Prima di iniziare a leggere Il poeta dell’aria sono andata su YouTube. Già, perché il blog di Chicca Gagliardo lo seguo da tempo, avevo presente la sua faccia, ma non avevo mai sentito la sua voce. Ho trovato un solo video in cui parla di questo libro, una breve intervista, con una frase che mi ha colpita: Ogni lettore troverà il proprio modo di volare. Il sottotitolo è infatti Romanzo in 33 lezioni di volo, e il protagonista è un poeta che dal suo cornicione osserva la città e ne respira l’aria. Quell’aria che è sempre con noi, anche quando non la sentiamo, quando “non tira un alito di vento” e invece l’aria c’è, e ci accompagna, in qualche modo. È grazie all’aria se le parole che pronunciamo arrivano all’orecchio di qualcuno, se i suoni del mondo vibrano al tocco del nostro timpano. L’aria è anche quella forza che le tiene su, le parole, le fa volare. Il poeta che mi insegna, giorno dopo giorno, a volare (sì, a me che sto leggendo, e se anche tu leggerai questo libro capirai il perché), ha imparato a scrivere da Anfibio, un poeta più anziano. Questi versi sono solo belli, nient’altro. (…) Sì, adesso si sente la tua voce, ma solo la tua voce. (…) Nell’aria ciò che scrivi e respiri diventa un’unica nota. (…) Giura che mai scriverai parole costrette a restare inchiodate sulla pagina. Tentativo dopo tentativo, il poeta Volatore dona vita a quella che Italo Calvino definì la poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, la poesia del nulla. Chi si diletta di scrittura conosce bene questa sensazione. Volare con la mente, con la fantasia, perché è lì (nell’aria, appunto) che nascono le storie. Ed è solo uno dei molti modi e obiettivi in cui possiamo entrare in comunione con l’aria. Una lezione che il protagonista ci ricorda ben trentatre volte, con il suo tono fiabesco e disincantato, leggero. Ce lo ricorda sulla carta, che è fatta di materia e non di aria, vero, ma non c’è niente di male nel fermarsi ogni tanto, lasciarsi catturare da quello strano senso di vertigine, prendere fiato e poi ricominciare a volare. Basta un respiro per modificare il paesaggio dell’aria. Post Scriptum. Ho iniziato questa recensione citando il blog di Chicca, e siccome repetita iuvant, ti consiglio di volare fin laggiù, quando ne avrai voglia.
Recensione di Marta Traverso. Un’americana a Parigi, di origini alto-borghesi, divorziata, intima amica di Henry James, scrittrice prolifica, arredatrice e giardiniera nel tempo libero, impegnata in opere di carità durante la prima guerra mondiale, prima donna a vincere il Pulitzer per L’età dell’innocenza, il suo romanzo più celebre. Nel 1903 Edith Wharton scrive un saggio di circa 40 pagine, intitolato The Vice of Reading. Un’opera rimasta inedita nel nostro Paese, finché Pier Luigi Olivi non la trova per caso in una bancarella di Barcellona e la fa pubblicare nel 2014 (editore Olibelbeg, Venezia). In difesa della buona lettura. Il vizio della lettura è un pamphlet in difesa della buona letteratura, intesa non solo come forma d’arte, ma anzitutto come veicolo di interpretazione del mondo che ci circonda. La priorità (la missione) di chi scrive è consentire a chi leggerà di apprendere cose che prima non conosceva, di ragionare e riflettere, di elaborare pensieri. Se ciò non avviene, l’esistenza stessa di un’opera letteraria perde significato. Il valore di un libro è commisurato alla sua plasticità, cioè, alla sua capacità di stimolare la mente del lettore creando nuove forme di pensiero Quando diventa vizio. La lettura, secondo Wharton, è “il mezzo che rende possibile uno scambio di idee fra lo scrittore e il lettore”. Essa diventa vizio quando si trasforma in un’azione puramente meccanica, o in pretesto per esercitare la propria vanità (leggo perché fa figo, diremmo oggi). La pratica della lettura non va confusa con la cultura: c’è una differenza, sostiene Wharton, tra il leggere tanto e il leggere bene. La scrittrice, vissuta agli albori della società dei consumi (è morta nel 1937), ha presagito la sorte del libro: non più il prodotto di una ristretta elite culturale, ma un bene di consumo disponibile a chiunque lo desideri. I migliori libri sono quelli dai quali il lettore riesce a trarre maggior beneficio. Sì, ma quale lettore? Se l’editoria determina (almeno