoschiuma nei capelli. La mia testa, sì. Se dovessi disegnarla sarebbe un fazzoletto con tanti nodi, tutto allacciato e avviluppato su se stesso, un nodo per ogni cosa che devo tenere a mente. Una nuvola di post it immaginari tenuti insieme da laccetti colorati. Che poi, a dirla tutta, i lacci sono una gran perdita di tempo. Mi sveglio alle 6 e riesco comunque a uscire in ritardo: colpa dei lacci. Come, non la sai? Quella dei tre lacci mattutini, l’incubo di noi donne un po’ casual e sbadate? Numero uno: i laccetti del reggiseno. Una passa l’infanzia a sognare che le crescano le tette, e poi al primo impatto con il reggiseno è un disastro. Soprattutto se non ha mai fatto le prove con uno di sua mamma. Troppe azioni in contemporanea: metti entrambe le mani dietro la schiena, tienilo fermo che non scappi, inarca testa e collo più che puoi, guarda allo specchio a vedere se almeno una linguetta la infili giusta, e quando infili le successive bada bene che la prima non ti scappi. Finché ho potuto, ho chiesto che mi comprassero reggiseni senza laccetti, quelli che si infilano dall’alto. Una figata. Poi le tette mi sono cresciute davvero, ed è iniziato il dramma. Numero due: le scarpe. Lo confesso, ho la manualità di un chilo di pastafrolla. Ho imparato ad allacciarle quando avevo i piedi così lunghi che non fabbricavano più scarpe con lo strap del mio numero. Nove anni o giù di lì. Ero già nella ribellione preadolescenziale in cui rifiutavo di indossare le ballerine, troppo da femmina. Solo scarpe da tennis, possibilmente Lelli Kelly con la suola che si illumina di rosso. La trafila nodo-gassa-doppio nodo ve la risparmio, che ci metto di più a ripeterla che a farla. Tre: hai presente i cumuli di spazzatura che “oggi non ne ho voglia, la butto domani” finché non diventano montagne e la cucina è pervasa di un odore impronunciabile? E hai presente quando, per spendere meno, hai comprato i sacchetti dell’immondizia con quei fastidiosi laccetti che penzolano sul fondo, che devi strappare e poi annodare tipo fiocco regalo, e premere perché esca fuori l’aria, e di quella volta che tua madre di ha raccontato che la cugina dell’amica di una sua amica si era dimenticata che il sacchetto era pieno di scatolette di tonno, e ha premuto troppo forte e la sua mano destra non ha fatto una bella fine? Che m’importa, dirai. Io sono nata mancina. Se anche la mano destra si spezza in due con un colpo di latta, non è una tragedia.

“La vasca”: racconto di C.T.

