Copertina Zero K Don DeLillo

Analizziamo la copertina di “Zero K” di Don DeLillo

Per la serie di post Questione di pelle, analizziamo la copertina dell’ultima fatica di Don DeLillo: Zero K, pubblicato da Einaudi nella collona dei “Supercoralli”. Questione di pelle: “Zero K” di Don DeLillo, Einaudi, 2016. Bisogna dire che qualunque titolo – anche il decimo pezzo della saga di Twilight – sembra subito un classico, se a pubblicarlo è Einaudi. Gli ingredienti sono pochi, semplici e immortali: il bianco di sfondo, un’immagine centrata, una scritta asciutta. Che la copertina sia rigida o morbida, i libri Einaudi sembrano sempre pronti per entrare nello scaffale di una biblioteca e restarci per sempre. E spesso lo fanno. L’ultima perla di Don DeLillo è certamente ben inquadrata all’interno della collana Einaudi. Pochi altri editori avrebbe potuto restituire a uno dei più grandi scrittori americani viventi una veste degna del suo Zero K; un libro che porta con sé gli ingredienti che lo consacrano già a classico per licei: distopia, futuro ma non troppo, grandi temi come l’immortalità e le nuove tecnologie, senso metaforico, frasi ispirate. I Supercoralli Einaudi. Zero K abita la collana dei “Supercoralli” di Einaudi, istituita da Cesare Pavese poco prima degli anni ’50. “Supercorallo” vuol dire un punto fermo della letteratura (che sia italiana o estera), in genere ancora più fermo di un semplice “Corallo”. Possiamo dire che il titolo si prepara quasi certamente a entrare nei “Millenni”. I “Supercoralli” hanno principalmente tre opzioni di veste grafica: La classica impostazione bianca con immagine centrata (quella che analizzeremo a breve); Un’immagine espansa a piena pagina (con foto al sangue), che funge da sfondo al titolo e autore. Talvolta, come in questo caso de L’uomo che cade, titolo e autore lasciano la loro posizione alta e centrata, a favore dell’immagine di sfondo; L’immagine come banda passante su sfondo bianco, un’interpretazione più attuale della classica gabbia centrata che possiamo vedere appliacta in Candore di Mario Desiati (2016). I font Einaudi. Parliamo due secondi del font Einaudi. Senza addentrarci nel dibattito del font utilizzato per i testi interni (anche se pare definitivamente che sia un Simoncini Garamond, anche detto Einaudi Garamond), osserviamo com’è scritto il titolo in copertina: Il font di copertina appare come un Helvetica Neue Bold, leggermente tirato in orizzontale. Per i fan della bianca, un font poco graziato potrebbe stonare con lo stile Einaudi. Se devo dirlo, analizzando il font a sé stante, non lo trovo squisito nemmeno io: le lettere sono larghe, stretchate in orizzontale. Ma riconosco all’Helvetica l’imponenza necessaria a dare peso a un titolo. La distinzione tra titolo del libro e nome dell’autore viene resa palese ai minimi termini. Einaudi cambia giusto il colore (nero / rosso). Stessi punti tipografici, allineamento a lapide. Ringraziamo comunque dell’accorgimento, perché nei primi “Supercoralli” non era concesso neanche il cambio di colore, lasciando spazio a possibili ambiguazioni. Immagine e Immortalità. La scelta del soggetto per l’immagine di copertina è a dir poco azzeccata: è intitolata Sime ed è opera del fotografo Jasper James. Lo scatto della statua vuole farci capire subito e bene il tema del libro: l’immortalità. E cosa meglio di una statua classica – fredda e pietrificata – può farci immaginare cosa voglia dire uno stato di criogenesi, il congelamento necessario per arrivare nel futuro, oltre il proprio tempo? L’impaginazione grafica. Proviamo a entrare nel merito dell’impaginazione con qualche speculazione. Sappiamo che è facile avere una copertina bianca e un’immagine potente; meno facile è sapere come collocare l’immagine all’interno del vuoto. Si può notare una cosa interessante. L’area rossa indica la sezione aurea della copertina, ottenuta riportando la dimensione della base sull’altezza. Salta all’occhio che il naso del viso cade proprio sulla linea di demarcazione del quadrato rosso: si trova quindi in sezione aurea con la dimensione totale della copertina. Otteniamo di conseguenza che la linea del naso divide perfettamente a metà la copertina, e la linea orizzontale degli occhi fornisce l’ascissa del nostro sistema. Nonostante il volto di pietra non sia visibile nella sua interezza, esso è collocato in modo da costituire il centro focale della copertina. Saranno pure speculazioni. Però anche nelle riconosciute proporzioni del volto, la radice del naso si trova in sezione aurea con l’altezza del volto: tracciando un cerchio che ha come diametro la larghezza del volto, la radice del naso si trova sulla circonferenza del cerchio, esattamente nel centro di esso. In conclusione. Il volto di pietra di Zero K è perfettamente proporzionato con se stesso e con la sua copertina. Volute o casuali, queste coincidenze geometriche donano un grande senso di pace; una fermezza, una quiete degna di un grande classico. Nonostante sia stato appena pubblicatob (e noi siamo andati ad ascoltarlo al Ducale). “Zero K” è un libro sulla percezione. DeLillo riesce a far parlare i morti (in 1ª e in 3ª persona, contemporaneamente). #ZeroK #DonDeLillo — Officina Letteraria (@OfficinaLettera) 26 ottobre 2016   In breve: Font: 7 Immagine: 9.5 Titolo: 10 Complessivo: 8.5