sulla carta) una meritocrazia tra chi è degno di pubblicare il proprio scritto e chi non lo è, dovrebbe esistere un’analoga distinzione anche per chi legge? Wharton introduce qui il concetto di “lettore meccanico”. Il lettore meccanico. Il lettore meccanico, secondo Wharton, è nocivo dallo sviluppo di una buona letteratura, perché incapace di discernere la qualità dei libri che legge. Ne legge molti, troppi, freneticamente, ma il suo criterio di scelta sta nella popolarità del libro, nelle copie vendute, nel suo essere “la moda del momento”. Caratteristiche che fanno un gran bene al marketing, ma solo talvolta si accompagnano a una degna qualità letteraria. Il lettore nato. Solo il “lettore nato”, quello che sa discernere, e sa interpretare, e sa accogliere il platonico scambio di pensieri che si crea tra se stesso e l’autore, può nobilitare la lettura e fare in modo che essa non sia più un vizio. Il lettore nato è colui che sa distinguere un buon libro dalla spazzatura. Colui che legge a prescindere dalle mode, dalle opinioni altrui (e dalle top ten e dalle comparsate nei talk show, diremmo oggi). Il lettore meccanico è schiavo del suo segnalibro che ogni notte deve essere spostato in avanti. Il lettore nato è il segnalibro di se stesso. Riflessione puntuale e pungente quella di Wharton. Poiché condivido la sua premessa, che la lettura o induce riflessioni o non ha valore, ecco la mia domanda: chi siamo noi, che leggendo questo post abbiamo tirato un sospiro di sollievo, perché ci sentiamo immuni dal vizio e ci definiamo con fierezza “lettori nati e lettrici nate”, chi siamo noi per decretare un oggettivo giudizio sulla qualità (o assenza di qualità) di un qualunque libro?
Scena di apparente vita quotidiana: un ragazzo sotto la doccia. Solo che non vuole lavarsi da solo, o non è in grado, o non gli viene permesso. Sono le infermiere a farlo per lui. Ogni mattina, uno scroscio di resina di pino silvestre, il sangue degli alberi, striscia lungo il suo tronco sotto forma di bagnoschiuma, graffia la sua corteccia, soffoca le foglie tra i suoi capelli. Ogni mattina, l’acqua ripulisce l’emorragia di un albero tramutato in sapone, mentre il corpo del ragazzo resta inerte sotto le mani altrui. Ogni mattina, l’acqua ripulisce l’emorragia di un albero tramutato in sapone, mentre il corpo del ragazzo resta inerte sotto le mani altrui Con questa immagine inizia A testa in giù, romanzo di Elena Mearini appena pubblicato da Morellini Editore. Gioele abita il mondo costruito nella sua mente, confinato in un muro di silenzio che lui stesso cerca e si impone, mentre all’esterno i degenti e il personale dell’istituto tentano inutilmente di “salvarlo”. Gioele è un picchiato in testa: così si definisce, così sa di essere definito. È la sua natura. Eppure, sarebbe così semplice comprendere la verità: non siamo tutti fatti per comunicare attraverso la voce. La voce di Gioele non è quella che esce dalle vibrazioni dentro la bocca: è quella del picchiettio delle mani e dei piedi, della testa contro il muro, degli oggetti che cadono e sbattono. “La mia voce è il suono, io dico con i rumori” Sono i suoni a portarlo fuori dalle mura dell’istituto, un giorno. Sono i suoni a farlo montare su Domingo, mettere in moto, guidare per alcuni metri e quasi investire una signora in bicicletta. Maria monta sul sedile passeggero, vuole andare al Pronto Soccorso, poi no, fuori Milano, in campagna, dov’è nata e cresciuta e dove si annidano i suoi ricordi. Maria è un fiume di parole, parla, parla, parla dell’uomo che da bambina le faceva male in mezzo ai cespugli, delle patate da raccogliere, della sua mamma, del signore Gesù che lei ama così tanto, di suo marito che amava di più il vino, di sua sorella Eleonora che era incinta e nessuno la voleva. Maria parla con la voce, Gioele risponde battendo sul volante, uno-due, uno-due. Finché, chilometro dopo chilometro, sentono l’uno nell’altra il richiamo del sangue che scorre lungo le loro cortecce ferite. Un romanzo che è poesia, che traduce le immagini tipiche della scrittura di Elena Mearini in un crescendo di emozioni, attraverso due voci narranti così in apparenza lontane ma in realtà simili più che mai. Un romanzo che ci ricorda che in ciascuno di noi si nasconde una storia.
