Caro Dottor Jekyll: racconto di Michele De Negri

di Michele De Negri Racconto secondo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli. Caro Dottor Jekyll, ti scrivo la mia prima lettera; la prima di mio pugno. Questa non la potrai bruciare, come fai con le altre che ti inventi. Siamo fogli di carta, Henry, e la pelle è la nostra busta. Siamo lettere in perenne consegna; oppure ne abbiamo una sola, e mai più una risposta dall’altrove. Questa è la sera in cui consegno il mio messaggio, perché sento che tra poco non ci sarò più. Sparirò, come scrivi tu. Così questa notte resto nello studio; rinuncio ad andare a donne, a picchiare i gentiluomini. E tu sai quanto questo mi costi. Ma rinuncio, per scrivere al mio caro Harry la prima e ultima lettera. La mano sinistra.  Mi sono spogliato dei tuoi vestiti larghi e cadenti, sono rimasto nudo nella stanza. Ho cominciato dalla mano, così che tu vedessi subito l’inizio durante le tue perlustrazioni del risveglio. Caro, ho inciso, con il pennino metallico, intingendo l’inchiostro. Mi ha fatto male, lo sai, Jekyll? Non abbiamo ancora inventato niente di meglio che questo; l’inchiostro sotto la pelle brucia un po’. La c di caro non ha ancora smesso di sanguinare. Credo ti verrà un’infezione. Tanto la mano è già infetta, vero Dottore? Così dite voi gentiluomini: mani sporche di sangue. Per me è un bagno caldo; scioglie i nervi, allenta le tensioni. Il braccio sinistro. Quante ne avete voi gentiluomini, di tensioni. Le calze tese, a coprire mezza gamba, e guai se cadono; poi le bretelle, a tendere i pantaloni, a inarcare le schiene. Poi ancora i polsini, a tendere le vene e il sangue; poi il cappello a tendere la dignità, e guai se cade. Siamo fogli di carta, Henry, e siamo fragili. Siamo tesi anche nell’aria più calma, e con un soffio ci strappiamo. Il vento ribalta il cappello, l’inciampo fa scendere la calza. Quanto tempo fa ti sei strappato, Henry? Il torace, necessità dello specchio.  So quando è successo, Henry. È il mio primo ricordo. Avevi ventotto anni, eri un brillante studioso in medicina; promettevi bene. Facevi una delle tue passeggiate, con i tuoi cari amici gentiluomini. Vi scambiavate convenevoli e mutua approvazione. Era una domenica d’autunno, e cominciava presto a imbrunire; i lampioni erano accesi a illuminare fiochi le strade. In quella magnifica penombra del tramonto, incontrasti lo sguardo di quella ragazza. Era talmente giovane da essere proibita, i capelli rossi come il divieto. Le code del vostro sguardo inciamparono in quelle pietre di smeraldo che erano gli occhi della ragazza. Non potevate seguirla, nemmeno con la vista. Ma quanto era bella, Harry, quanto era proibita, lo sappiamo solo io e te. Fu in quel momento che ti strappasti. Come un foglio di carta, ti scindesti in due, contro il vento dello sbattere di quelle ciglia e delle labbra turgide. Strap. Sentii distintamente il suono della tua divisione, mentre l’altra metà, sospinta dal vento della consuetudine, continuava a camminare fianco a fianco ai suoi gentiluomini. I lombi. Ti confesso una cosa, Harry, ora che è tempo di ultime parole. Una notte di qualche settimana fa, ho ritrovato la ragazza che ti strappò in due quella sera. È cresciuta di qualche anno, ma niente in confronto ai tuoi capelli grigi. L’ho presa, Harry. Ho scontrato questa parte di te contro di lei. Ho sentito tutto. Hai sentito tutto. L’inguine. La pelle è una busta di carta, Henry. È fragile e sottile, ci contiene appena. Sai di cosa sto parlando. È bastato qualche sale in una provetta, e sono apparso io. Ma sappiamo che non è stato quello; non avrai mai il coraggio di ammettere che il tuo intruglio non ha avuto alcuna influenza. Un placebo. Io esisto, tu mi hai covato, forgiato come una lama. Questione di tempo, prima che forassi il mio leggero involucro. Sei tu, Harry, il mio leggero involucro. La tua pelle è una busta di carta da strappare. Io sono le parole, sono la lettera da consegnare. Il fianco destro.  Qua fa molto male, hai perso tanto sangue. Perché scriverti in questo modo? Considerala una lettera abbandonata sulla soglia di casa. La pelle è il nostro confine, Harry, ma anche il nostro spazio comune. Dovrai ammetterlo un giorno o l’altro, di avere sentito anche tu. Hai sentito tutto anche tu, Harry, attraverso questo sottile velo: le dita immerse nel sangue caldo, il tuo sesso avvolto da quella donna, le mani sulle carni. Hai sentito tutto, e stai sentendo. È l’unico modo per farti sentire, Harry, per non farti sperare che sia stato tutto un sogno. Sto bussando alla porta, e so che sei in casa. Toc toc, Harry. Il braccio destro.  La fragilità della pelle è necessaria, caro Dottor Jekyll. La pelle è come uno di quei vetri, a proteggere le scuri. Rompere in caso di emergenza. La sua fragilità crea possibilità. La pelle deve rompersi. Io non sono l’errore: sono lo scopo della tua sottile pelle. Tu sei il vetro, io la scure. La mano destra. Cambiare mano non è difficile, la brutta ortografia non mi preoccupa; sono abituato a non badare alle apparenze. Ti ho finito, Henry. Sei sempre stato un foglio troppo corto per scrivere tutto me stesso; per questo ne sono uscito. Il tuo intruglio non c’entra proprio niente. Ora uccidimi, usa questa mano per versare il cianuro nella tua bocca, fai come credi. Illuditi che non mi rivedrai mai più, fingi di non sentire le mie nocche sulla porta. Finirai all’altro mondo con le mani sulle orecchie e le bende sugli occhi. Non mi importa, sei carta straccia, Harry. Ho trovato altre vie, altri fogli da scrivere. Le pelli di voi uomini sono così sottili… vi credete delle isole, ma siete accostati l’uno all’altro; ognuno con le stesse tensioni, ognuno con le stesse voglie. E dietro queste sottili porte, la mia mano bussa, e l’occhio sbircia attraverso, e vi vede uno ad uno. Ci siete tutti in casa, e tutti mi sentite; e

