Tra le persiane
di Cristina Biglia
Jean apre gli occhi nel buio della stanza, un rumore leggero ha attirato la sua attenzione.
Il cuore ha un’accelerazione involontaria, i sensi all’erta. Le lunghe notti trascorse abbracciato al fucile con la guancia a riposare sulle pareti fangose della trincea di Somme l’hanno addestrato a percepire anche il più piccolo spostamento all’interno del suo spazio.
Una striscia di luce come una lama affilata trapassa le imposte chiuse e gli colpisce la retina, provocandogli un moto di nausea alla bocca dello stomaco. Rivede ancora le esplosioni dietro le palpebre, le schegge incandescenti degli shrapnel come fuochi d’artificio alla festa del paese.
Riapre gli occhi, in sottofondo sente l’acciottolio rassicurante della madre che rassetta in cucina, ma c’è qualcos’altro, un rumore nuovo, impercettibile, qualcuno che si muove nella sua stanza.
Nessuno deve entrare. Gli amici non sono ammessi, neppure Maria, che passa spesso sotto le sue imposte chiuse, anche se la madre glielo avrà già detto cento volte “Maria trovati un altro giovane, non si può mettere su famiglia con uno così”.
Jean non ha rimpianti, ha già deciso tutto, a Maria non ci pensa più. Gli dispiace per lei, se lo vedesse, la smetterebbe di passare lì sotto e di chiamarlo.
La sua vita futura gli è molto chiara, non ci saranno sorprese come per gli altri suoi amici, prova quasi pena per loro. Lui sa già che vivrà e morirà in quella stanza. Al buio.
Ha scoperto che ci sono dei sotterranei nell’anima, dei sensi vivi in quel che resta del suo corpo. E lì che inizia il suo viaggio, l’esplorazione, è lì che vivrà.
La vita come la conosceva prima può rimanere fuori, per lui non esiste più.
Ancora quel rumore, simile a un fruscio di vesti, a un frullo, è lì vicino a lui.
Si mette seduto puntandosi sui gomiti, si abitua alla penombra della stanza.
Il rumore viene dalla finestra. La luce che filtra fra le gelosie verde scuro della persiana si diffonde intorno e lo abbaglia, come un dio prepotente che voglia entrare di forza nella sua stanza.
Qualcosa si muove al margine inferiore della persiana chiusa, nella striscia di luce che la separa dal davanzale. Spostandosi nel letto con le braccia, Jean si avvicina: ora le vede, sono le zampette delle rondini, che passeggiano avanti e indietro come sentinelle sul marmo della finestra. In qualche modo, in quel mondo impazzito di guerra là fuori, deve essere tornata la bella stagione.
Jean batte le mani, lancia un urlo, vuole cacciarle. Ma le rondini lo ignorano, continuano a disegnare arabeschi di ombra e di luce col loro passeggiare impertinente. Ogni tanto una di loro si stacca dal davanzale, Jean la immagina volare nella vallata, la sente garrire. Dopo il volo tornano sempre alla sua finestra, attratte da qualcosa di misterioso. Non se ne vogliono andare.
Gli occhi di Jean si riempiono di lacrime, è come se la vita stessa premesse contro la finestra, e lui con la sola forza delle sue braccia non può più spingerla indietro.
Per la prima volta dal suo risveglio in ospedale, scoppia in un pianto disperato, rotto, senza freni.
Vede con impietosa chiarezza lo scempio del suo corpo, il lenzuolo vuoto dove un tempo c’erano le sue gambe, il viso da fantasma riflesso nello specchio dell’armadio.
Un bussare discreto, sua madre entra con la colazione. Rimane ferma sulla soglia, guardando il viso del figlio bagnato di lacrime.
“Vai a chiamare Maria” le dice Jean in un soffio.