«Genova è una grande città, un punto d’arrivo, il porto di ogni partenza. La verità è che prima di allora non c’ero mai stato e quando l’ho vista l’impressione non è stata delle migliori». Inizia così Sulla Cattiva strada: con un ragazzo («Mi chiamo Angelo. E sono un viaggiatore»), Genova vista dall’alto e una giornata di pioggia. Ma non si tratta di un momento qualsiasi, lo si capisce dalle persone che riempiono le strade, dai loro volti: è il giorno dei funerali di Don Gallo. Quando nomini Don Gallo, l’aria attorno si ferma per un attimo. Che sia quella breve sospensione generata dal ricordo, che sia l’apnea momentanea che ci procura il pensiero di chi non c’è più, qualunque cosa sia, accade anche qui, alla Locanda degli Adorno. È sera, chi è seduto ai tavoli ha la posa rilassata di chi ha finito di cenare. Angelo e Roberto si presentano e introducono il loro libro, ma basta dire Don Gallo e qualcosa nell’aria cambia: qualcuno si avvicina dalla sala accanto, i tavoli si fanno silenziosi, una ragazza, rimasta in piedi, inclina la testa verso il muro e si mette in ascolto. Questo è un fumetto su Don Gallo, dove Don Gallo non compare mai dice Roberto: lo incontriamo attraverso le parole delle persone che lo hanno conosciuto e attraverso i luoghi che sono stati i suoi. Le parole diventano fumetto, le persone ritratti di volti che ti sembra di conoscere. Attraverso i luoghi e le persone: è questo il miracolo terreno, semplice e potentissimo, che lo tiene in vita. Roberto non lo ha mai incontrato. Lo rivela nella postfazione al fumetto: di lui non ho mai saputo molto, dice, ma il mio mestiere di illustratore e fumettista mi richiede di documentarmi su ciò che devo disegnare. È così che ha scoperto Don Gallo, è così che ci restituisce l’intensità di questa scoperta. Angelo, che ha dato il suo stesso nome al personaggio narrante del fumetto, racconta invece di una nottata al Righi, un rave casereccio, come lo definisce, in cui a un certo punto è comparso lui, il prete con il sigaro e il cappello a tesa larga. Gli “inviti” per quel genere di feste erano convocazioni clandestine, non si capisce come il don ne fosse venuto a conoscenza. Fatto sta che si presentò, e… la presenza di Don Gallo, quella notte al Righi, era come una raccomandazione paterna, come se il don avesse voluto sincerarsi di persona che quei ragazzi non facessero belinate Io ero un ragazzo della Garaventa, si presenta a un certo punto un personaggio che esce dalla folla a matita di Piazza de Ferrari. Al Carmine, c’è un murale che ritrae i protagonisti della protesta del 1970, quando allontanarono Don Gallo da quella parrocchia per le sue prediche. Sul murale c’è una frase, “Mi hanno rubato il prete”. Quella frase l’ha detta un bambino che piangeva sui gradini della chiesa. Quel bambino ero io, rivela un altro personaggio. È così che procede la storia, per incontri casuali ma intensi, sullo scenario vivo di una città mirabilmente disegnata. Angelo e Roberto chiacchierano, si fanno domande, e a un certo punto si impone una parola: accoglienza. Don Gallo si prendeva cura delle persone nei guai, ma anche di quelle che dai guai non sarebbero mai uscite dice Angelo. La parrocchia di San Benedetto al Porto esercita l’accoglienza, la fa concreta. Mi fa pensare per contrasto a quei recinti sociali in cui chiudiamo le persone, per poi decidere a chi interessarci, chi frequentare e chi no, per chi preoccuparci e per chi no. Perché ci si preoccupa soltanto per chi si ama, è questa la verità, e Don Gallo, che qui compare per un attimo nell’atto significativo di aprire una porta, Don Gallo questo lo sapeva bene. Sulla cattiva strada. Seguendo Don Gallo – Angelo Calvisi e Roberto Lauciello, Round Robin Booktrailer Angelo Calvisi https://geometrasbagliato.wordpress.com/ Roberto Lauciello http://robertolauciello.blogspot.it/
Recensione di Emilia Marasco. Quarto romanzo di Daria Bignardi, L’Amore che ti meriti contiene i temi importanti via via emersi nei romanzi precedenti: la famiglia e, all’interno della famiglia, l’eredità di madre in figlia, il dialogo tra le generazioni, la fatica che gli individui sostengono per stabilire una connessione con la propria reale profondità nel tentativo di essere liberi. Narrazione a due voci. La storia di Alma e Maio, fratelli ferraresi, adolescenti nei difficili anni Settanta, raccontata dopo trent’anni da Alma stessa e da Antonia in una narrazione a due voci alternate, ricostruisce la storia di una famiglia legata in modo forte alla storia di una città che è quasi una “musa inquietante” e che finisce per stregare Antonia alla ricerca del passato di sua madre, e quindi anche del proprio, soprattutto alla ricerca di sé in un momento delicato della vita, la maternità. L’incipit è solare, Alma e Maio sono i figli felici di una famiglia unita, è estate, la scuola è appena finita. Sono giovani e non lo sanno di essere felici. Poi incontrano l’eroina e, quasi per gioco su proposta di Alma, la provano. Alma ne uscirà indenne, Maio rimarrà agganciato. La felicità finisce e un giorno Maio scompare. Un segreto cruciale. La scomparsa di Maio inghiotte tutta la storia della famiglia. Alma non parlerà più di suo fratello finché, dopo trent’anni, davanti alla propria figlia in attesa di diventare madre, sentirà di doversi liberare di quel segreto. Antonia, scrittrice di gialli, deciderà di indagare per restituire il passato a sua madre, a se stessa e alle future generazioni. Cardine della storia una domanda cruciale: può l’amore essere insieme forza creatrice e distruttrice? L’amore come motore della storia. I protagonisti, sono mossi dall’amore, l’amore li guida verso scelte non sempre generatrici di felicità. Loro stessi si muovono verso l’amore, che è l’aria di cui hanno bisogno per respirare e vivere. Inevitabile un’altra domanda: l’amore si merita?
