Ottavo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016.
Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni.
Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo!
Il frate alcolizzato e il boia in attività
di Francesca Carlaccini
Quest’uomo turba la mia quiete. Ha un sorriso titubante e ingenuo che stride con i suo i gesti netti e il modo in cui si tormenta le mani. Come se le sue mani ruvide e vecchie di duecento anni ancora ricordassero gesti realizzati con maestria e conclusi con raffinatezza.
Tutti abbiamo una vocazione in un dato luogo e un dato tempo. La mia ad Apricale è questa: scoprire i segreti di quest’uomo che si fa chiamare Il Boia.
L’ho già incontrato un po’ di volte: il luogo e l’ora sono sempre gli stessi. Sei del mattino, al tavolo che guarda verso Perinaldo.
Il barista gli porta 2 litri di latte in una caraffa di vetro. Lui, religiosamente rivolto verso il panorama, beve bicchiere dopo bicchiere con una determinazione inquietante, fino a svuotare la caraffa. Risparmia solo le ultime gocce che fanno resistenza e che alla fine del rituale scivolano discretamente sulle pareti trasparenti.
Sento di essere in una posizione privilegiata e di poter disturbare le sue abitudini solitarie. Mi siedo al tavolo con lui per osservare da vicino i suoi automatismi fedeli, che mi vengono consegnati con la stessa discrezione, goccia dopo goccia.
E cosi goccia dopo goccia, ha confessato di sentire il bisogno del latte e dei paesaggi immobili e pacifici del mattino per contrastare gli incubi notturni. Le sue spalle formano un perfetto angolo retto con il collo e nascondono una tensione muscolare tale da farlo sembrare una macchina da guerra, capace di attutire i colpi di una vita lunghissima.
Ma non mi basta, ho bisogno di più informazioni.
Devo afferrare l’essenza nascosta di questo sguardo taciturno, le storie sotterrate e ripudiate dalla sua memoria, ma registrate sottobanco dai suoi tessuti muscolari. Perciò l’ho invitato a mangiare al ristorante credendo che un buon pasto e del buon vino gli avrebbero sciolto la lingua. Arriva in tavola lo stinco di maiale locale. Lo vedo frugare nella tasca dei pantaloni e recuperare un coltello.
Incide un primo taglio nella carne morta servita nel suo piatto e poi mi porge il coltello perché lo osservi meglio.
Il manico di legno sembra molto antico, la lama consumata. Me lo riprende e si rimette a sezionare il porco con chirurgica precisione. Comincia a parlare solo una volta terminata la prima bottiglia di vino, quando le mie gote sono ormai infuocate e io provo un misto tra terrore ed eccitazione. Prima di parlarmi lascia passare un interminabile silenzio.
“Se sei veramente un uomo di chiesa, dovresti essere abbastanza colto per sapere cosa rappresentano le incisioni sul coltello.”
“Non cercare di ingannarmi: intanto i boia non incidevano le tacche delle loro esecuzioni su un semplice coltellaccio, ma bensì sulla mannaia. E poi non scherziamo, cosa ci farebbe un boia nel 2016?”
Il pasto ormai è terminato, nel poco tempo che rimane riesco solo ripetergli frasi fatte sulla bontà degli uomini a cui nemmeno io credo più.
Pago il conto e comincio a vagare alla ricerca di un rifugio: mi sento come un bimbo terrorizzato dal buio. Cammino tra scaglie di calcare, ruscelli borbottanti, cortecce antiche, lucertole indolenti, formiche, libellule che tentano di persuadermi dell’equilibrio perfetto del ciclo universale. Ma tutta questa bellezza è illusoria di fronte alla crudeltà umana.
Ho bisogno di immergermi in acqua gelida, ho bisogno di sentirmi immobile e in pace per contrastare i miei tormenti. Scendo al torrente, ai piedi di un sentiero che sembra porti lontano, dietro i monti e ancora oltre. Mi siedo su una rudimentale panchina, tentato dall’idea di scomparire dietro i monti come il sentiero.
È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola…
È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola: noto un libro nascosto sotto la panchina.
L’autore è una certa Giada Prestanza. Il titolo è Ultime scuse del boia.
Comincio a sfogliarlo con ritmo convulso, ogni capitolo è illustrato da un ritratto fotografico in bianco e nero. Lo richiudo e faccio un lungo respiro. Sembra incredibile ma è proprio la storia che stavo cercando. Riapro il libro al prologo e comincio a leggere. È la vita di un ex partigiano e delle sue esecuzioni antifasciste.
“Dedico questo libro a chi questo libro me lo ha raccontato: mio nonno Aldo Prestanza.”
Scorro le pagine fitte di foto in bianco e nero, datate dal ‘43 al ‘45, alcune anonime, altre eccentriche, altre ancora malinconiche.
Durante la Resistenza non tutti erano pronti a sporcarsi le mani, anche se in nome della giustizia. Se nei tempi antichi il boia serviva a far rispettare la legge, per i partigiani della zona il boia serviva a far rispettare la giustizia.
Ma la giustizia era illegale.
Aldo Prestanza era quindi il mio boia. La mano che aveva sgozzato i ragazzi delle foto era la stessa che aveva stretto la mia.
Allora era giovane come loro. Portavano i fascisti su per i monti di Rocchetta Nervina dove già abitavano i fantasmi. Lassù avvenivano le esecuzioni.
Per ogni testa, una tacca sul coltello.
Richiudo il libro. Se la Provvidenza non ci aiuta a ritrovare la nostra storia, può venirci in soccorso per il bene di qualcun altro.