La pelle: racconto di Marianna Soffiantino

di Marianna Soffiantino Racconto primo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli   Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa, ti conosco da prima per dirla tutta. So come sei dentro e come sembri fuori, da sempre sono la tua ultima frontiera. Non sono nata da una costola biblica, cara mia, e nemmeno da altre frattaglie di scarso pregio, provengo da un minuscolo foglietto mitocondriale, direttamente dal tuo cervello, sono un pezzo di cervello  spianato col mattarello di dio, una lasagna intelligente, se vuoi semplificare. Non è stato semplice piegarmi a te, seguire i tuoi sghiribizzi di seni turgidi e serici da accarezzare per diventare spesso callo a proteggere e poi ancora, monti, pieghe e avvallamenti umidi e vischiosi, calda e tenera, contratta e fredda e altro ancora a seconda dell’umore e del desiderio. Ho segnato la tua ansia di farfalle piccole e delicate, fiori, e merletti che con la punta d’acciaio di mille aghi hai marcato con colori impossibili da cancellare, ho pianto con lacrime di sangue la tua follia ma ho resistito. Cancellare…il mio verbo impossibile , sono la lavagna della tua anima, non aver paura di dimenticare, io resto, abbracciata a te per sempre e anche dopo, forse. Pelle di pesca, di ceramica, di alabastro, di luna: sono la tua bellezza e la tua sventura. Sono io la causa di tutto questo… anche tu però… Al primo incontro Mr Jonas Wright ci aveva dato sensazioni contrastanti, un bell’uomo, per carità, un po’ trascurato magari, aspetto dimesso, tutto molto beige, tutto tranne gli occhi , mi viene la pelle d’oca solo a pensarci, uno giallo ambra come di lupo e uno azzurro cielo. Lo fissavi ipnotizzata e sentivo il tuo cuore battere,  il tuo cervello secernere dopamina e adrenalina,  stomaco leggermente contratto,  è stato l’innesco dell’ossitocina il dannato ormone delle coccole che ci ha perdute per sempre. Persona interessante Mr Wright non faceva che parlarti e accarezzarci, sussurrava dei suoi libri, che poi suoi non erano mica. Il bibliotecario dell’Università di Harvard e tu sgranavi gli occhioni belli e ti lasciavi incantare dagli antichi Sutra orientali su foglie di palma con bulini metallici che profumavano ancora d’incenso, di libri arabi cuciti con fili di seta con una copertura di nervi fragranti, dorature Rinascimentali a motivi geometrici in rilievo su copertine rigide e poi aroma di colla naturale, legature monastiche e gotiche, le vite eccentriche dei rilegatori nel periodo Liberty, ci accarezzava dentro e fuori. A pensarci ora quello sguardo doppio faceva accapponare la pelle, ma io ti seguii fino in fondo come sempre. Lui lisciava, vezzeggiava, lusingava e blandiva e tu, bella mia , c’hai rimesso letteralmente la pelle. Primo ad arrivare è stato il freddo,  ho propagato sulla tua schiena i brividi e provveduto a tener stabile la tua temperatura, ho risposto con sollecitudine smuovendo i muscoli in un tremolio continuo ma è solo dall’odore che ho finalmente capito. Odore di animale braccato, senza via di fuga,  in allarme, di tutto il nostro raffinato sistema di comunicazione a volte rimane solo questo : il rancido e folle puzzo del terrore. Nella mia memoria  cellulare sento lo strappo secco con cui Mr Wright ci ha separate per sempre. Da qualche tempo il settore “Libri rari”dell’Università di Harvard è stato arricchito da una minuscola collezione donata alla fondazione da uno dei più autorevoli restauratori dell’illustre ateneo,  Mr Jonas Wright da poco deceduto. Si tratta di un piccolo numero di tomi pregiati, rilegati in sottilissimo cuoio dallo studioso stesso.  Uno in particolare ha attirato l’attenzione e la curiosità dei colleghi commossi dall’inusuale lascito. Pare che uno dei testi “Des destinèes de l’ame” (I destini dell’anima) scritto dal poeta francese Arsene Houssayeè , abbia incise sulla copertina delle piccole e graziose farfalle.

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Mani-Piedi-Bocca: racconto di Edoardo Cavazzuti

Domenica 30 novembre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la seconda serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. Il tema generale della serata era Malattie Esantematiche. La squadra vincitrice, la cui parola chiave era Puntini, è composta da Dario Manera, Elena Scappini ed Edoardo Cavazzuti. Di seguito, pubblichiamo il racconto “Mani-Piedi-Bocca” scritto da Edoardo Cavazzuti. — Mani-Piedi-Bocca di Edoardo Cavazzuti Voi, persone razionali, immagino NON amereste sapere che esistono circa SETTANTAMILA virus sconosciuti alla scienza. Quando qualche ricercatore neozelandese ne individua uno, al virus è attribuito un nome latino E/O una sigla simile a quelle degli asteroidi. Tipo: Enterovirus EV71. Di sicuro, sarebbe straordinario che vostro figlio tornasse dall’asilo con un asteroide. Possibile, invece, che rincasi con uno dei suddetti settantamila virus. Ancora più facilmente, potrebbe tornare con una malattia che, quando voi eravate bambini, non era nota e che, invece, oggi è comune o, quantomeno, riconosciuta. Come la cosiddetta Mani-Piedi-Bocca. Nel caso in cui vostro figlio contraesse la Mani-Piedi-Bocca, la pediatra vi direbbe che, pur essendo molto contagioso, il virus difficilmente si trasmette agli adulti. “Nel caso in cui vostro figlio contraesse la Mani-Piedi-Bocca, la pediatra vi direbbe che, pur essendo molto contagioso, il virus difficilmente si trasmette agli adulti.” Così, qualche ora dopo, non fareste caso a quel leggero intorpidimento della bocca e continuereste a montare LEGO®, seduti sul tappeto. La sera, non prestereste attenzione a quella sensazione di sensibilità alla pianta dei piedi. Solo la mattina successiva, afferrando lo spazzolino da denti, scoprireste quanto l’avverbio “difficilmente” sia infido e cosa significhi, nella realtà, il termine “ESANTÉMA”. Puntini, ecco cosa. Puntini che si sentono strofinando un palmo sull’altro, un polpastrello sull’altro; piccoli puntini, non proprio tondi, non proprio aperti. E poi minuscoli lividi, vescicole che sbocciano, come lana di vetro. Sulle mani, sotto i piedi, sulla lingua. Puntini, ecco cosa. Puntini che si sentono strofinando un palmo sull’altro, un polpastrello sull’altro; piccoli puntini, non proprio tondi, non proprio aperti. Se consultato, il vostro medico curante non avrebbe la benché minima nozione sulla Mani-Piedi-Bocca e, nel dubbio, vi prescriverebbe dieci giorni di mutua. Vostro figlio starebbe benissimo, voi, invece, sareste ridotti a zombi febbricitanti. Zombi lenti, non quelli moderni. Finita la degenza casalinga, scoprireste (per colpa Wikipedia) che la Mani-Piedi-Bocca è causata da diversi ceppi di virus e che si può riprendere. E allora passereste più di una sera a spiarvi nella bocca, alla luce della torcia, più di una mattina a strofinarvi gli alluci, in attesa di una scossa. Ogni indizio sarebbe prova di una ricaduta. E ogni volta, pensereste al nome, alla sigla, all’asteroide, ai settantamila virus, alla Nuova Zelanda, alla pediatra, al medico curante, alla mutua e, pensandoci, OBBLIGHERESTE vostro figlio a lavarsi le mani cantando due volte “Tanti auguri a te”. E lui vi direbbe che basta. E voi gli direste che ancora. E lui vi direbbe che è calda. E voi gli direste che è giusta. E lui griderebbe che brucia. E voi gli direste che è giusta. È sicuramente giusta così… — Non perdete la terza e ultima serata di Non sparate allo scrittore! Domenica 28 dicembre 2014 al Count Basie Jazz Club di Genova. Il tema sarà “Luoghi Comuni” declinato in tre parole chiave: Casa, Chiesa e Cesso.