“È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie”. L’incipit di Orgoglio e pregiudizio, forse uno dei più noti nella storia della letteratura, riassume con tagliente semplicità il leitmotiv della scrittura di Jane Austen. La sua vita è trascorsa fra le confortevoli quattro mura della casa nell’Hampshire, in compagnia della madre e delle sorelle, mentre il mondo là fuori esplodeva per gli stravolgimenti economici e sociali derivati dalla rivoluzione industriale e Mary Wollstonecraft (madre di Mary Shelley, autrice di Frankenstein) pubblicava il primo volumetto britannico sul tema dell’emancipazione delle donne, precursore del movimento delle suffragette. Come classificare una scrittrice di estrazione borghese, vissuta alle spalle dell’era vittoriana e morta “senza marito” a soli 42 anni? Conformista o femminista? Inguaribile romantica o unica ispiratrice della Stanza tutta per sé di Virginia Woolf? “Ragione e sentimento”, “Orgoglio e pregiudizio”, “Mansfield park”, “Emma”, “L’abbazia di Northanger”, “Persuasione”. I sei romanzi di Austen dipingono un percorso di formazione dell’io femminile che scardina con ironia le convenzioni sociali in cui la stessa autrice vive e nelle quali ha piena fiducia. Le sue protagoniste-tipo, che non hanno precedenti in letteratura, sono consapevoli del loro ruolo nella società – in cui avere un marito e una dote ha un’importanza cruciale – ma rivendicano la volontà di sposarsi per amore e per libera scelta, non per imposizione o convenienza. Le donne e gli uomini che ambiscono a tale destino, ricordiamo, sono i villain, i “cattivi” (o le “cattive”) della storia (Lucy Steele, Charlotte Lucas, Mr Elton). L’esplosione finale delle sue storie non è il matrimonio, ma la ricerca della felicità. La costante ricerca di qualcuno da amare non si limita alla vita matrimoniale. Nessun personaggio di Austen agisce nella solitudine, ciascuna ha un proprio contraltare in una co-protagonista – quasi sempre diversa per carattere e ambizioni – con cui coltiva un profondo legame di sorellanza. Pensiamo a cos’ha rappresentato Jane Bennett per la sorella Elizabeth, Elinor Dashwood per Marianne, fino a Lady Russell per Anne Elliott. Visti uno dopo l’altro, nell’ordine cronologico in cui sono stati scritti, i sei romanzi costituiscono un inedito percorso di formazione, in cui le protagoniste (come fossero sei facce di una stessa medaglia) sperimentano una «trasformazione del sé in relazione con l’altro.» Il saggio di Liliana Rampello “Sei romanzi perfetti“, edito da Il Saggiatore, analizza dunque la produzione narrativa di Austen nelle sue tre dimensioni essenziali: personaggi, trama e spazio. Uno dei pregi delle sue opere è che a distanza di tempo, anche se non ricordiamo nel dettaglio gli snodi narrativi di ogni singolo romanzo, abbiamo ben visibili nella mente alcuni elementi cardine. Anzitutto le storie avvengono in uno spazio perimetrale ben definito (la tenuta, la villa, il piccolo villaggio, precisi quartieri di Londra), che assume un significato simbolico nel momento in cui il possesso o meno di un’abitazione dignitosa è essenziale per il consenso al matrimonio. La “povertà” di Frederick Wentworth in “Persuasione”e di Edward Ferrars in “Ragione e sentimento” ne sono un esempio. Vi sono poi alcuni topoi che ritroviamo in ogni opera: l’inchino di saluto quando uomini e donne si ritrovano nella stessa stanza, i ricevimenti in maestose sale da ballo, le fanciulle colte da svenimento, l’invio furtivo di lettere e biglietti. Non si trovano riferimenti alla Storia, al mondo che avanza al di fuori delle quattro mura in cui le protagoniste vivono la propria educazione sentimentale. Il mondo descritto da Austen procede lineare, senza svolte improvvise e colpi di scena: sono i dialoghi tra i personaggi, in particolare fra uomini e donne, a essere essi stessi azione. L’eroina è capace di mantenere, nella conversazione con un uomo, il proprio autonomo punto di vista sulla realtà, ed è così profondamente consapevole dell’antica e logora disputa fra uomini e donne sulle possibilità di queste ultime di fare quello che vogliono, da zittire molto ironicamente, quando ne ha l’occasione, il suo interlocutore.
