Capita di incontrarla quando il cielo è rosso. Le case, in basso, hanno lo stesso colore del cielo, e la balena bianca – eccola, enorme, la vedi? – nuota nell’aria lasciando come una scia d’aeroplano: ma sono le ciminiere e i comignoli della città che ha sul dorso, a fumare quel fumo sottile. A volte invece si muovono in gruppo, lo intuisci da una pinna che spunta a bordo quadro, o forse è un’unica balena che ha messo davanti la coda, che ha detto, aspetta, prima di muovermi tutta, mando avanti una pinna in esplorazione. eccola, enorme, la vedi? – nuota nell’aria lasciando come una scia d’aeroplano Prima la coda poi il capo, prima il carro, prima la matassa. Prima i cetacei o le città? La verità è che questo – il nostro? – è un mondo di contraddizioni, di compresenze, in cui i fumi urbani si mischiano ai fumetti, in cui i sogni, alati, natanti, galleggiano nell’aria come mongolfiere: non dirigibili, non prevedibili. Ancora, e sempre. Gregorio Giannotta vive e lavora qui, a Genova. Si è diplomato all’Accademia Ligustica di Belle Arti e se siete curiosi di conoscere i suoi lavori, scoprirete che ha fatto di tutto: illustrazioni, disegni, quadri, animazione… Nel 2006, insieme a Paola Rando, ha aperto “AnimArs”, un atelier situato nel cuore del centro storico genovese, dove potete vedere rinoceronti cannone, navi con le gambe, leviatani che sorvegliano le città o soltanto le sovrastano, che guardano il mondo dall’alto e al contempo lo portano sulla testa. i sogni, alati, natanti, galleggiano nell’aria come mongolfiere: non dirigibili, non prevedibili Come si traccia la mappa di un mondo così? Che cos’è Atlante? C’è un omino con i baffi lunghissimi, orizzontali, a cui forse si può chiedere. Compare e riappare, ma non sappiamo se dica il vero: i suoi occhi sono nascosti dietro un paio di occhiali rotondi, e quei baffi, che per primi sfuggono alla forza di gravità, sembrano promettere più ironia che competenza sulle cose del mondo. Come si traccia la mappa di un mondo così? Che cos’è Atlante? Che cos’è Atlante? C’è una mano che disegna un tratteggio, ci sono monti che sembrano giganti svenuti per terra. Di nuovo l’omino baffuto, di profilo (assomiglia, assomiglia a qualcuno…) che guarda lontano e sembra suggerire: Atlante è ciò che puoi disegnare del mondo. Non un tentativo d’ordine, sembra dire, non una necessità di controllo: piuttosto il desiderio di tracciare strade per l’ognidove. Atlante, mostra personale di Gregorio Giannotta, in Officina Letteraria dall’8 al 29 novembre.
“Sono nato nel febbraio del 1933, un mese dopo che Hitler era salito al potere. Quando iniziavo la prima elementare il mondo entrava nella II guerra mondiale. Poi è successo di tutto. Difficile districarsi fra tanta follia anche perchè, tranne poche eccezioni, tutto era considerato più o meno normale. Comunque, anche se un po’ ammaccato, sono arrivato fino ad oggi e anche se, come si vede dai miei teatrini, ho capito poco di questo mondo, é stato molto bello così.” Autobiografia minima di Guido Zanoletti
Macchine da sogni Di Giulia Cocchella. Immaginate un foglio bianco, poco più grande di una cartolina. Immaginate di disegnare sulla sua superficie una serie di solidi geometrici, ciascuno con le superfici sue proprie, tanto che non è più possibile, a un certo punto, distinguere se ciò che state immaginando è a due o tre dimensioni. Ora fate un piccolo taglio e aprite una porta nel foglio (sì, una porta). La porta si spalanca su uno spazio che prima non potevate vedere, che prima non c’era. E ha inizio la storia. “La porta si spalanca su uno spazio che prima non potevate vedere, che prima non c’era. E ha inizio la storia.” Nascono così i Teatri di Guido Zanoletti, come un’evoluzione, un ampliamento delle sue opere geometriche. Guido, oltre alla carta, utilizza la fotografia, rielaborata, il legno in tavolette sottili per costruire lo spazio scenico e in fogli sottilissimi per sostenere gli astanti. Il risultato sono dei microcosmi, ciascuno con una storia fatta di ricordi di viaggio, momenti tra amici, scene di film, scatti rubati su un treno o all’inaugurazione di una mostra, accostati tra loro, racconta l’artista, quasi senza pensare. Eppure da questa assenza di intenzione iniziale nasce un senso, uno e centomila, uno per ogni persona che guarda e si lascia cadere in questi mondi, pervasi di inquietudine ma anche di ironia. I Teatri (ciascuna tavola chiusa in una busta di plastica) sono quasi come i mattoni in casa Zanoletti, la occupano, la strutturano, tanto che a portarne via qualcuno per metterlo in mostra hai paura di toccare la chiave di volta. Sono impilati l’uno sull’altro a formare colonne, a occupare tavoli, a