di Andrea Fabiani Racconto terzo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli. È luglio, l’aria è umida e calda. L’autobus è affollato, l’aria condizionata rotta. Un anziano sale a bordo e dal fondo si lamenta a voce alta dei trasporti pubblici. Lui alza per un attimo la testa da libro che sta leggendo, poi la riabbassa subito. A lei dà soltanto un’occhiata distratta. Nota gli auricolari bianchi che le scendono dalle orecchie. Non sa quando si sia seduta lì accanto. Quando l’autobus riparte lei si appoggia a lui. Indossa una canottiera verde, lui una maglietta a maniche corte: la pelle delle loro braccia aderisce per un istante. Entrambi si ritraggono come punti da una spina, si risistemano sui sedili in modo da essere ognuno nel proprio spazio. Lo fanno senza dirsi nulla, senza voltarsi. Alla fermata successiva accade di nuovo. Lui si ritira, ma meno di prima, stringe semplicemente il braccio contro il costato, sente la punta del proprio gomito premergli sulla pancia. Lei non si muove. La sua pelle è calda, a quella distanza lui riesce a percepirlo distintamente. È una sensazione imbarazzante. Lo spazio che li separa è una gola stretta. Se poi l’autobus ha uno scossone quello spazio si riduce ancora e oltre al calore lui avverte un leggero solletico, piccoli peli invisibili lo accarezzano, strappandogli un brivido. Allora contrae maggiormente i muscoli del braccio e della schiena. Il libro che ha in mano non lo legge più, è concentrato solo sulla difesa della loro distanza. Persevera in questa resistenza per una decina di minuti, poi la spalla e la schiena cominciano a fargli male. Allora rilassa il braccio, che scivola fino a quello di lei. L’aria tra le loro pelli diminuisce, scivola via finché non c’è più. La gola si chiude, aderiscono uno all’altra. Che si sposti lei, pensa. Lei però non si sposta. Anzi, comincia a esercitare una leggera pressione così che la zona di contatto dei loro corpi, lentamente, aumenta. Lui sgrana gli occhi. È sorpreso da quel comportamento, ma ancor più da quanto sia dolce la sensazione di calore che si irradia da lei. Si chiede chi sia quella donna, cos’abbia la sua pelle. Non può vederla in volto. Potrebbe voltarsi, ma non vuole farlo. Ha paura che se lo facesse lei semplicemente si scuserebbe. Allora si scuserebbe anche lui e tra le loro pelli si formerebbe una barriera sottile, ma invalicabile, la pellicola della realtà. Mentre fa questi pensieri, senza rendersene conto, anche lui ha iniziato a spingere il proprio braccio verso l’esterno. La loro superficie di contatto aumenta ancora. Aumenta il calore. Ora ognuno dei due preme la propria pelle contro la pelle dell’altro, senza guardarlo, continuando a fingere di fare quello che stava facendo prima. Nessuno nell’autobus si accorge di niente. Avvicinandosi al capolinea i passeggeri diminuiscono, le strade si fanno periferiche, meno trafficate, più sconnesse. Sarebbero dovuti già scendere entrambi da alcune fermate. Prima lui e poco dopo lei. Ma hanno scelto di restare sull’autobus, seduti, attaccati, pelle a pelle, a gustare quell’imprevisto incontro dei loro confini. Ad ogni buca, curva, frenata sentono la loro zona di contatto modificarsi, aumentare, rimpicciolirsi, farsi di nuovo punto, nuovamente allargarsi in un lago. A volte si staccano e un refolo d’aria si insinua tra loro. Allora ritrovarsi è un sollievo. È un sollievo sentire le loro pelli che si premono, strusciano, si deformano, forse sono una soltanto. Non importa più dove stanno andando, non importa più chi siano. Importa solo il punto d’intersezione delle loro cellule e la percezione chiara che sotto quel punto, invisibile a tutti, perfino a loro stessi, scorre e si tende, e si muove tutta un’intera vita. Al capolinea l’autobus apre le porte e spegne il motore, scendono tutti. L’autista recupera la giacca e esce dal posto di guida, guardando verso l’interno. Scuote la testa, infila la giacca, poi scende anche lui. Loro sono ancora lì, seduti vicini, attaccati. Si guardano adesso e sorridono.