Recensione di Sara Boero. Ci sono lettori voraci e appassionati che non hanno mai esplorato l’universo del fumetto, ritenendolo lontano dai propri gusti e dai propri interessi. Questa larga fetta di lettori sta inconsapevolmente perdendo l’opportunità di scoprire dei romanzi meravigliosi. Alan Moore può essere un ottimo punto di partenza per appassionarsi a questa forma narrativa. Naturalmente sarebbe impossibile compilare una “guida” esaustiva sui migliori romanzi a fumetti: ho scelto di restringere l’oggetto di questo post ad Alan Moore, il mio autore di graphic novel preferito. Per un lettore che si avvicina al mondo del fumetto può essere un ottimo punto di partenza per appassionarsi a questa forma narrativa un po’ diversa ma sicuramente ricca di tesori meritevoli di essere scoperti. Watchman. Alan Moore è giustamente considerato uno degli autori più importanti, complessi e affascinanti di questo settore. Se siete incuriositi dal mondo dei supereroi vi consiglio di cominciare da Watchmen: un romanzo a fumetti atipico, profondo, popolato da una galleria di personaggi borderline e sfaccettati. Uscita originariamente in dodici albi mensili per DC Comics tra il 1986 e il 1987, la serie è stata ripubblicata in Italia anche in un volume unico (decisamente imponente: i romanzi a fumetti sono una maledizione per i lettori da spiaggia e fanno la felicità dei lettori da scrivania). From Hell. Se i supereroi non fanno per voi, nemmeno nelle loro vesti umane e tormentate, può essere che troviate più interessanti gli antieroi. Mi sbilancio: From Hell è probabilmente il mio romanzo a fumetti preferito. I dieci albi che lo compongono hanno avuto una genesi più lenta (1991-1996), ma sono stati anch’essi raccolti in un unico, comodo, Dinosauro Da Libreria. Si tratta del racconto di un’ipotesi sulla vera identità di Jack lo Squartatore, autore degli efferati delitti irrisolti di cui è stata teatro la Londra vittoriana. Questo lavoro è frutto dello studio di anni sul caso, da parte di Alan Moore, che oltre ad essere scrittore è uno storico e un letterato coltissimo, molto esperto in particolare di occultismo ed esoterismo. Il risultato è un’ipotesi verosimile e convincente, storicamente accurata e documentata, ma anche avvincente dal punto di vista giallistico e narrativo. Colpiscono la fantasia del lettore anche i numerosi collegamenti tra gli eventi più diversi accaduti a Londra durante il periodo di “attività” dello Squartatore: sono gli anni di Elephant Man, sono i mesi in cui il “circo” di Buffalo Bill portava il suo spettacolo nella capitale inglese. La Lega degli Straordinari Gentlemen. Sull’accavallarsi storico degli eventi e delle leggende gioca anche La Lega degli Straordinari Gentlemen, che vede come protagonisti i personaggi di fantasia di romanzi famosi ambientati in epoca vittoriana (dal Capitano Nemo, al dottor Jekyll ad Allan Quatermain). Il fumetto era meglio. Un dato curioso: sia da tutti i fumetti citati che da altri due dello stesso autore (Constantine – di cui Moore non è autore ma ideatore originale del personaggio, e V per Vendetta) sono stati tratti dei famosi blockbuster, in certi casi di buon livello in certi altri di qualità catastrofica. I risultati cinematografici ispirati ai fumetti mi spingono ad una riflessione. Mi è capitato di trovare film che “arricchissero” e “migliorassero” in qualche misura il romanzo da cui erano tratti (sto pensando per esempio a Fight Club, Arancia Meccanica o Shining). A mio gusto, però, non ho mai riscontrato un risultato analogo nei film tratti da fumetti: mi sembra sempre che il livello, per quanto buono, si abbassi rispetto all’originale, mentre con i romanzi è possibile il contrario. Voi cosa ne pensate?