Tempi di attesa: un racconto di Elena Scappini

Domenica 30 novembre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la seconda serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. Il tema generale della serata era Malattie Esantematiche. La squadra vincitrice, la cui parola chiave era Puntini, è composta da Dario Manera, Elena Scappini ed Edoardo Cavazzuti. Di seguito, pubblichiamo il racconto “Tempi di attesa” scritto da Elena Scappini. — Tempi di attesa di Elena Scappini Ascoltami amore, ti racconto quando me ne sono accorta. Avevo messo il cercapersone sul comodino e mi ero sdraiata sul letto cercando di riposare. Quella notte ero in reperibilità. Giudice di turno. Di solito, mi avevano detto, di notte non accade mai nulla. Ma era il mio primo incarico, in una città diversa dalla mia e non riuscivo a stare tranquilla. Inoltre dalla mattina avevo un malessere generale; faceva molto freddo, era quasi inverno e pioveva da due giorni: i sintomi dell’influenza c’erano tutti. Non sarebbe stata una notte tranquilla, lo capii non appena dal comando dei carabinieri mi arrivò la chiamata. Un pullmann con quaranta giovani militari era caduto giù dal viadotto, il giudice di turno doveva essere presente. Ebbi un attimo di sgomento, solo un attimo perchè dovevo rivestirmi al più presto ed entrare rapidamente nel mio ruolo. “Ebbi un attimo di sgomento, solo un attimo perchè dovevo rivestirmi al più presto ed entrare rapidamente nel mio ruolo.” Il capitano dei carabinieri della stazione provinciale fu molto gentile e venne a prendermi personalmente. Tutti furono molto gentili, perchè in una piccola città di provincia si conoscono tutti ed io, giovane giudice donna, al mio primo incarico, avevo attirato le loro simpatie. Mi portarono sul posto e a fatica riuscimmo a raggiungere il punto esatto dove il pullmann era caduto. La pioggia, il buio, le sterpaglie, tutto ci ostacolava. Uno strazio. Suoni di ambulanze, urla, voci che si rincorrevano, persone che gridavano tra le luci tremolanti delle torce e poi quei corpi, così ingiustamente ridotti a manichini. “Nessuno ancora lo sapeva ma da poco avevo scoperto di essere incinta.” Nessuno ancora lo sapeva ma da poco avevo scoperto di essere incinta. Quella notte di dolore mi aveva fatto capire improvvisamente, prima ancora di diventarlo, quali potevano essere i sentimenti di una mamma di fronte al corpo del proprio figlio. Sentivo che la febbre saliva e il mal di gola aumentava, ma non riuscivo a distinguere quale fosse il confine tra la malattia e il turbamento per la situazione che stavo vivendo. Finiti gli adempimenti di rito mi recai col maresciallo al comando della stazione dei carabinieri per firmare le ultime carte e prendere in carico il fascicolo. Mi accasciai letteralmente sulla sedia come un sacco e mentre mi svuotavo dentro, fuori mi riempivo. Dottoressa, disse il maresciallo, mi scusi se mi permetto ma sul viso ha tanti puntini rossi. Mi toccai, sentii sotto le dita tanti minuscoli rilievi uno dietro l’altro. Cercai uno specchio per guardarmi; il mio aspetto era davvero orribile. La mattina dopo il medico mi diede la sua diagnosi: varicella. “La mattina dopo il medico mi diede la sua diagnosi: varicella.” Fui costretta a rimanere chiusa in casa per parecchi giorni; diventai inguardabile e divorata da una smania di grattarmi che non potevo calmare se non con rimedi semplici e antichi, ma senza alcun medicinale. Dovevo proteggere te, l’unico scopo di quei giorni. Finita la quarantena, segnata nel corpo, cercai di capire e di essere sicura che per te non ci sarebbero state conseguenze. Nonostante la violenza con la quale la varicella mi aveva aggredita mi assicurarono che tu non avresti avuto problemi. Avevamo vinto insieme una battaglia difficile, non ti avevo perso. Ma la loro sapienza non potè nulla contro il volere della natura. La chiamano atrofia muscolare. È inutile che stia a spiegarti, le mie mani avranno cura di te e i miei massaggi saranno un balsamo per i tuoi muscoli. Non preoccuparti, amore mio; vinceremo anche questa battaglia. Insieme diventeremo più forti. — Non perdete la terza e ultima serata di Non sparate allo scrittore! Domenica 28 dicembre 2014 al Count Basie Jazz Club di Genova. Il tema sarà “Luoghi Comuni” declinato in tre parole chiave: Casa, Chiesa e Cesso.