di Michele De Negri Racconto secondo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli. Caro Dottor Jekyll, ti scrivo la mia prima lettera; la prima di mio pugno. Questa non la potrai bruciare, come fai con le altre che ti inventi. Siamo fogli di carta, Henry, e la pelle è la nostra busta. Siamo lettere in perenne consegna; oppure ne abbiamo una sola, e mai più una risposta dall’altrove. Questa è la sera in cui consegno il mio messaggio, perché sento che tra poco non ci sarò più. Sparirò, come scrivi tu. Così questa notte resto nello studio; rinuncio ad andare a donne, a picchiare i gentiluomini. E tu sai quanto questo mi costi. Ma rinuncio, per scrivere al mio caro Harry la prima e ultima lettera. La mano sinistra. Mi sono spogliato dei tuoi vestiti larghi e cadenti, sono rimasto nudo nella stanza. Ho cominciato dalla mano, così che tu vedessi subito l’inizio durante le tue perlustrazioni del risveglio. Caro, ho inciso, con il pennino metallico, intingendo l’inchiostro. Mi ha fatto male, lo sai, Jekyll? Non abbiamo ancora inventato niente di meglio che questo; l’inchiostro sotto la pelle brucia un po’. La c di caro non ha ancora smesso di sanguinare. Credo ti verrà un’infezione. Tanto la mano è già infetta, vero Dottore? Così dite voi gentiluomini: mani sporche di sangue. Per me è un bagno caldo; scioglie i nervi, allenta le tensioni. Il braccio sinistro. Quante ne avete voi gentiluomini, di tensioni. Le calze tese, a coprire mezza gamba, e guai se cadono; poi le bretelle, a tendere i pantaloni, a inarcare le schiene. Poi ancora i polsini, a tendere le vene e il sangue; poi il cappello a tendere la dignità, e guai se cade. Siamo fogli di carta, Henry, e siamo fragili. Siamo tesi anche nell’aria più calma, e con un soffio ci strappiamo. Il vento ribalta il cappello, l’inciampo fa scendere la calza. Quanto tempo fa ti sei strappato, Henry? Il torace, necessità dello specchio. So quando è successo, Henry. È il mio primo ricordo. Avevi ventotto anni, eri un brillante studioso in medicina; promettevi bene. Facevi una delle tue passeggiate, con i tuoi cari amici gentiluomini. Vi scambiavate convenevoli e mutua approvazione. Era una domenica d’autunno, e cominciava presto a imbrunire; i lampioni erano accesi a illuminare fiochi le strade. In quella magnifica penombra del tramonto, incontrasti lo sguardo di quella ragazza. Era talmente giovane da essere proibita, i capelli rossi come il divieto. Le code del vostro sguardo inciamparono in quelle pietre di smeraldo che erano gli occhi della ragazza. Non potevate seguirla, nemmeno con la vista. Ma quanto era bella, Harry, quanto era proibita, lo sappiamo solo io e te. Fu in quel momento che ti strappasti. Come un foglio di carta, ti scindesti in due, contro il vento dello sbattere di quelle ciglia e delle labbra turgide. Strap. Sentii distintamente il suono della tua divisione, mentre l’altra metà, sospinta dal vento della consuetudine, continuava a camminare fianco a fianco ai suoi gentiluomini. I lombi. Ti confesso una cosa, Harry, ora che è tempo di ultime parole. Una notte di qualche settimana fa, ho ritrovato la ragazza che ti strappò in due quella sera. È cresciuta di qualche anno, ma niente in confronto ai tuoi capelli grigi. L’ho presa, Harry. Ho scontrato questa parte di te contro di lei. Ho sentito tutto. Hai sentito tutto. L’inguine. La pelle è una busta di carta, Henry. È fragile e sottile, ci contiene appena. Sai di cosa sto parlando. È bastato qualche sale in una provetta, e sono apparso io. Ma sappiamo che non è stato quello; non avrai mai il coraggio di ammettere che il tuo intruglio non ha avuto alcuna influenza. Un placebo. Io esisto, tu mi hai covato, forgiato come una lama. Questione di tempo, prima che forassi il mio leggero involucro. Sei tu, Harry, il mio leggero involucro. La tua pelle è una busta di carta da strappare. Io sono le parole, sono la lettera da consegnare. Il fianco destro. Qua fa molto male, hai perso tanto sangue. Perché scriverti in questo modo? Considerala una lettera abbandonata sulla soglia di casa. La pelle è il nostro confine, Harry, ma anche il nostro spazio comune. Dovrai ammetterlo un giorno o l’altro, di avere sentito anche tu. Hai sentito tutto anche tu, Harry, attraverso questo sottile velo: le dita immerse nel sangue caldo, il tuo sesso avvolto da quella donna, le mani sulle carni. Hai sentito tutto, e stai sentendo. È l’unico modo per farti sentire, Harry, per non farti sperare che sia stato tutto un sogno. Sto bussando alla porta, e so che sei in casa. Toc toc, Harry. Il braccio destro. La fragilità della pelle è necessaria, caro Dottor Jekyll. La pelle è come uno di quei vetri, a proteggere le scuri. Rompere in caso di emergenza. La sua fragilità crea possibilità. La pelle deve rompersi. Io non sono l’errore: sono lo scopo