Sabato 11 aprile Officina Letteraria ospiterà Barbara Fiorio e la sua ironia per un laboratorio di scrittura ironica. Barbara, che ha fatto dell’ironia la sua cifra stilistica, spiegherà ai partecipanti cosa è l’ironia, come possono usarla al meglio per raccontare le loro storie, e li metterà alla prova con qualche esercizio di scrittura, ovviamente, ironica. Come lanciare meringhe a un Castello – non vi viene già voglia di farlo con un titolo così? – sarà un laboratorio divertente e leggero, e io, che sono già passata tra le mani di Barbara, non posso che consigliarvelo. Nel frattempo, mentre aspettate che arrivi sabato 11 aprile per venire a Officina letteraria e conoscere di persona Barbara, gustatevi l’intervista che le abbiamo fatto. I : Come hai iniziato? B : A scrivere, a sognare di scrivere o a pubblicare? Perché a scrivere ho iniziato da bambina, alle elementari, quando ho anche cominciato a leggere da sola i libri, verso i sette/otto anni. Il sogno di fare, da grande, la scrittrice è nato lì, ma ci son voluti più di trent’anni prima che io ci provassi davvero. Da adulta, ho iniziato con un blog sotto pseudonimo, quando erano ancora poche le persone in Italia che avevano un blog, parlo di tredici anni fa, e quelle poche amavano più scrivere che apparire. Quindi era tutto un po’ carbonaro, le community si creavano per osmosi, ci si sceglieva e leggeva per sintonia. Era molto stimolante, e in quello spazio protetto e portentoso ha preso vita il mio primo libro, C’era una svolta, una raccolta di fiabe classiche raccontate alla mia maniera, ma nella loro versione originale dei Grimm, di Perrault e di Andersen, di cui troverete tracce nel mio prossimo romanzo, Qualcosa di vero. Un amico sapeva dell’esistenza di un piccolo editore nel pavese, mi ha dato l’email, ho mandato il libro e il piccolo editore lo ha pubblicato. Per me era fondamentale che venisse pubblicato da qualcuno che non lo facesse per amicizia e che non chiedesse contributi alle spese. Così è stato, e non ho certo dovuto comprare cinquanta copie del mio libro per assicurare la copertura della stampa. I : Quando hai pensato per la prima volta che avresti potuto scrivere? B : Quando è stato pubblicato il mio primo libro. Fino a quel momento era ancora un mio desiderio che ogni tanto tiravo fuori dal cassetto dei sogni segreti e coccolavo con tenerezza, come si accarezza il vecchio orsacchiotto con cui giocavi da piccola. Quando qualcosa di scritto da me ha preso la forma di un libro vero, ignoti lettori lo hanno comprato, giornalisti che non conoscevo lo hanno recensito con entusiasmo e al mio prof di greco del liceo è piaciuto, ho pensato che forse avrei potuto scrivere sul serio. Avevo già quarant’anni. I :Qual è l’esigenza, il bisogno profondo che ti spinge a scrivere? B : Ho sempre scritto, sempre. Scrivevo da bambina per farmi compagnia e inventarmi storie che mi piacessero, scrivevo lettere, mail, chat con gli amici, persino i lavori che ho fatto si sono basati sulla scrittura: scrivevo presentazioni di spettacoli teatrali, schede di promozione, relazioni, poi comunicati stampa, dichiarazioni, prefazioni. Io comunico scrivendo. Ricordo un colloquio che feci moltissimi anni fa in una grande agenzia pubblicitaria. Era un colloquio come copywriter, stavo facendo un master a Milano, in quel periodo, e un mio professore ha voluto organizzarmi un incontro col direttore creativo di quell’agenzia. Lui, all’incontro, mi ha chiesto di fargli vedere un mio book di testi. Racconti, poesie, fiabe, incipit di romanzi, quel che potevo avere. Ma io non avevo niente di tutto ciò. Non avevo mai pensato di fare la copy finché un professore non aveva deciso che io ero una creativa e dovevo assolutamente scrivere, ma non avevo nulla da far leggere. “Scusa, tu ami scrivere e non hai niente di tuo da farmi leggere?”, mi aveva chiesto stupito il direttore creativo. Gli veniva da ridere, da quanto era assurda la situazione. Gli risposi con un candore che mi imbarazza ancora oggi, e resi ancora più assurdo quel colloquio. “Io scrivo mail, messaggi, post sul mio blog – dissi – ma quelli son privati. Non ho mai scritto racconti o poesie, ho solo scritto fiabe, ma ho smesso da adolescente”. Non ebbi mai quel lavoro, ovviamente, ma tutt’ora sono amica di quel direttore creativo, diventato nel tempo anche un mio lettore. I : Qual è l’aspetto che ti dà più soddisfazione nella scrittura? B : Quando entro nella storia e i personaggi conducono. Perché, sarà bene rivelarlo, scrivere è divertente finché lo fai nel cantuccio della tua stanza e ti fai leggere solo da amici e parenti. Quando diventa un impegno, si aggrava di aspettative, di scadenze, di risultati da raggiungere, di quella professionalità che devi avere per rispetto degli editori e dei lettori. Scrivere è fatica, è ansia di non farcela, è passare un pomeriggio su una frase, è ragionare sul dove mettere le virgole, è rompersi la testa su un aggettivo. Ma è anche, innegabilmente, un privilegio. Riuscire a trasformare la propria passione e il proprio talento in un lavoro è straordinario, ma molto più faticoso e raro di quel che si pensa. Però, quando mi metto davanti al computer, comincio a scrivere e vedo la storia che prende forma, vedo i personaggi muoversi da soli, vedo le parole che scorrono e disegnano un nuovo mondo, in quel momento mio e solo mio, dove io riesco a muovermi con familiarità, dove rido, mi commuovo, mi indigno e partecipo, creo, decido, ecco, quello è il momento in cui sto bene. I : Cosa hai provato quando è uscito il tuo primo libro? B : Quello che ho provato quando è uscito il secondo, poi il terzo e tra pochi giorni il quarto: gratificazione, emozione, trepidazione, paura, ansia. Anche un pizzico di terrore. So che chi è madre potrebbe guardarmi storto – la maternità è intoccabile – però pubblicare un libro è qualcosa che si avvicina molto a ciò che le
“La porta” di Barbara Fiorio. L’urlo di suo marito, una fitta al torace, il freddo del marmo e quel denso bisogno di lasciarsi scivolare nel buio della perdita dei sensi. Poi il pianto di suo figlio lì, sul pianerottolo, e la forza sufficiente per alzarsi e sorridere a quei cinque anni a piedi nudi, con gli anatroccoli sul pigiama azzurro e il viso di lacrime e muco. Inghiottì il sapore del pugno, recuperando il fiato per confortare il bambino. Andava tutto bene, gli sussurrò abbracciandolo, stringendo gli occhi per contenere il dolore. Papà era solo nervoso, e lei non sarebbe andata via. Lo aveva detto ma non lo pensava davvero. Andava tutto bene. Il vicino richiuse la porta.