L’eredità di Prudens Gerhardt: racconto di Dario Manera

Domenica 30 novembre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la seconda serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. Il tema generale della serata era Malattie Esantematiche. La squadra vincitrice, la cui parola chiave era Puntini, è composta da Dario Manera, Elena Scappini ed Edoardo Cavazzuti. Di seguito, pubblichiamo il racconto “L’eredità di Prudens Gerhardt” scritto del caposquadra Dario Manera. — L’eredità di Prudens Gerhardt di Dario Manera Gentili signore e gentili signori, benvenuti all’appuntamento annuale della Società Esantematica. Siamo qui convenuti per dare lettura del contributo postumo del Dott. Prudens Gerhardt bisnipote del celebre internista Carl Adolf Christian Jakob Gerhardt che nel 1874 – come ben sapete – scoprì, pur non riuscendo ad attribuirsene la paternità, le piccolissime macchie fugaci simili a capocchie di spillo che, immeritatamente, prendono il nome di Macchie di Köplik. Lo studio di Prudens Gerhardt, non solo rende giustizia al progenitore ma, si spinge ben oltre e, la segnalazione dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze, ne è testimonianza. La ricerca di Prudens Gerhardt supera la convenzione, fino ad ora universal-mente accettata, che stabiliva l’ordine in prima, seconda, terza, quarta malattia (detta volgarmente “scarlatinetta”), quinta, sesta e Malattia di Kawasaki. I parametri consueti vengono smentiti: niente più manifestazioni esantematiche con caratteristica progressione a “nevicata”, insorgenze cutanee dal tipico aspetto di maculo-papule, papille iper-trofiche dalla superficie a lampone che alcuni colleghi insistono a definire “lingua a lampone”, desquamazione, solchi ungueali, pustole sollevate rotonde, tese e dure al tatto, che danno l’impressione come di piccole biglie, puntini e, persino petecchie. La rivoluzione di Gerhardt, signore e signori, eradica non solo i sintomi e l’esantèma correlato ma, le malattie medesime, il loro diffondersi e le piaghe che ne derivano. Vogliate perdonare questa breve sintesi e accogliere, ora, con la doverosa attenzione, il contributo che il Dott. Prudens Gerhardt ci ha lasciato, come incommensurabile eredità. Grazie. Un luogo, o più luoghi, un tempo, degli attori. Tali sono i fattori necessari al virus, per diffondersi. L’esperienza diretta e l’attiva replicazione del fenomeno, soprattutto con l’avvento della primavera, di una porpora piastrinopenica e conseguente esantèma micropapuloso a rapidissima evoluzione con tumefazione delle natiche, dopo avermi prostrato oltremisura, ha dato origine alla mia scoperta. A condurmi alla rivelazione i lunghi periodi di obbligata deambulazione, inevitabili per la suddetta degenerazione. Definito che la malattia non dava immunità ed era altamente trasmissibile, con un tasso di infezione del 90% nelle situazioni di stretto contatto, ho isolato luogo, tempo e attori. La reiterata diffusione, soprattutto a livello inguinale e dei glutei, di piccoli puntini ravvicinati di colore rosa, fu propellente all’indagine. Vano, d’altra parte, ricorrere alla vaccinoprofilassi e all’osservanza rigorosa di un calendario vaccinale poiché, come indicato, il mio corpo subiva periodicamente l’attacco, della prima, poi della seconda, indi della terza, e via di questo passo, con intervallo annuale senza salti nella sequenza dei numeri ordinali. Dopo la sesta primavera sapevo che sarebbe stato il turno della Malattia di Kawasaki e della lingua “a fragola” che tanto mi avrebbe fatto rimpiangere quella “a lampone”. Inefficaci antibiotici specifici e antifebbrili. Infruttuose le procedure di idratazione del corpo e l’ossigenazione degli ambienti. Infondati i normali accorgimenti come evitare le correnti d’aria, indossare guanti di cotone e scongiurare la rottura delle vescicole. Accertata la ciclicità, la virulenza con il crescere dell’età, la pericolosità per i maschi adulti, il rischio grave per i testicoli, la rapida riduzione della protrombina, i danni a livello lombo sacrale e, sine eruptione nella colecisti, indirizzai tutti i miei sforzi nella ricerca. Ma, prima, lasciatemi riassumere come giunsi all’intuizione. Una notte, comparse le prime papule pruriginose, per mitigare il prurito e, quindi, il riflesso di grattamento, assunsi del Lorazepam, noto anche per le proprietà anticonvulsivanti. Le benzodiazepine mi accompagnarono dalla veglia al sonno in breve tempo. Sognai un laboratorio, alambicchi, evaporatori rotanti e distillatori, quanto necessario a scoprire le cause per un’azione inibente la replicazione. “Poi, mi apparve Jenner, Edward Jenner.” Poi, mi apparve Jenner, Edward Jenner. La parola vaccino risuonava, allorché, reminiscenza di studi classici, risalì all’etimo “vacca”, ter-mine latino per mucca. Fu in quel momento che Heidelin-de, mia moglie, mi risvegliò col suo timbro deprecabilmen-te disfonico: “Prudens, Prudens, è l’ora dell’endovenosa”. Decisi, ispo facto, di pormi in rigorosa quarantena, senza afflizione, anche per la miasmatica alitosi di Heidelinde, consapevole che lo scambio di fluidi corporei, costituisse una possibile interferenza negativa alla mia risposta im-mune, poiché meine Frau, mai aveva sviluppato familiarità alla patologia. “Se gli esperti di antropologia ossea hanno rintracciato il transito del virus nella mummia del faraone Ramses V, morto oltre tremila anni fa, perché i resti delle Grandi Spose Reali, Henutwati e Tawerettenru non ne presentano traccia?” Se gli esperti di antropologia ossea hanno rintracciato il transito del virus nella mummia del faraone Ramses V, morto oltre tremila anni fa, perché i resti delle Grandi Spose Reali, Henutwati e Tawerettenru non ne presentano traccia? Erano anch’elle sterili ma pericolosamente contagiose quanto la mia Heidelinde? L’eradicazione, dunque, era possibile, agendo non più sull’epifenomeno, bensì sulla cagione, la matrice, il germe di tutto responsabile… …e qui, purtroppo, si interrompe lo scritto del Dott. Prudens Gerhardt, rinvenuto nell’area a bassa densità abitativa attraversata dal Peene occidentale, Westpeene, a est di Vollrathsruhe dove si era ritirato e visse l’ultima ma, u-nica primavera felice della sua vita. L’intuizione che le consorti, soprattutto quelle infruttifere e per congenie, prive di epiglottide, siano portatrici sane e, dunque, soppri-mibili è, a mio modesto parere, da annoverarsi tra le sco-perte del terzo millennio. Prudens Gerhardt ci ha indicato la via. A noi perseguirla senza infingimenti e ipocrisia. Grazie. — Non perdete la terza e ultima serata di Non sparate allo scrittore! Domenica 28 dicembre 2014 al Count Basie Jazz Club di Genova. Il tema sarà “Luoghi Comuni” declinato in tre parole chiave: Casa, Chiesa e Cesso.

