È una di quelle mattine in cui niente può andar male. In cui tutto gira per il verso giusto. Non sai neanche tu perché. E non lo sa neanche Emilia, con le dita delle mani ancora fredde dalla notte precedente. Andrai nel posto più noioso e triste del mondo, lo sai vero? E da sola, pure. Mamma mia, non ti invidio. Persone che le parlavano prima della partenza. Con tutti i loro consigli saggi e non richiesti. Emilia si stringeva nelle spalle, sì sì va bene. Come se fosse importante, ascoltare gli altri. E soprattutto, dargli retta. E così, niente. È partita…

Incomprensibile felicità

di Laura Caruzzo

È partita come ha sempre fatto. Perché il problema non è partire; il problema è tornare. Ogni volta che si lascia alle spalle la sua città, la sua nazione, tutto l’amore e tutto l’odio verso casa si ingarbugliano in un nodo inestricabile, si intrufolano nel cassetto dei cd, non ne escono fino al ritorno. Che se ne stiano lì, incollati.

Ha guidato su strade lunghissime, ha mangiato cose immangiabili, ha conosciuto persone alte e poco simpatiche. Si è perfino innamorata, una volta o due. Il tempo di una sera, in uno di quegli scenari da film romantico o d’avventura, uno di quelli che non si avverano mai.

E poi via, senza voltarsi indietro, avanti verso tutto il nuovo e tutto il bello che sicuramente la stanno aspettando da qualche parte.

E adesso è qui, in ciabatte e maglione, quello sformato, quello blu e bianco, con il vago retrogusto di un Natale norvegese particolarmente freddo. Davanti a una colazione così calorica e deliziosamente belga. Saluta con un cenno i signori della camera di fronte alla sua, una coppia di tedeschi sulla sessantina che leggono il giornale con una concentrazione fuori luogo per una mattina nebbiosa che in realtà è ancora un’alba.

Non sa spiegarsi il perché, Emilia, ma davvero sente che niente potrebbe andar male. Né quel giorno, né in quelli a venire.

Non è una sensazione chiara, è solo strana.

Non le capita così spesso di sentirsi così inutilmente felice, o forse così felice per cose inutili.

Per niente in particolare.

È come se, per una volta, bastasse il semplice fatto di essere lì. Sprofondata tra giornali francesi, profumo di caffè, quella che non è nebbia ma solo foschia che preme sulle finestre. Sarà una giornata di sole. Sicuramente.
Potrebbe anche fumarsi una sigaretta, prima di mettere definitivamente in moto il cervello, vestirsi, iniziare il solito tour culturale in cui si trascina (‘trascinare’, in realtà, non è il verbo corretto. Non rende l’idea di tutto l’entusiasmo che sicuramente le salterà in spalla una volta svegliatasi definitivamente) ogni volta che visita una città nuova.

Sale nella sua stanza, un buco di una manciata di metri quadrati che però è riuscito a farla sentire a casa dal primo momento in cui ci è entrata. Prende le sigarette e nient’altro. Si chiude dietro la porta, percorre il corridoio salterellando, si lascia alle spalle quell’adorabile pensione.

Cammina senza pensare a niente in particolare. Osserva i primi negozi che tirano su le saracinesche, i bar, gli uomini stretti in giacche pesanti che vanno a lavorare. Prova anche un leggero senso di pena per loro, perché andranno presto a rinchiudersi in un ufficio, in una banca, ovunque siano pagati per fare qualcosa che non vogliono fare

Emilia no.

Arriva in piazza. Sospesa in quest’atmosfera irreale, sonnolenta, senza contorni definiti. La sigaretta è quasi finita e le brucia l’indice.

È allora che qualcosa nella sua testa pare scattare, o accendersi: è buffo, perché fino a quel momento non si era resa conto di essere in ciabatte e senza pantaloni nel centro della città.

E fa anche un discreto freddo, a dire il vero.

Probabilmente è il caso di tornare indietro. Vestirsi, magari. Tornare nel mondo dei civili e delle persone razionali. Abbandonare quell’attimo di pura e incomprensibile felicità.

Poi, un altro dramma.

Un urlo incrina quel silenzio di vetro. Un uomo le si avvicina di corsa. A pensarci, a ripensarci tempo dopo, Emilia non è per niente sicura che abbia gridato. O che le si sia gettato incontro con l’irruenza che le è rimasta scolpita nella memoria. Il signore belga si ferma davanti a lei. Le fa una domanda che perfettamente si adatta a quel clima surreale: non è importante la lingua in cui si esprime. Emilia lo capisce, e tanto basta.

«Può allacciarmi la scarpa, per favore?»

La risposta le esce dal cuore. Che in realtà non è una risposta, ma è un’altra domanda.

«Perché?»

Forse anche un po’ sgarbata.

«Perché è l’unica cosa che non riesco a fare da solo», e sembra parlare con quel braccio che non ha, per dimostrare di non essere del tutto ammattito.

Emilia non ci rimane male, non ci rimane in nessun modo.

È normale. Si china e gli allaccia la scarpa.

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