Recensione di Sara Boero. Lui è tornato è un romanzo inclassificabile: fantascientifico, fantapolitico, irriverente, attuale. Divertente, di quel divertente da brividi lungo la spina dorsale. Basato su una premessa surreale da accettare proprio così come ci viene proposta: nella Germania di oggi Hitler si risveglia. In senso letterale. In un campetto sportivo di Berlino. Il suo ultimo ricordo è che si trovava nel bunker con Eva Braun, poi… il buio. Un lunghissimo buio di quasi settant’anni. La Germania è cambiata, il mondo è cambiato, lui non è cambiato. Ed è tornato. Il suo ultimo ricordo è che si trovava nel bunker con Eva Braun, poi… il buio. Un lunghissimo buio di quasi settant’anni. La Germania è cambiata, il mondo è cambiato, lui non è cambiato. Ed è tornato. Perché lo consiglio a un lettore: Perché Lui è tornato è un libro che ti apre gli occhi sugli abissi in cui rischia di precipitare una nazione durante una crisi globale. L’Hitler redivivo, nel romanzo, compie una funambolica scalata al successo grazie all’attenzione dei media: nessuno, ovviamente, crede che si tratti del vero Hitler. Viene creduto un abilissimo imitatore, un comico, un provocatore dalla satira tagliente. E finisce per ritagliarsi una folla di ammiratori sempre più grande grazie alla televisione, avendo però chiaro in testa un unico obiettivo: ricostituire il Terzo Reich. Lo consiglio, perché Lui è tornato, edito da Bompiani, riesce contemporaneamente nel duplice, difficilissimo obiettivo di far ridere e intrattenere mantenendo il cervello in stato di allerta. In certi momenti, in stato di allarme. Perché lo consiglio a uno scrittore: Ci sono due importanti motivi, secondo me, per cui uno scrittore dovrebbe leggere questo romanzo. Il primo ha a che vedere con la costruzione del personaggio: Lui è tornato è raccontato in prima persona da Adolf Hitler. Un Adolf Hitler assolutamente coerente con il personaggio storico, che però riesce ad essere in qualche modo anche una macchietta di se stesso, senza perdere credibilità. Lo straordinario equilibrio tra la figura storica e la caricatura è uno dei punti di forza di questo romanzo, e sicuramente una lezione da imparare. Una lezione raffinata e difficile. C’è anche, però, una lezione “semplice”: la libertà della scrittura. Il nome di Hitler in Germania fa ancora molta paura e molto effetto. Timur Vermes, al suo esordio alla narrativa, ha avuto il coraggio di farlo tornare: di mettere una nazione intera faccia a faccia con i suoi incubi in maniera elegante, ironica, ma anche crudele. In questo senso è sicuramente un esempio da seguire, a qualsiasi livello: Lui è tornato non è motivato dal “bisogno di provocare”, ma dall’onesta urgenza di una storia da raccontare. Lo consiglio, perché è stato l’esordio che mi ha convinto di più nel 2013 e nel 2015 ne è stato tratto un film.
Perché leggere Terry Pratchett di Barbara Fiorio. Per dare il titolo al Laboratorio di Scrittura Ironica che ho tenuto nel novembre 2013 a Officina Letteraria, ho scelto una frase di Terry Pratchett, presa da uno dei suoi ultimi libri tradotti in Italia, Tartarughe divine. Avrei potuto citare Pirandello, Calvino o Flaiano, avrei potuto tuffarmi negli aforismi di Wilde, avrei potuto scomodare Rabelais o persino Shakespeare. Tutti scrittori che hanno fatto dell’ironia, del sarcasmo, dell’umorismo sottile, ma anche della comicità, capolavori della letteratura. Il sarcasmo con certe persone è utile quanto lanciare meringhe a un castello E invece ho voluto rendere omaggio, un minuscolo omaggio, a un autore tra i più conosciuti nel mondo anglosassone, tradotto in 37 lingue, in milioni di copie. Di premi, riconoscimenti e lauree honoris causa ne ha piene le mensole, grazie ai quaranta libri che ha pubblicato negli ultimi trent’anni. Eppure, solo la metà è stata tradotta in Italia. Potrei parlarvi almeno di questi venti, direte voi, o almeno di uno di questi venti, ma prima vorrei spiegarvi perché secondo me Terry Pratchett lascerà un’impronta indelebile nella letteratura del nostro tempo (di che forma sia poi quell’impronta, ha poca importanza). Fa ridere alle lacrime. Fa ridere. Certo, fa ridere. Fa ridere alle lacrime, fa ridere in modo intelligente, colto, sottile. E fa sentire intelligenti mentre si ride, fa sentire adulti anche se si parteggia per un troll. Incanta con il suo sarcasmo, con la raffinatezza delle metafore, con l’eleganza nel toccare qualsiasi tema, dalla politica alla religione, dalla filosofia alla superstizione, dal sesso alla magia, dalla storia alla morte. Conquista con la sua genialità, con i giochi di parole e perché non è mai scontato. Lui soffia sulla mediocrità umana e la eleva fino a renderla commovente, se gli va. Fa il giocoliere con i dubbi e le paure, con i meccanismi della gente comune e con le astuzie di chi governa il mondo, e non si pone il problema di raccontare le sue storie in mezzo a draghi, golem o gilde di assassini. Anche Goethe è Fantasy. Chi