Il Chiodo di Asso: racconto di Massimiliano Maestrello

di Massimiliano Maestrello Racconto primo classificato al concorso letterario “Il mio vestito, una seconda pelle” di Officina Letteraria e Lo Spaventapasseri Ci volle un incidente, perché Asso si liberasse del vecchio chiodo. Quella giacca di pelle ce l’aveva sempre addosso, anche in estate. Arrotolava le maniche fino ai gomiti, e nelle serate più calde – quando l’afa schiacciava la campagna e non c’era un filo d’aria che attraversasse la terra piana e secca – portava solo quella. A petto nudo, con le costole appuntite che spingevano da sotto la pelle, sembrava una versione più giovane di Iggy Pop, magari di quello fotografato sulla copertina di Raw Power. E Iggy era apparso – in versione di toppa – anche su una manica del chiodo nero: un profilo in stoffa accompagnato dalla scritta The Idiot. Era durato qualche mese, Iggy, come succedeva a quasi tutte le toppe che finivano sulla giacca di Asso, in una sorta di rotazione continua che seguiva i suoi umori e le nuove scoperte musicali. Il mio migliore amico era Ale, il fratello di Asso, e le nostre frequenti incursioni in camera sua, alla ricerca di fumetti e dischi di band che non avevamo mai sentito nominare, mi aveva permesso, in alcuni casi, di prevedere cosa Asso si sarebbe fatto cucire sulla giacca. C’erano vinili che per lunghi periodi rimanevano fissi sul piatto, le custodie con i testi abbandonate sul letto sfatto; oppure cassette che – nei pochi pomeriggi in cui Asso stava a casa, rinchiuso in camera, mentre io e Ale facevamo i compiti in cucina, aspettando che se ne andasse per andare a frugare tra le sue cose – si sentivano andare di continuo. I Doors, i Ramones, gli Iron Maiden, gli Exploited e poi, ancora, i Clash, i Sex Pistols e  i Black Flag, io e Ale li scoprimmo in camera sua. E i loghi di queste band andarono a coprire, a turno, gli spazi liberi sulla giacca. Solo due toppe non cambiarono mai: la A cerchiata di anarchia, sulla manica sinistra del chiodo (che andò a sostituire la fugace apparizione dell’immagine di un hippy, visto di schiena, con la chitarra e un sacco a pelo arrotolato a tracolla: qualcosa che Asso dovette interpretare presto come troppo gentile per i suoi gusti) e quella che occupava tutta la schiena: un gigantesco dito medio sollevato, accompagnato da un esplicito Fuck You!

Accordi: racconto di Paolo Gerbella

Domenica 28 ottobre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la prima serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. La squadra vincitrice, il cui tema era Accordi, è composta da Federica Kessisoglu, Paolo Gerbella e Annamaria Frigerio. Pubblichiamo il racconto Accordi, di Paolo Gerbella. DO-MI-SOL sono note. Note musicali, sono sette, che poi non è vero se consideriamo i diesis e i bemolle, ma quelle sette sono universalmente riconosciute. Le note sono anche appunti su un foglio, moniti di un insegnante a un allievo ribelle, note sono le cose che pensiamo di conoscere bene, rilievi a margine di una pagina con testi complessi. Note sono le mie paure quando non so cosa devo fare, me lo si legge in faccia che non so cosa fare, eppure non posso fare a meno di essere spaventato. Le note spese sono quelle che mi entusiasmano maggiormente, fanno sentire ricco e poco importa se ho solo anticipato qualcosa che altri pagheranno, dopo, per me. In ogni caso serve armonia, ogni singolo elemento deve incastrarsi bene con quello che segue, precede o sovrasta. DO-MI-SOL, sono note di un accordo di DO. Cioè, tu le suoni simultaneamente e quel suono, quell’armonia, si chiama DO. Eppure sono note differenti tra loro, ma insieme, tant’è, funzionano. L’accordo cioè è andare in armonia, insieme, con la stessa altezza sulla stessa strada, perché se pizzico maggiormente, su una chitarra, per dire, il SOL, allora non è più un accordo ma solo una nota che attende compagnia, del DO e del MI, se voglio fare un accordo di DO. Ma se io voglio stare con te, si proprio con te, amico, amante o chi ti pare, se penso di suonare solo la mia nota senza far suonare pure la tua, come possiamo muoverci insieme, armonicamente, senza rischiare un suono stonato, un non accordo, un disaccordo? Accordo e disaccordo, armonico o disarmonico, nulla è possibile senza una regola. Eppure, tu mi dici che non servono le regole, che, si è vero, siamo diversi, però ci capiamo. Ma non basta capirsi, cazzo! Se io sono un DO e mi metto con un RE e un SI non sarò mai un accordo di DO ma semmai, tu che sei un SOL, perché si vede che sei sol, con quei due li, i fottutissimi SI e RE, ti potrai armonizzare benissimo in un accordo di SOL. E non mi dire che in fondo siamo solo tutti delle note e come tali dobbiamo essere comunque suonate, perché non mi basta e soprattutto…chi mi suonerà, che forza metterà? Ci va pure lì un accordo, un buon equilibrio tra pressione sulle note e le note suonate. Come ci va un accordo tra noi e questo mondo che non ci somiglia e che lasciandolo fare, ci schiaccia come pulci di cane randagio. Siamo d’accordo? Ricordiamo che il prossimo appuntamento con Non sparate allo scrittore! è domenica 30 novembre. Tema della serata: malattie esantematiche.