della tua sottile pelle. Tu sei il vetro, io la scure. La mano destra. Cambiare mano non è difficile, la brutta ortografia non mi preoccupa; sono abituato a non badare alle apparenze. Ti ho finito, Henry. Sei sempre stato un foglio troppo corto per scrivere tutto me stesso; per questo ne sono uscito. Il tuo intruglio non c’entra proprio niente. Ora uccidimi, usa questa mano per versare il cianuro nella tua bocca, fai come credi. Illuditi che non mi rivedrai mai più, fingi di non sentire le mie nocche sulla porta. Finirai all’altro mondo con le mani sulle orecchie e le bende sugli occhi. Non mi importa, sei carta straccia, Harry. Ho trovato altre vie, altri fogli da scrivere. Le pelli di voi uomini sono così sottili… vi credete delle isole, ma siete accostati l’uno all’altro; ognuno con le stesse tensioni, ognuno con le stesse voglie. E dietro queste sottili porte, la mia mano bussa, e l’occhio sbircia attraverso, e vi vede uno ad uno. Ci siete tutti in casa, e tutti mi sentite; e
di Marianna Soffiantino Racconto primo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa, ti conosco da prima per dirla tutta. So come sei dentro e come sembri fuori, da sempre sono la tua ultima frontiera. Non sono nata da una costola biblica, cara mia, e nemmeno da altre frattaglie di scarso pregio, provengo da un minuscolo foglietto mitocondriale, direttamente dal tuo cervello, sono un pezzo di cervello spianato col mattarello di dio, una lasagna intelligente, se vuoi semplificare. Non è stato semplice piegarmi a te, seguire i tuoi sghiribizzi di seni turgidi e serici da accarezzare per diventare spesso callo a proteggere e poi ancora, monti, pieghe e avvallamenti umidi e vischiosi, calda e tenera, contratta e fredda e altro ancora a seconda dell’umore e del desiderio. Ho segnato la tua ansia di farfalle piccole e delicate, fiori, e merletti che con la punta d’acciaio di mille aghi hai marcato con colori impossibili da cancellare, ho pianto con lacrime di sangue la tua follia ma ho resistito. Cancellare…il mio verbo impossibile , sono la lavagna della tua anima, non aver paura di dimenticare, io resto, abbracciata a te per sempre e anche dopo, forse. Pelle di pesca, di ceramica, di alabastro, di luna: sono la tua bellezza e la tua sventura. Sono io la causa di tutto questo… anche tu però… Al primo incontro Mr Jonas Wright ci aveva dato sensazioni contrastanti, un bell’uomo, per carità, un po’ trascurato magari, aspetto dimesso, tutto molto beige, tutto tranne gli occhi , mi viene la pelle d’oca solo a pensarci, uno giallo ambra come di lupo e uno azzurro cielo. Lo fissavi ipnotizzata e sentivo il tuo cuore battere, il tuo cervello secernere dopamina e adrenalina, stomaco leggermente contratto, è stato l’innesco dell’ossitocina il dannato ormone delle coccole che ci ha perdute per sempre. Persona interessante Mr Wright non faceva che parlarti e accarezzarci, sussurrava dei suoi libri, che poi suoi non erano mica. Il bibliotecario dell’Università di Harvard e tu sgranavi gli occhioni belli e ti lasciavi incantare dagli antichi Sutra orientali su foglie di palma con bulini metallici che profumavano ancora d’incenso, di libri arabi cuciti con fili di seta con una copertura di nervi fragranti, dorature Rinascimentali a motivi geometrici in rilievo su copertine rigide e poi aroma di colla naturale, legature monastiche e gotiche, le vite eccentriche dei rilegatori nel periodo Liberty, ci accarezzava dentro e fuori. A pensarci ora quello sguardo doppio faceva accapponare la pelle, ma io ti seguii fino in fondo come sempre. Lui lisciava, vezzeggiava, lusingava e blandiva e tu, bella mia , c’hai rimesso letteralmente la pelle. Primo ad arrivare è stato il freddo, ho propagato sulla tua schiena i brividi e provveduto a tener stabile la tua temperatura, ho risposto con sollecitudine smuovendo i muscoli in un tremolio continuo ma è solo dall’odore che ho finalmente capito. Odore di animale braccato, senza via di fuga, in allarme, di tutto il nostro raffinato sistema di comunicazione a volte rimane solo questo : il rancido e folle puzzo del terrore. Nella mia memoria cellulare sento lo strappo secco con cui Mr Wright ci ha separate per sempre. Da qualche tempo il settore “Libri rari”dell’Università di Harvard è stato arricchito da una minuscola collezione donata alla fondazione da uno dei più autorevoli restauratori dell’illustre ateneo, Mr Jonas Wright da poco deceduto. Si tratta di un piccolo numero di tomi pregiati, rilegati in sottilissimo cuoio dallo studioso stesso. Uno in particolare ha attirato l’attenzione e la curiosità dei colleghi commossi dall’inusuale lascito. Pare che uno dei testi “Des destinèes de l’ame” (I destini dell’anima) scritto dal poeta francese Arsene Houssayeè , abbia incise sulla copertina delle piccole e graziose farfalle.