ha bisogno di definire il genere, lo definisce fantasy. Sarà. Allora sono fantasy anche Goethe, Shakespeare, Dante e Omero. Se avete voglia di scoprirlo, seguite le sue Guardie cittadine su Mondodisco, partendo da A me le guardie!, Uomini d’arme e Piedi d’argilla. Oppure leggete Streghe all’estero, dove tre streghe irresistibili e un gatto sono alle prese con un lieto fine imposto da una fata madrina dittatrice, o Morty l’apprendista, dove la Morte – che parla rigorosamente MAIUSCOLO – cerca un apprendista per andare in vacanza tra gli umani, o Il tristo mietitore, dove la Morte viene licenziata (e noi tifiamo per lei). Ma se volete uscire da Mondodisco, fate amicizia con Il piccolo popolo dei grandi magazzini, dove i Niomi (sic!) cercano rifugio in un grande magazzino che si rivela essere un mondo a sé, con strutture sociali e religiose ben precise. E se vi incuriosisce vedere come se la cava Terry Pratchett insieme a un altro grande autore come Neil Gaiman, be’, non mi resta che augurare: Buona Apocalisse a tutti.
Recensione di Sara Boero. Mettiamo che io voglia convincervi che non esistono barriere tra la letteratura per ragazzi e quella per adulti. Volete davvero che vi consigli Alice nel paese delle meraviglie o Il mago di Oz? O preferireste offrirvi come sacrificio umano piuttosto che scoppiarvi due classici triturati e sminuzzati da TV, cinema, topolini e merchandising per tutto il ventesimo e ventunesimo secolo? Vi capisco, credetemi. E vi capisce anche Neil Gaiman, il più famoso autore contemporaneo tra quei pochi paladini della libertà artistica che lottano per abbattere ogni muro tra generi, mezzi di comunicazione e linguaggi. Un libro straordinario. Nessun dove è un libro straordinario, pirotecnico, in cui l’universo fantastico e l’immaginario infantile sono perfettamente calati in un mondo urbano, crudo e adulto. Non aspettatevi pasticci per signorine alla Twilight: qui gli incubi sono incubi veri, le leggende prendono vita e i sogni diventano reali nel modo più intrigante (e disturbante) possibile. L’ho consigliato l’anno scorso ai Laboratori di lettura di Officina Letteraria. Perché lo consiglio a un lettore: Perché è un bel libro. Primo. Perché è un racconto di formazione, se vogliamo “al contrario”, che ci fa intraprendere un viaggio nel tempo per tornare bambini pur restando adulti. Il protagonista, un ragazzo di provincia trasferitosi a Londra, si trova costretto a calarsi nella Londra di sotto. Una città sotto la città, in cui l’impossibile è all’ordine del giorno e gli angeli vivono con le creature mitologiche, i mendicanti, i guerrieri e i re delle carrozze di treni della metropolitana in disuso. Il confronto con il buio, con i nostri peggiori incubi e con la paura è uno dei temi più toccati da Neil Gaiman in tutta la sua produzione: ricordate Coraline e i suoi mostri con bottoni al posto degli occhi? Se sì, siete preparati al peggio. E soprattutto siete pronti ad abbandonarvi a questo straordinario omaggio alla letteratura classica per ragazzi e a riscoprire luoghi della vostra infanzia che forse avevate dimenticato. Vi lancio un nome: Marchese di Carabas. La prima volta che ho letto Nessun dove alla comparsa di questo personaggio sono rimasta con un punto interrogativo in testa. Non mi ricordavo proprio dove lo avessi già sentito. E quando mi è tornato in mente mi sono detestata per essermelo scordato. Perché lo consiglio a uno scrittore: Prima di tutto perché la genesi di questo libro è molto “educativa” per chiunque scriva o voglia scrivere. Nessun dove è uscito in almeno tre versioni successive ed è nato come sceneggiatura televisiva per una serie della BBC. Gaiman non era soddisfatto del risultato sullo schermo e ne ha tratto un romanzo, su cui ha rimesso le mani più volte nel corso degli anni, facendo ristampare e ritradurre il volume in edizioni diverse. Gaiman-non-era-soddisfatto-del-suo-lavoro. Gaiman. Non so se il messaggio è chiaro. Quasi sicuramente se siete soddisfatti della prima stesura di una vostra opera state facendo un errore, perché potrebbe migliorare. Ritornare al lavoro su un libro finito è molto difficile (a volte anche psicologicamente) ma per fortuna ci sono i lettori e gli editor, quell’occhio esterno e fresco che può aiutarvi a capire dove il testo è debole. Non fidarsi di questi pareri, o pensare che la propria Opera Immortale Sia Intoccabile, è una presunzione gravissima che per il bene dei vostri libri non dovete assecondare. Fidatevi degli altri: la scrittura è condivisione, è lavoro prima di tutto individuale ma poi anche collettivo, nel momento stesso in cui qualcuno vi legge. Secondo punto di forza: la struttura del romanzo riprende le funzioni di Propp in maniera fedelissima, da manuale. Leggere “Nessun dove” è un ottimo modo per rinfrescare gli archetipi della fiaba e della narrazione tradizionale, e poterli utilizzare con maggiore scioltezza e cognizione la prossima volta che vi siederete al computer.