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “La vasca” un racconto di C.T. La vasca da bagno è una coperta concava in cui depositare parti del mio corpo che ancora sento rimbombare di eco. Le picchietto con indice e medio, come si fa con le pareti di cartongesso, come farebbe un medico in cerca di qualcosa che non va. Loro emettono quella che è la conferma ai miei dubbi: ci sono ancora molti vuoti dentro di me. L’acqua calda e questa vasca servono a questo. È quasi automatica e abbastanza scontata l’immagine dell’utero che mi attraversa i pensieri. Questa vasca da bagno mi contiene, costruisce intorno a me le pareti che da sola non sono ancora brava ad alzare. Utero.  Abbasso la sguardo e osservo il mio corpo sotto la trasparenza dell’acqua che ho deciso di non mischiare al sapone: la volevo così, come una lente di ingrandimento attraverso cui scrutarmi. Ci sono i fianchi, mai abbastanza stretti come li vorrei. Le braccia lunghe e magre. Le mani affusolate. I polsi. Le caviglie. Le gambe respirano felici nello spazio fluttuante e, nello stesso tempo, ben definito, in cui le lascio galleggiare. E dentro alla mia pancia, lui: l’utero. Quello che non so se userò mai. Non lo so. Perché finché continuo ad avere bisogno della vasca da bagno, non so se è il caso. La verità è che, per ora, mi sento più simile a materia contenuta che a contenitore. Sono cose a cui penso, ultimamente. Ultimamente vedo certe pance tendersi su corpi di ragazze che conosco. Non le mie amiche, no. Loro sono come me, stanno ancora cercando troppe cose per pensare di essere già arrivate. La pensiamo così oggi, prima dobbiamo cercare. C’è tempo. O forse per noi ce ne vuole di più, perché tutto, oggi, è più complicato. Ho sentito dire che adesso l’età media delle partorienti è sui trentotto. Non so se è vero. Mi giro a pancia in giù. Credo che la questione si possa mettere in questi termini: il mondo oggi è bello collegato, aperto, spazioso per certi versi. Ma anche bello spaventoso. A volte fantastico di essere una donna del milleottocento. Una di quelle che studiava a casa, ricamava sui fazzoletti, si sposava e passava direttamente dalla tutela paterna a quella maritale, fine della storia. Altro che cercare la propria strada. È quasi mezzanotte. Infilo la testa sotto l’acqua, spalanco la bocca: la materia liquida è subito pronta ad invadere il mio spazio interno. Io chiudo gli occhi e le urlo contro, sprigionando decine di punti interrogativi sotto forma di bolle d’aria. Se non lo faccio credo che la tensione sarà troppo alta e che stanotte non riuscirò a dormire. Il prezzo sarà qualche capillare rotto intorno agli occhi a causa dello sforzo fatto per buttare fuori tutte le particelle di ossigeno che prima erano dentro. Durante il processo di espulsione, guardo in faccia quel futuro che mi fa tanta paura. Lui si materializza in immagini velocissime e spintonanti. La laurea, la ricerca del lavoro, le case condivise, le amiche partite, quelle rimaste. La testa riemerge e aspira aria e poi di nuovo sotto, sotto a chi tocca: comprare il pane ogni giorno in una lingua che non è la mia, sapere che appena parlerò, nonostante tutti i miei sforzi, gli altri capiranno che vengo da un altro paese, che sono vulnerabile. Un altro vuoto, un altro respiro e un altro urlo: le storie interrotte perché mi dispiace, ma Berlino è troppo lontana e io non so nemmeno in quale parte del mondo sarò nei prossimi tre anni. Le amiche partite, le amiche perse. La spesa tutte le sere, che se non ci pensi da sola stai certa che morirai di fame. E poi i rumori nuovi della tua nuova casa, i soldi dell’affitto, i soldi chiesti ai tuoi, il numero dell’idraulico. La domanda chi sono?, la risposta ho paura. Di cosa ho paura? Di diventare me stessa e nello stesso tempo di non diventarlo. Di non diventare nessuno. E poi ho paura di Parigi, ma anche di Milano. Della febbre alta e nessuno che ti compri le medicine. Delle domeniche pomeriggio. Della neve. Di stare sola con me. Sola. Con me. Ecco, il vortice di bolle trasparenti e di fantasmi ha raggiunto l’apice. Ora c’è silenzio. Avvolta dalla quiete, svelta, allungo un braccio, afferro l’asciugamano e mi alzo da quell’acqua pericolosa. Dentro di lei adesso nuotano, come tanti piccoli squali, quei miei pensieri dai denti appuntiti. Ne esco fuori. Inizio ad asciugarmi. So già che stanotte dormirò, perché ho guardato in faccia il drago da cui sono scappata tutto il giorno, a partire da questa mattina, quando mi sono svegliata. Ho fatto il caffè. Mi sono vestita. Infilata il casco a cavallo dell’avambraccio. Tirata dietro la porta. Girato i giri, tre, della