Sento: racconto di Anna Maria Frigerio

Domenica 28 ottobre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la prima serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. La squadra vincitrice, il cui tema era Accordi, è composta da Federica Kessisoglu, Paolo Gerbella e Annamaria Frigerio. Pubblichiamo il racconto Sento, di Anna Maria Frigerio. Fino a un attimo fa i suoni erano diversi. Battiti profondi e ricorrenti, fruscii, lo scorrere continuo di qualcosa, colpi improvvisi, gorgoglii strozzati. Suoni che arrivavano ogni tanto e altri sempre lì, a farmi compagnia, legati tra loro in qualche modo o isolati, ritmati o disordinati. Poi ce n’erano alcuni che arrivavano da lontano, attutiti dall’abbraccio d’acqua e carne in cui ero immerso. Sopra a tutti una voce, il più delle volte tranquilla, sussurrata, dolce. Solo a momenti il tono si alzava, diventava stridulo e io sobbalzavo per quella perdita di armonia. Cercavo rifugio nell’angolo più profondo della calda profondità in cui stavo. A volte la voce taceva, ma mi arrivavano ondate silenziose, emozioni che mi facevano tremare, nonostante la temperatura costante del luogo in cui ero. Poi la voce tornava a parlare e a cantare, circondata da altri suoni sconosciuti. Quando sentivo che parlavano con me, muovevo mani e piedi nel poco spazio che mi era dato, in un inizio di comunicazione istintivo ed entusiasmante. C’erano già suoni che mi piacevano, altri che non mi dicevano niente o di cui avevo paura. In un tempo lungo e spaventoso è cambiato tutto. Da uno spazio sempre più stretto ma calmo, circondato dai suoni che conoscevo, ho cominciato a essere spinto altrove. Contratto e tremante, andavo avanti, mi fermavo in una morsa e tornavo indietro, capendo che era inutile, trovandomi di nuovo spinto in avanti. I suoni, dentro e fuori, si erano moltiplicati e intensificati, in un frastuono intenso, dominato dalla confusione e dal disordine. Andavo avanti, mi fermavo e tornavo indietro, riafferrato da una pace che non volevo perdere. Potevo lottare contro, ma anche lottare insieme per arrivare non sapevo dove; sperimentare la disarmonia o trovare l’armonia di un movimento comune. Sono fuori, sono arrivato. Non sento più i battiti profondi e ricorrenti, i fruscii, lo scorrere continuo di qualcosa, i colpi improvvisi e i gorgoglii strozzati. Riconosco quei suoni che prima mi arrivavano da lontano e ora mi stanno addosso. Non c’è più niente che mi protegga da loro. Scopro un rumore nuovo, esce dal mio corpo, è stridulo e forte. Protesto con il pianto per il freddo, la paura e l’improvvisa solitudine. Ritrovo il calore appena perso appoggiato, per un attimo, sul corpo di mia madre e sento la sua voce. E’ diversa, non rimbomba, ma è quella che conosco da sempre. Mi placo. Mani decise mi afferrano, mi strofinano e mi frugano. Vengo immerso in qualcosa che evoca il luogo da cui vengo e, per un attimo, grazie alla ritrovata protezione dell’acqua, ritorno in quel mondo di suoni, che ho appena perso per sempre. Ricordiamo che il prossimo appuntamento con Non sparate allo scrittore! è domenica 30 novembre. Tema della serata: malattie esantematiche.

L’accordo perfetto: racconto di Federica Kessisoglu

Domenica 28 ottobre 2014 si è svolta al Count Basie Jazz Club di Genova la prima serata di Non sparate allo scrittore!, contest di racconti brevi e musica nato in collaborazione con Elisa Traverso e il Collettivo Linea S. La squadra vincitrice, il cui tema era Accordi, è composta da Federica Kessisoglu, Paolo Gerbella e Annamaria Frigerio. Pubblichiamo il racconto L’accordo perfetto, di Federica Kessisoglu. Diario di bordo AD 4554 giorno 255 Oggi ascolto e aspiro e distinguo e canto. Oggi come ieri, come nel giorno 59, come non ricordo più da quanto … Oggi voglio scrivere di me, di quello che è successo, di quello che succede, perché forse sto per diventare pazzo e invece devo mantenermi lucido, devo tenermi aggrappato alle parole, ai suoni che sento nella testa, distinti, precisi. Oggi scrivo la fine che è domani o tra un minuto o tra milioni di anni. Il mio nome non è importante. Sono un musicista o, per meglio dire, lo ero. Passavo le giornate a combinare note, a fissare tempi e sospensioni, a inventare accordi, ad ascoltare i suoni dei pianeti. In un giorno del passato tutto questo ha cessato di essere. In quel giorno del passato, non so come, il mondo allora conosciuto è stato violentato da un rumore lancinante, intollerabile. L’unica cosa che so è che questo rumore è l’insieme di tutti i suoni prodotti dal big bang a oggi. È come se i suoni non si fossero mai estinti. È come se si fossero accumulati da qualche parte. Forse si sono solidificati, si sono fatti stella e poi supernova invadendo lo spazio, ogni angolo della terra, insinuandosi dappertutto, formando una cappa di note impazzite, di frastuono, di parole tutto attorno e dentro e fuori, diventando insopportabili all’orecchio umano e non umano. Gli animali sono stati i primi a impazzire. La sordità precoce è divenuta la patologia più diffusa, rifugio sicuro dalla follia. In quel giorno del passato e in quelli successivi, a quel rumore riuscii a trovare un senso. Riuscii a distinguere delle note, dei suoni che potevano essere combinati in accordi, in armonie. Si trattava solo di trovare il modo di isolarli, perché altri oltre a me sentissero quella musica meravigliosa. Con l’aiuto di un amico ingegnere costruii una macchina che intercettava le famiglie di frequenze e le traduceva in suoni armonici: lo strumento li registrava isolandoli dal resto. Ma tutto questo è stato inutile. Sono stato accusato di alimentare la “cacofonia cosmica”, così l’hanno chiamata. La commissione disciplinare interplanetaria mi ha condannato a cinque anni di lavori socialmente utili. Sono rinchiuso da due anni in una navicella di due metri per quattro, sperduto nel vuoto cosmico a ripulire lo spazio dall’inquinamento acustico. Aspiro i suoni, come potrei aspirare la polvere, da più di seicento giorni. Qualcuno, se ci sarà ancora qualcuno, forse leggerà queste righe, forse capirà, forse giudicherà, ma saprà ascoltare? Ora riesco a distinguere un sol, il rumore della pioggia sulle foglie di un platano, il risolino acuto di alcuni bambini che giocano a rincorrersi. Ascolto e aspiro e distinguo e canto. E poi ascolto e aspiro e distinguo e canto. Ecco, non sono pazzo! Di nuovo un sol ma questa volta minore e il canto del cuculo e una mezza frase tra due innamorati… prima o poi troverò l’accordo perfetto e allora rimarrà solo luce. La fine capirà come ascoltare. Non sono pazzo… ascolto e aspiro e distinguo e canto… ascolto e aspiro e distinguo e canto… Ricordiamo che il prossimo appuntamento con Non sparate allo scrittore! è domenica 30 novembre. Tema della serata: malattie esantematiche.

“La porta”: un racconto di Barbara Fiorio per il 25 novembre

“La porta” di Barbara Fiorio. L’urlo di suo marito, una fitta al torace, il freddo del marmo e quel denso bisogno di lasciarsi scivolare nel buio della perdita dei sensi. Poi il pianto di suo figlio lì, sul pianerottolo, e la forza sufficiente per alzarsi e sorridere a quei cinque anni a piedi nudi, con gli anatroccoli sul pigiama azzurro e il viso di lacrime e muco. Inghiottì il sapore del pugno, recuperando il fiato per confortare il bambino. Andava tutto bene, gli sussurrò abbracciandolo, stringendo gli occhi per contenere il dolore. Papà era solo nervoso, e lei non sarebbe andata via. Lo aveva detto ma non lo pensava davvero. Andava tutto bene. Il vicino richiuse la porta.