Pelle. È chiaro al primo sguardo. Non perché l’informazione dai tuoi occhi sia arrivata al cervello, non perché la vista ti abbia realmente informato di qualcosa, niente di tutto questo. Perché si sente e basta, perché la tua carne ha riconosciuto la carne. È un tocco, è conoscenza preverbale. Guardiamoci, sembrano dire. Facciamolo da vicino. Annalisa arriva al nostro appuntamento un po’ trafelata, come avesse fatto la strada di corsa. È lei a riconoscermi per prima. Ci sediamo a un tavolino all’aperto – sono una fumatrice incallita, mi informa – e incominciamo a chiacchierare. Che cosa voglio sapere? Non so. Le curiosità sono tante dopo aver curiosato nel suo sito, ma ogni domanda mi sembra invadente: la lascio parlare. E Annalisa mi racconta di Ettore (ti faccio un esempio, mi dice). C’è un passo dell’Iliade in cui Ettore viene colpito con la lancia da Achille. Ettore è protetto dalla sua armatura, è quasi invulnerabile. Quasi: “…vi era una fessura dove le clavicole dividono le spalle dalla gola e dal collo, e quello è un punto di rapida morte. Qui Achille lo colpì…”. C’è un varco in quell’esoscheletro di bronzo, una fessura che scopre una piccola porzione di pelle. La lancia affonda in quel punto esatto, mi è sembrato di sentire il dolore qui, indica, per molto tempo. Le persone non amano essere guardate da vicino, ma io ne sento l’esigenza. Osservo la mia pelle, quella degli altri, fino a distinguerne i pori Fino a vederci attraverso, penso io, fino a che le pieghe di una mano, le pieghe di pelle di un pugno chiuso, diventano (o tornano ad essere?) un paesaggio che si può abitare. E in quelle cavità che spingono gli occhi nel profondo, risuonano echi di voci perdute, di una vita intrauterina, forse, di cui abbiamo perso il ricordo cosciente, ma non la memoria. Perché la memoria è nel corpo. La memoria è il corpo. Guardiamoci. Facciamolo da vicino. Che cosa sappiamo di noi? Annalisa lavora con la tecnica dell’olio su tela, ci impiega moltissimo a fare un quadro, bisogna aspettare che il colore asciughi per metterne un altro, mi spiega. Utilizza anche fotografia e video, talvolta indagando lo stesso soggetto attraverso tutti questi linguaggi. Mi dicono che faccio troppo, ma capita che una tecnica sia lo studio per un’altra. A volte sono necessari molti linguaggi per dire compiutamente qualcosa. Nella mia testa si formano le parole: cantiere di un corpo. Parliamo della body art, che ha affascinato Annalisa, ma sarebbe volgare adesso, dice. Nel mio lavoro il corpo è mostrato per quello che è, come a dire che non c’è bisogno di un intervento, di una sovrapposizione di segni, perché sia portatore di senso. Lo si può mostrare così, con fascinazione e rispetto. Guardiamoci, facciamolo da vicino, sembrano suggerire. Guardo e recupero il mistero della prima ferita, risento sapore di sangue (pelle graffiata, sbucciata, pelle cambiata milioni di volte). Recupero la memoria prima, del primo contatto (labbra premute, un dito nell’ombelico, un pollice che esplora una bocca tutta nuova). La pelle è l’organo più esteso del nostro corpo, l’unico organo di senso di cui non possiamo fare a meno (mani sul viso, fai piano, mani che ti insegnano a dosare le carezze). Senza pelle non possiamo sopravvivere. Ci protegge, ci espone. Avviciniamo lo sguardo. Non cerchiamo di indovinare, di interpretare. Lasciamoci sentire, abbandoniamo a terra le parole: è stato allora, quando ancora non avevamo un nome per tutte le cose, che ne abbiamo fatto esperienza. Con il tatto, e da vicino. Closer. Closer, di Annalisa Pisoni Cimelli. Presso Officina Letteraria, dal 6 Dicembre al 24 Gennaio