“Una giornata così”: racconto di Miria Cresci

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti “Una giornata così” un racconto di Miria Cresci. Guardo i numeri rossi nel buio: le 05:50. Ancora tempo per un piccolo sogno prima di entrare nella realtà . Realtà di suoni, di rumori che, nel fine settimana, arrivano più rari e lontani, mentre aggiorno la scheda mentale sulla giornata. Accendo la radio, la mia transizione fra sonno e veglia. L’immersione nelle notizie é interesse, dipendenza, necessità di uscire preparata. La finestra si apre sul cielo che,  nuvoloso o chiaro, influenza l’abbigliamento come la temperatura. – Il tuo è un freddo introitato, una convinzione – ha detto Nella. Sarà anche vero ma ho rinunciato a sfidarlo, vince sempre. Un po’ di restauri, vestizione rapida poi via, seguendo gli impegni della giornata. Non sempre energia positiva, anche avvii difficili e nervosi in cui banalmente decidere come vestirsi é una sfida, senza voglia di parlare o vedere alcunché, tantomeno uno specchio. Gli specchi riflettono sempre più di quanto vorremmo. Oggi palestra per un paio d’ore. Più bello correre nel verde ma nessun parco è disponibile però, un  tapis roulant con vista sulle chiome degli alberi aiuta. Ho imparato a restringere l’obiettivo sulla porzione da salvare, il resto è escluso, finchè riesco. Nel pomeriggio corso di inglese che seguo puntualmente e abbandono alla dimenticanza appena le lezioni finiscono. Mi sgrido ma persevero giurando che cambierò. Passo dal mercato. Girare fra i banchi colorati è un  piacere visivo che il supermercato non dà. Poi a casa, seguendo l’ispirazione sopraggiunta o regolandomi sulle scorte, a preparare il pranzo. Cucinare è creativo, mi rilassa, che sia una sperimentazione nuova o qualcosa che preparo da sempre. Mattinate festive invernali piovose e fredde cambiano colore in un impasto morbido che prelude a una torta salata o si dimenticano tritando frutta secca e affettando mele per la preparazione dello strudel. Oggi spaghetti con bottarga, profumati e veloci. Telefono che squilla, più antipatico quando sto per scolare gli spaghetti, ma essendo spesso fuori chiamano a quest’ora. Del resto anche al ristorante parli a tavola, ha detto un’amica. È vero… mi adeguo. In agenda ho segnato una conferenza che mi interessa e dopo inglese posso arrivare in tempo. Sarebbe più produttivo incanalare tempo e attenzione su poche direttive o una direzione principale, ma da sempre sono incuriosita e interessata a tanti argomenti . Pieno, vuoto. Riempire lo spazio per abitudine, per aiuto, perché il vuoto non si carichi d’ombra. Una giornata per muoversi, parlare, ascoltare, leggere, mettere la testa in qualcosa e nascondere che è sempre più facile camminare sul tappeto che…farlo volare.

“L’attesa”: racconto di Giovanna Olivari

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti.  “L’attesa” un racconto di Giovanna Olivari L’attesa.  È l’emozione più emozionante. Uno stato magico. L’attesa. Di qualsiasi cosa. Comunque vada. Dell’amore, per esempio. Lo costruisci, giorno dopo giorno. Messaggi, foto, parole, telefonate, lettere, pensieri, allusioni. E se poi l’altro risponde e sta al gioco… Che emozione! “Castellaria” mi chiama la mia amica Anna.  Embè? Mi costruisco castelli in aria. E allora?  Intanto io, Castellaria, ho vissuto una settimana a Marciana in uno stato di grazia. Mi sono goduta quello che comunque avevo, ed era già molto. Natura, affetti,  amici, figlio, nuora, casa, terrazza, radici.    Le mie radici. Il mio mare. I miei profumi. Alloro, rosmarino, nepitella, giuderba, menta, basilico…. La mia isola. E intanto costruivo il sogno, con pacatezza, con meticolosità, gesto dopo gesto, parola dopo parola, osando sempre un po’ di più, col fiato in sospeso attendendo la risposta, e su quella frenando o accelerando, di volta in volta. Così costruivo il sogno e la dolcezza mi riempiva il cuore.  Che importa che succederà quando tornerò, quando lo rivedrò, dal vero! Innamorarsi con il tumore. Innamorarsi con un cancro in seno, con la morte nel cuore, e nel cuore l’amore. – Lo fai – mi dicevano le amiche –  per spostare la tua attenzione, per nasconderti la paura, uno struzzo, anche stavolta, di fronte a una cosa grave come il tumore, per scongiurare la paura della morte, della chemio, della radio, dell’intervento, dell’anestesia, della tetta ferita, deturpata… Oddio! Ho un inizio di morte nella tetta, e io sto a pensare a quanta me ne  toglieranno, a come la rovineranno!  – Signora, non si preoccupi!  Ne ha così tanta!- Il professor Friedman, il chirurgo,  sorride con ironia e tenerezza alle mie insistenti richieste su “quanta me ne toglierà?”. Bell’uomo, sulla sessantina, alto, snello, capelli folti, bianchi, sicuro, deciso, si muove da padrone. Mi conosce. È già intervenuto, otto anni fa, su quella stessa tetta, a prelevare un “granello”, ma era negativo. Sospetto, quello sì, ma negativo. Da togliere, per sicurezza, quello sì, ma negativo. Oggi ha faticato pure lui a trovare, dall’esterno, il punto che aveva inciso a suo tempo.  Seno integro, pelle liscia, uniforme, come prima. Ottimo lavoro, suo e del suo assistente che ha “cucito”. – Punti “sansevero”, estetici –  mi aveva assicurato. Gliene sono grata. – Insieme al sorriso, il seno, adeguatamente sostenuto e supportato, è il meglio di me. – Sorrido con civetteria, dicendoglielo.  Mi guarda. Non capisco se con stupore o compassione. Forse non può immaginare che alla mia età sono tornata ragazza e ho voglia d’amore, anche fisico, e che mi sto di nuovo innamorando, e che di quel seno grande, morbido, liscio, ne ho bisogno più che mai.