“Debole”: un racconto di Sara Rattaro per il 25 novembre

“Debole” di Sara Rattaro. Il debole sei tu. Lo sei mentre mi tratti male, mentre usi la tua unica lingua, la violenza, mentre credi che la mia paura sia la tua più intima alleata. Lo sei mentre fai finta di nulla quando siamo tra gli amici o quando cambi canale alla televisione se si parla di qualcuno che potremmo essere noi. Lo sei quando mi minacci di non fiatare e mi colpisci solo dove non si può vedere, lo sei mentre sfuggi agli sguardi dei nostri figli e ti chiedi perché mai loro ti stiano così lontani o mentre cerchi di allontanarmi da chiunque credi mi possa aiutare. Ma lo diventi soprattutto quando credi che ciò che fai sia giusto e che se non me ne vado è solo perché tu sei più importante di tutto. Ma lo diventi soprattutto quando credi che ciò che fai sia giusto e che se non me ne vado è solo perché tu sei più importante di tutto. Non è così, lo faccio solo perché ho paura che qualcun altro possa pagare la tua ira, tutta la tua fragilità perché il debole sei tu. Io ho visto l’inferno e ora non c’è nulla che mi possa fermare, nulla davanti al quale io mi senta di dover abbassare lo sguardo. Per questo motivo tutti sapranno che il debole sei solo tu.

“A brandelli” – Un racconto “Senza Amore”

Questo racconto breve è estratto dalla raccolta “Senza Amore” che ha inaugurato la collana Academy della casa editrice Emma Books. Le parole tabù che hanno dato origine al testo sono: passione, dolcezza, nostalgia, dolore e, ovviamente, amore. “A brandelli” di Federica Kessisoglu. La prima volta che lui la notò era seduto sui gradini della chiesa di fronte al supermercato COOP di via Lazio. Aveva appena finito di controllare i suoi sacchetti, soprattutto quello blu dell’IKEA dove teneva gli oggetti più ingombranti, fragili e preziosi. Un’asse di legno che aveva trovato appoggiata al cassonetto di corso Garibaldi, la statuina in porcellana del pagliaccio che era appartenuta a sua madre, una coperta di lana che gli avevano dato al dormitorio e che non aveva restituito. La borsa blu dell’IKEA era di gran lunga la più resistente tra tutte quelle che aveva avuto, doveva stare molto attento che non gliela rubassero. Era una mattina di fine febbraio e si stava godendo il tepore di un sole pallido e nuovo. Lei era là, in piedi, dall’altra parte della strada, che guardava alternativamente a destra e poi l’orologio. Stava aspettando un autobus con una busta della spesa stretta in una mano e la borsa a tracolla. Fu un particolare preciso che attirò la sua attenzione. Le dita sottili di un vento leggero le avevano sciolto la sciarpa di seta scoprendole il collo bianco e lungo Le dita sottili di un vento leggero le avevano sciolto la sciarpa di seta scoprendole il collo bianco e lungo: una calla, la calla bianca che strappò dal giardino dei vicini per portarla in dono a sua madre. La mamma lo rimproverò e lo punì. Pianse per ore senza capire la sua colpa. La prima volta che lei lo notò era seduta sulla panca di pietra del binario tre in attesa del treno. Quella mattina di marzo era fredda e soffocava una promessa di nuvole blu. Lo vide passare ricoperto di roba: uno zaino unto e sdrucito dal colore indefinibile appoggiato alla spalla destra, un grosso sacchetto blu dell’IKEA su quella sinistra, un altro sacco di tela stretto in una mano e una sporta di plastica mezza rotta legata allo zaino. Si rese conto di averlo fissato troppo a lungo e distolse lo sguardo. L’uomo si sedette all’estremità opposta della sua panca di pietra. Sistemò le sue cose con cura e attenzione di fronte a sé. Continuava a seguirlo con la coda dell’occhio e fu la lentezza studiata dei suoi movimenti ad attirare la sua attenzione. Le ricordò un maestro di Tai Chi. Si girò del tutto nella sua direzione quando lo scorse estrarre un piccolo libro dallo zaino. Il titolo era troppo lontano e, per quanto si sforzasse, non riusciva a distinguere le lettere. L’altoparlante della stazione annunciò il suo treno: il Regionale 342 per… Scattò in piedi anche se mancavano ancora una manciata di minuti prima del suo arrivo. L’uomo rimase seduto e continuò a leggere, gli occhi affondati nelle pagine. D’improvviso sollevò la testa e i loro sguardi si scontrarono. Trasalirono entrambi: la calla e il maestro di Tai Chi. «Le notti bianche di Dostoevskij» disse piano sollevando il libro. «Mi scusi?» «Credo che questa sia la mia cinquantesima ripassata.» Il treno arrivò in quel momento e si intromise di prepotenza. Vi salirono entrambi. Lei lo precedeva e scelse un posto libero accanto al finestrino. I suoi sacchetti occuparono tutte le altre sedute, tranne una dove si accomodò timido di fronte a lei. Aveva l’urgenza di finire una frase e iniziarne un’altra e ancora e ancora. Una signora con cappello maculato e soprabito coordinato gettava loro occhiate oblique. Le raccontò di Dostoevskij e delle Notti bianche, di come la bellezza lo tenesse fuori dai guai, di come il passato lo tormentasse e di come il presente fosse una distesa di acqua profonda e oscura. Lei lo ascoltava stupita, vedeva le sue mani sottolineare le parole, gli occhi chiari sempre alla rincorsa di immagini, la barba incolta e i capelli schiacciati dal berretto di lana blu, che si era tolto poco dopo essersi seduto di fronte a lei. Lei ricambiò parole e gesti. Raccontò della sua vita un po’ solitaria come quella dell’albero spoglio nel cortile. Il passato era prossimo e non la toccava, il futuro un punto di domanda sulla porta di casa. Il treno attraversò tunnel oscuri, luci sottili sui binari, mattoni di fuliggine, nero riflesso sui vetri. All’improvviso cielo e nuvole resero tutto più leggero. Si separarono con calma e sorrisi. All’improvviso cielo e nuvole resero tutto più leggero. Si separarono con calma e sorrisi. La prima volta che lui pensò a lei era una giornata bianca e silenziosa. La temperatura a zero gradi e la neve che cadeva leggera. Quella leggerezza si era fatta pesante quando aveva dovuto raggiungere i gradini della chiesa di fronte al supermercato. Con le mani gelide aveva spazzato via il soffice manto bianco per far posto a sé e alla sua casa racchiusa in zaino e sacchetti. La prima volta che lei pensò a lui si trovava in piedi di fronte alla finestra e fissava un cristallo sciogliersi sul vetro. «Starà bene?» Questo pensiero le sfuggì e arrivò dritto alla bocca dello stomaco. Afferrò la borsa e uscì. Lo trovò lì, lo sguardo perso in mezzo ai fiocchi che gli tingevano barba e berretto. Accanto a lui montagnole di neve nascondevano il suo privato. «Vieni con me? Ti offro un posto caldo dove poter leggere.» Sollevò la testa, la vide, poi si alzò. Si sistemò lo zaino sulla spalla e frugò in mezzo alla neve per afferrare i manici degli altri sacchetti. La seguì in silenzio. Si fermarono di fronte a un portone verde con due pomelli di ottone. Lei faticò un poco a trovare la serratura e a girare la chiave. Lui lo capì. La sua casa lo sorprese: era tutta colorata. Pareti, oggetti, tappeti, mobili. Lui la sognava spesso in bianco e nero. Lo fece accomodare su un divano di stoffa rossa con cuscini verde prato. «Ti

