Pelle. È chiaro al primo sguardo.

Non perché l’informazione dai tuoi occhi sia arrivata al cervello, non perché la vista ti abbia realmente informato di qualcosa, niente di tutto questo. Perché si sente e basta, perché la tua carne ha riconosciuto la carne. È un tocco, è conoscenza preverbale.

Guardiamoci, sembrano dire. Facciamolo da vicino.

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Annalisa arriva al nostro appuntamento un po’ trafelata, come avesse fatto la strada di corsa. È lei a riconoscermi per prima. Ci sediamo a un tavolino all’aperto – sono una fumatrice incallita, mi informa – e incominciamo a chiacchierare. Che cosa voglio sapere? Non so. Le curiosità sono tante dopo aver curiosato nel suo sito, ma ogni domanda mi sembra invadente: la lascio parlare.

E Annalisa mi racconta di Ettore (ti faccio un esempio, mi dice).

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C’è un passo dell’Iliade in cui Ettore viene colpito con la lancia da Achille. Ettore è protetto dalla sua armatura, è quasi invulnerabile. Quasi: “…vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte. Qui Achille lo colpì…”. C’è un varco in quell’esoscheletro di bronzo, una fessura che scopre una piccola porzione di pelle. La lancia affonda in quel punto esatto, mi è sembrato di sentire il dolore qui, indica, per molto tempo. Le persone non amano essere guardate da vicino, ma io ne sento l’esigenza.

Osservo la mia pelle, quella degli altri, fino a distinguerne i pori

Fino a vederci attraverso, penso io, fino a che le pieghe di una mano, le pieghe di pelle di un pugno chiuso, diventano (o tornano ad essere?) un paesaggio che si può abitare. E in quelle cavità che spingono gli occhi nel profondo, risuonano echi di voci perdute, di una vita intrauterina, forse, di cui abbiamo perso il ricordo cosciente, ma non la memoria.

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Perché la memoria è nel corpo. La memoria è il corpo.

Guardiamoci. Facciamolo da vicino. Che cosa sappiamo di noi?

Annalisa lavora con la tecnica dell’olio su tela, ci impiega moltissimo a fare un quadro, bisogna aspettare che il colore asciughi per metterne un altro, mi spiega. Utilizza anche fotografia e video, talvolta indagando lo stesso soggetto attraverso tutti questi linguaggi. Mi dicono che faccio troppo, ma capita che una tecnica sia lo studio per un’altra. A volte sono necessari molti linguaggi per dire compiutamente qualcosa. Nella mia testa si formano le parole: cantiere di un corpo.

Parliamo della body art, che ha affascinato Annalisa, ma sarebbe volgare adesso, dice. Nel mio lavoro il corpo è mostrato per quello che è, come a dire che non c’è bisogno di un intervento, di una sovrapposizione di segni, perché sia portatore di senso. Lo si può mostrare così, con fascinazione e rispetto.

Guardiamoci, facciamolo da vicino, sembrano suggerire.

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e recupero il mistero della prima ferita, risento sapore di sangue (pelle graffiata, sbucciata, pelle cambiata milioni di volte). Recupero la memoria prima, del primo contatto (labbra premute, un dito nell’ombelico, un pollice che esplora una bocca tutta nuova).

La pelle è l’organo più esteso del nostro corpo, l’unico organo di senso di cui non possiamo fare a meno

(mani sul viso, fai piano, mani che ti insegnano a dosare le carezze). Senza pelle non possiamo sopravvivere. Ci protegge, ci espone.

Avviciniamo lo sguardo. Non cerchiamo di indovinare, di interpretare.

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Lasciamoci sentire, abbandoniamo a terra le parole: è stato allora, quando ancora non avevamo un nome per tutte le cose, che ne abbiamo fatto esperienza.

Con il tatto, e da vicino. Closer.

Closer, di Annalisa Pisoni Cimelli. Presso Officina Letteraria, dal 6 Dicembre al 24 Gennaio

 

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