Pelle: racconto di Andrea Fabiani

di Andrea Fabiani Racconto terzo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli. È luglio, l’aria è umida e calda. L’autobus è affollato, l’aria condizionata rotta. Un anziano sale a bordo e dal fondo si lamenta a voce alta dei trasporti pubblici. Lui alza per un attimo la testa da libro che sta leggendo, poi la riabbassa subito. A lei dà soltanto un’occhiata distratta. Nota gli auricolari bianchi che le scendono dalle orecchie. Non sa quando si sia seduta lì accanto. Quando l’autobus riparte lei si appoggia a lui. Indossa una canottiera verde, lui una maglietta a maniche corte: la pelle delle loro braccia aderisce per un istante. Entrambi si ritraggono come punti da una spina, si risistemano sui sedili in modo da essere ognuno nel proprio spazio. Lo fanno senza dirsi nulla, senza voltarsi. Alla fermata successiva accade di nuovo. Lui si ritira, ma meno di prima, stringe semplicemente il braccio contro il costato, sente la punta del proprio gomito premergli sulla pancia. Lei non si muove. La sua pelle è calda, a quella distanza lui riesce a percepirlo distintamente. È una sensazione imbarazzante. Lo spazio che li separa è una gola stretta. Se poi l’autobus ha uno scossone quello spazio si riduce ancora e oltre al calore lui avverte un leggero solletico, piccoli peli invisibili lo accarezzano, strappandogli un brivido. Allora contrae maggiormente i muscoli del braccio e della schiena. Il libro che ha in mano non lo legge più, è concentrato solo sulla difesa della loro distanza. Persevera in questa resistenza per una decina di minuti, poi la spalla e la schiena cominciano a fargli male. Allora rilassa il braccio, che scivola fino a quello di lei. L’aria tra le loro pelli diminuisce, scivola via finché non c’è più. La gola si chiude, aderiscono uno all’altra. Che si sposti lei, pensa. Lei però non si sposta. Anzi, comincia a esercitare una leggera pressione così che la zona di contatto dei loro corpi, lentamente, aumenta. Lui sgrana gli occhi. È sorpreso da quel comportamento, ma ancor più da quanto sia dolce la sensazione di calore che si irradia da lei. Si chiede chi sia quella donna, cos’abbia la sua pelle. Non può vederla in volto. Potrebbe voltarsi, ma non vuole farlo. Ha paura che se lo facesse lei semplicemente si scuserebbe. Allora si scuserebbe anche lui e tra le loro pelli si formerebbe una barriera sottile, ma invalicabile, la pellicola della realtà. Mentre fa questi pensieri, senza rendersene conto, anche lui ha iniziato a spingere il proprio braccio verso l’esterno. La loro superficie di contatto aumenta ancora. Aumenta il calore. Ora ognuno dei due preme la propria pelle contro la pelle dell’altro, senza guardarlo, continuando a fingere di fare quello che stava facendo prima. Nessuno nell’autobus si accorge di niente. Avvicinandosi al capolinea i passeggeri diminuiscono, le strade si fanno periferiche, meno trafficate, più sconnesse. Sarebbero dovuti già scendere entrambi da alcune fermate. Prima lui e poco dopo lei. Ma hanno scelto di restare sull’autobus, seduti, attaccati, pelle a pelle, a gustare quell’imprevisto incontro dei loro confini. Ad ogni buca, curva, frenata sentono la loro zona di contatto modificarsi, aumentare, rimpicciolirsi, farsi di nuovo punto, nuovamente allargarsi in un lago. A volte si staccano e un refolo d’aria si insinua tra loro. Allora ritrovarsi è un sollievo. È un sollievo sentire le loro pelli che si premono, strusciano, si deformano, forse sono una soltanto. Non importa più dove stanno andando, non importa più chi siano. Importa solo il punto d’intersezione delle loro cellule e la percezione chiara che sotto quel punto, invisibile a tutti, perfino a loro stessi, scorre e si tende, e si muove tutta un’intera vita. Al capolinea l’autobus apre le porte e spegne il motore, scendono tutti. L’autista recupera la giacca e esce dal posto di guida, guardando verso l’interno. Scuote la testa, infila la giacca, poi scende anche lui. Loro sono ancora lì, seduti vicini, attaccati. Si guardano adesso e sorridono.