“Senza Amore” inaugura la collana Academy

Un San Valentino “Senza Amore” è diventato un eBook. di Emilia Marasco. Rinunciare alle parole dell’amore per scrivere un racconto d’amore, questa era la consegna per il gruppo di scrittura che mi sono inaspettatamente ritrovata a condurre il giorno di San Valentino per sostituire una collega. La proposta è stata accolta con qualche perplessità, qualcuno ha riso, alla fine hanno cominciato a scrivere con l’aria di chi partecipa a un gioco di società. I giochi migliori sono serissimi e la scrittura, anche quando diverte, è una cosa seria così ora abbiamo il primo eBook di Officina Letteraria. Non solo, Officina Letteraria inaugura la collana Academy di Emma Books, l’editrice digitale diretta da Maria Paola Romeo, agente letterario della Grandi & Associati. Per ora cerchiamo di fare a meno del self publishing, abbiamo preferito rivolgerci a un editore, sottoporci a una valutazione e a un editing, un’esperienza che è parte integrante dell’apprendistato della scrittura. Gli autori dei quindici racconti che compongono l’antologia sono: Giulia Cocchella, Rossana Cirillo, Andrea Fabiani, Anna Maria Frigerio, Eugenio Gardella, Paolo Gerbella, Federica Kessisoglu, Dario Manera, Elena Marengo, Daniela Mascotto, Clara Negro, Elena Scappini, Ilaria Scarioni, Elisa Traverso, Marta Traverso. L’eBook “Senza Amore” è disponibile su Bookrepublic, Amazon, Kobo e su tutti i principali store.

Racconti di Varsavia – “Fantasma”

“Fantasma” di Angela Tenca. È un’ombra che si avvicina in mezzo ai banchi del mercato, vedo chiaramente una grossa borsa di cuoio, color cuoio, messa a tracolla su spalle robuste e su una giacca rossa. I capelli sono legati con un elastico colorato ma le ciocche più corte scappano ai lati delle orecchie. Piccole, quasi invisibili orecchie dalle quali pendono semplici orecchini di perle a goccia. La mia testa è ovattata come se non sentissi bene. I suoni che mi giungono sono incomprensibili. C’è tanto colore, tanto movimento a terra ma se alzo gli occhi vedo qualcosa che assomiglia alle quinte di un teatro abbandonato. Tutto grigio, tutti i lati uguali e noi, forse, sul palcoscenico. Sto dormendo? Sto sognando? È tutto surreale. Sono venuta fino qui per rovistare tra vestiti usati e cimeli di eserciti inesistenti? La mia sindrome da shopping compulsivo mi ha portato a questo mercato e ora, come stordita, vedo questa figura che avanza verso di me. È una donna? È straniera? Non è polacca, gesticola con i venditori che non la capiscono e compra, compra e riempie la borsa di cuoio e poi tira fuori un sacchetto e riempie anche quello. Questa bancarella vende grandi specchi. È sola, è arrivata sola, viaggia sola, ha coraggio. Per un attimo vedo la sua figura sovrapposta alla mia nello specchio, quasi scompare dietro di me. Ma chi è? Dove va? Ora la seguo, sale sul tram e scende in centro, va a sedersi su una delle famose panchine da cui esce la musica di Chopin. Mi siedo di fronte a lei ma dalla mia panchina la musica non esce. S’incammina per Uliça Krakowskia Predmiescie (via del borgo di Cracovia,dice la guida), si ferma a un angolo ed entra in un bar, Prezekaski Zakaski è scritto sull’insegna ma questo proprio non so cosa vuol dire. Dalla porta esce un forte odore di cibo. La guardo dalla vetrina. Appoggiata a un bancone semicircolare mangia un piatto con pezzetti di pesce e cipolle e beve da un piccolissimo bicchiere un liquido trasparente. Sorride e soddisfatta continua la sua passeggiata. Non si accorge di me. Io sono stanca, sto per rinunciare ma la curiosità è tanta e proseguo il mio pedinare. Instancabile arriva alla città vecchia, alla piazza della Sirenetta. All’improvviso si gira, cambia direzione e mi passa accanto senza vedermi, come se io fossi un fantasma. Lei cammina, cammina è quasi buio prende una strada in discesa,attraversa un parco, io mi sento persa non so più dove sono, guardo il nome della via: Uliça Lipowa (via dei tigli), attraversa e varca la soglia di un locale con l’insegna ben comprensibile SAM. Qui non voglio restare a guardare dalla vetrina, entro e mi siedo. Lei ordina e dopo poco arriva una ciottola piena di un liquido fucsia, domando alla cameriera cos’è? Chlodnik e lo mangio scoprendo una minestra fredda di barbabietole rosse e panna acida. Mangio in fretta perché non voglio perderla. Va a finire che entra nel mio stesso albergo, nella mia stessa stanza e svanisce. Cosa sono i Racconti di Varsavia. Maggio 2013. Un gruppo di viaggiatori di Officina Letteraria, insieme a Emilia Marasco e Elena Mearini, vola a Varsavia per fare l’esperienza di un laboratorio di scrittura. Cinque giorni per un racconto ambientato a Varsavia, per misurare la distanza tra la città immaginata e quella reale, per ascoltare storie, immagazzinare impressioni sperando che diventino tracce. Un’esperienza di incontro con Zuzanna Krasnopolska, ricercatrice all’Università di Varsavia del  Dipartimento Artes Liberales, con i docenti e soprattutto con gli studenti di Italianistica che hanno organizzato una passeggiata letteraria per Varsavia e hanno scritto il loro racconto in italiano.