seguire il profilo dei muri: pagine tridimensionali di diario, ma un diario collettivo, universale, mai soltanto personale. Un diario che scrive ogni giorno, mi racconta la moglie dell’artista, o meglio ogni sera, quando a fine giornata Guido si mette al tavolo a lavorare al suo Teatro quotidiano. Mentre le guardo, e le guardo ancora, penso che queste opere funzionano come macchine di sogni, perché generano storie utilizzando simboli, associazioni inconsce, perché come nei sogni tutto è possibile, persino sedersi al bar con noi stessi. “Queste opere funzionano come macchine di sogni, perché generano storie utilizzando simboli, associazioni inconsce” Ci sono anche dei personaggi ricorrenti, li riconosco da una tavola all’altra: chi sono? Come mai a loro è lecito spostarsi tra i teatri? A volte sono solo ombre identiche, che abitano spazi diversi. Uscita dall’ultimo Teatro, risalita in superficie dal punto di fuga sino al primo piano, chiudo la porta di carta alle mie spalle. Scompaiono tutti gli astanti (li sento ancora parlare là dietro, ma non li vedo più). Rimane davanti a me un foglio la cui superficie è perturbata dal disegno di un cubo che sembra venir fuori. Poi nemmeno più quello: resta il foglio bianco, poco più grande di una cartolina. — Leggi anche “Di cosa siamo fatti”, l’articolo di Emilia Marasco sulla poetica di Guido Zanoletti. Vai all’evento sull’inaugurazione della mostra dedicata all’opera di Zanoletti.
Per la prima volta, in occasione di START, Officina Letteraria collaborerà con Violabox ospitando negli spazi di Via Cairoli 4/B a Genova, la mostra di “ToBeOrNotToBe” di Sergio Leta. In questo testo critico sul ciclo di opere, Emilia Marasco propone una chiave di lettura a metà tra arti figurative e narrativa. Testo Critico di Emilia Marasco Sono in posa per la fotografia, guardano qualcuno che li guarda. Sono soli, in coppia, in gruppo. Sono vestiti con l’abito della festa, con la divisa della scuola, con il costume da bagno l’asciugamano al collo e le ciabatte di gomma. Sono seri o sorridono appena. Sono uomini, donne, bambini. Sono gli esseri umani di Sergio Leta e mi ricordano il campionario antropologico dei racconti di Raymond Carver. Il titolo shakespeariano, “ToBeOrNotToBe”, assegnato a tutto il ciclo corrisponde alla rappresentazione di uno spazio con figure e allo stesso spazio senza figure, in sequenza. Lo spazio senza figure non è tuttavia vuoto, conserva un ricordo delle presenze che, grazie a questa traccia del loro passaggio e della loro esistenza, lo hanno modificato. Quello che rimane è il segno di ciò che è stato. “Quello che rimane” è il titolo di un romanzo di Paula Fox in cui l’immobilità è incertezza e instabilità, è dubbio permanente. Rimane il bouquet della sposa, la macchina rossa a pedali del bambino, rimangono i buffi cappellini degli scolari, le sedie degli innamorati, le ciabatte dei bagnanti. Gli oggetti che, pur importanti, hanno un ruolo da comprimari nella rappresentazione con figure, sottolineatura di status o di ruolo, integrazione funzionale, in assenza degli esseri umani diventano immediatamente protagonisti, si caricano di significato simbolico, assumono forza evocativa. Li vediamo e li guardiamo con la lucidità che ci impone l’artista, constatando ciò che li rende protagonisti, la possibilità di sopravvivere agli umani di cui sono stati apparentemente fragili elementi accessori. Sono immagini di suspance quelle create da Sergio Leta, siamo portati a chiederci cosa sia accaduto tra una sequenza e l’altra, è chiaro che c’è una storia, direbbe Carver, che vuole essere raccontata. Perché il bouquet della sposa è a terra? L’ha lanciato e nessuna donna invitata lo ha raccolto? L’ha perso perché costretta a scappare insieme allo sposo e a tutti i presenti da qualcosa di terribile, da un’irruzione nel luogo del ricevimento? Cosa sarà accaduto? Due immagini immobili e in mezzo un movimento che l’artista esprime con la tensione del vuoto e dell’impaginazione rigida di uno spazio bipartito, uno spazio dialettico. Si può essere in uno spazio e, in un certo senso non esserci; si può non essere ma continuare a esserci con quello che, della nostra presenza, rimane. In un tempo malato di horror vacui, Sergio Leta analizza i momenti di sospensione e di vuoto spazio temporale. Come Carver trae spunti da un campionario di varia umanità che osserva ai fini del personale atlante di spazi e figure che appare come un lavoro in progress indispensabile alle fasi di una ricerca che, come tutte le ricerche che si rispettino, non si può prevedere se giungerà a dare risposte ma, di sicuro, continuerà a porre domande. Vai all’evento dell’inaugurazione della mostra