Recensione di Ester Armanino. La persona che ami è per il 72.8% acqua. Il motto del designer inglese Alan Fletcher coglie l’essenza più intima di “Le onde”. Un libro “che ha il tempo come materia e l’essere come struttura” (Nadia Fusini) ma anche e soprattutto un libro sull’acqua, intesa come componente principale della nostra vita e del nostro pensiero (lo “stream” della coscienza). La vita rappresentata in “Le onde” è lo stato liquido e mutevole dell’esistenza: l’infrangersi del nostro mare interiore contro la durezza della materia solida, delle cose che restano immutate nel mondo. I sei personaggi di “Le onde” si relazionano tra loro e spesso non si comprendono, si amano e si odiano, si separano nel tentativo di scindersi e distinguersi come gocce, però poi inevitabilmente si cercano, hanno bisogno l’uno dell’altro non solo per trovare forma e confini del proprio essere – come l’acqua in un contenitore – ma anche per poter mescolare le proprie vicende di uomo o donna in una soluzione dove il “solvente” è la comune condizione umana, elevata a memoria collettiva. Fingiamo che la vita sia una sostanza solida, a forma di globo, che facciamo girare tra le dita. Fingiamo di poter ricavare una storia semplice e logica, in modo che quando un argomento è liquidato – per esempio l’amore – possiamo passare in buon ordine al prossimo. Così, come in una fotografia dimenticata tra le pagine, si ha l’immagine delle mani di Virginia che intrecciano le storie dei personaggi in una ghirlanda che poi lasciano andare lungo il fiume, in balia della corrente. Uno spazio apparentemente protetto, definibile almeno internamente , dove c’è moltissimo, l’esuberante quantità di stimoli e pensieri e metafore che fanno roteare la ghirlanda in un vortice su se stessa, minacciandola di sciogliersi da un momento all’altro. Tuttavia resta chiara una precisa volontà, qualcosa che passa dalla stelo di un fiore all’altro: non venire meno a quel patto – non di sangue ma d’acqua – stipulato nell’infanzia, e cioè di condividere ogni bene e ogni male della vita nell’amicizia. Perché lo consiglio a un lettore: La lettura di “Le onde” è una specie di travaso di sensazioni, pensieri, emozioni, che mette in contatto la sensibilità del lettore con quella di una delle più grandi autrici del secolo scorso, abbattendo i riferimenti di tempo e spazio, come solo l’arte riesce a fare. È un’esperienza di ciò che siamo e anche di ciò che è l’arte. “Quando scrivo non sono che una sensibilità”, appunta la Woolf nei suoi diari. Questa sensibilità permea da cima a fondo “Le onde”, e si trasforma in capacità di accogliere “la sensazione del canto del mondo reale” per farne letteratura, portando quest’ultima a livelli vertiginosi. Perché lo consiglio a uno scrittore: Per ascoltare la scrittura. Dice la Woolf, sempre nei suoi diari: “io scrivo a ritmo, non a trama”. E Marguerite Yourcenar, in un saggio del 1937, definisce “Le onde” come un “racconto musicale”, un brano per orchestra dove ciascun personaggio è uno strumento, e dove la sinfonia degli allegro dell’infanzia gradualmente cede il posto agli andante lento dell’età adulta fino alla vecchiaia. Penso possa essere molto utile, a chi scrive, tentare questo approccio. Accordarsi a un dettato interiore ed esteriore e cercare un ritmo. Per scrivere (e per vivere), questo ci trasmette Virginia Woolf, dobbiamo assecondare l’incontro-scontro tra due ritmi: quello più grande che ci contiene ed è ciclico, imprevedibile, eterno, e che non può essere cambiato ma solo percepito; quello del nostro sforzo individuale, misurabile e dispendioso, che possiamo scandire in modo personale, scrivendo la nostra parte oppure, per restare nella metafora, suonando il nostro assolo.
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