“Undici per la Liguria”: intervista doppia a Ester Armanino e Bruno Morchio

Un libro per l’alluvione. In occasione dell’uscita della raccolta “Undici per la Liguria” a cura di Marcello Fois, undici scrittori liguri hanno messo a disposizione le proprie penne per contribuire, con ciò che sanno fare, alla causa degli alluvionati. Due delle undici penne, le puoi trovare a Officina Letteraria. Le ho intervistate e ho restitutito quello che è emerso in questo post. Intervista doppia: Ester Armanino e Bruno Morchio raccontano dell’evento dell’alluvione attraverso la narrazione di una crisi sentimentale. Comodità, beni irrinunciabili, routine. Solitudine, incapacità di cambiamento, incomunicabilità. Sicurezza, che non è sinonimo di felicità. Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. La città durante l’alluvione è come un “cadavere in putrefazione” (Il postino suona sempre due volte), “il diluvio, spietato e indifferente, non aveva fatto altro che portare a galla la verità” (Il postino suona sempre due volte).”Tra i detriti accumulati un po’ ovunque mi sembra di scorgere le nostre cose. Tu scuoti la testa e mi rassicuri. Ci assomigliano ma non sono le nostre” (Nessun rischio). Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. Ho chiesto ad entrambi com’è nata l’idea di raccontare il disagio sociale anche attraverso quello privato-relazionale. Ester Armanino: “Per me è inevitabile partire dall’esperienza personale sempre e comunque. Non riesco a orientarmi nel generale se il mio occhio prima non coglie i dettagli, le pieghe anche più trascurabili del reale e delle relazioni. L’alluvione ha travolto la città, nella città c’era una coppia: sono partita da qui. Da come avevano arredato casa, dai loro gesti e da ciò che tradiva la presunta solidità del loro rapporto. C’è un racconto bellissimo di Amy Hempel che s’intiola Nella vasca e inizia così: “Il mio cuore – credevo si fermasse. Così ho preso la macchina e sono andata a cercare Dio”; un esempio magistrale di come da un piccolo dettaglio, il battito del cuore percepito nella vasca piena d’acqua, si passi alla dimensione di una macchina più grande e poi a quella indefinibile di Dio, in due sole frasi.” Bruno Morchio: “È nata dalla realtà, dalla mia esperienza personale. In coppia succede di litigare e la trattoria, la Vespa, l’ora in cui sono passato dal luogo dell’alluvione sono un racconto autobiografico. Anche l’idea dell’altro fango, quello mediatico, corrisponde alla realtà. Per fortuna, il resto è fantasia. Il senso di morte, di dissoluzione che accompagna eventi come questi, risulta più efficace se viene associata a un elemento soggettivo, privato.” Poi chiedo loro qual è, se c’è, la differenza tra la lettura della società che danno gli scrittori attraverso la narrazione e quella di coloro che, invece, ci parlano della crisi sociale e politica senza la mediazione dello storytelling (giornalisti, politici). In pratica: Rispetto alla cronaca, il messaggio dello scrittore arriva al lettore in modo più intimo e personale, quindi più efficace? Ester Armanino:“Abbiamo un bisogno incommensurabile di storie, questo è appurato. Io non sono una grande consumatrice di serie televisive, ma la maggior parte delle persone che conosco sì, per loro è come una droga, come per me lo è rileggere periodicamente i libri della mia infanzia. Fabrizio De André ha detto che scriveva “per il bisogno di sentirsi protetto da una storia”, pensiero altissimo che onoro e condivido. In un mondo stracolmo di fatti e informazioni usa-e-getta, le storie hanno il meraviglioso potere di condurci al riparo dal ricatto mediatico, da quel sentirci in dovere di ospitare un’opinione a tutti i costi. Il mondo filtrato da una storia non cambia, ma forse ci coglie più preparati, perché ci siamo concessi il tempo di riflettere attingendo a un immaginario preesitente, archetipico. Anche quando la storia è dolorosa, cruda, non importa: siamo vulnerabili, ma protetti. Abbiamo l’antidoto.” Bruno Morchio: “Credo dipenda dalla bravura dello scrittore o del giornalista. Un buon reportage di cronaca può efficacemente documentare un evento tragico come sono state le alluvioni a Genova (in effetti il titolo del mio racconto dovrebbe essere cambiato: il postino ha suonato tre volte). Però non c’è dubbio che il messaggio “mitopoietico” (narrazione, poesia epica o lirica) ha il potere di raccontare l’esperienza del vissuto, mettendo a nudo la soggettività di coloro che sono coinvolti e, attraverso il meccanismo dell’identificazione, attivando le emozioni del lettore. A chi direbbero qualcosa le pietre di Troia se non avessimo letto l’Iliade?” Proseguo nell’intervista doppia: il filo conduttore di tutta l’antologia sembra essere il rapporto tra la Legge dell’uomo e quella della Natura. Gli scrittori potrebbero dirsi coloro che riescono ancora a vedere e a rispettare la Bellezza del mondo? A “restare umani”? Ester Armanino: “Più che bellezza, direi che gli scrittori indagano la banalità del mondo. Tendono a cogliere lo straordinario nell’ordinario, a rivalutare il banale nelle nostre vite come qualcosa di prezioso e importante. E vale anche il processo contrario: attraverso le parole raccontare ciò che ha avuto una portata straordinaria nella vita di molti e che sarebbe impossibile descrivere se non riconducendolo alla sfera personale, ai dettagli apparentemente banali e ordinari delle singole esperienze.” Bruno Morchio: “Gli scrittori, quando ce l’hanno, posseggono una dote: la capacità di scrivere, cioè di tradurre in parole il vissuto proprio e altrui. Questo è già molto e io mi accontenterei. Non credo che abbiano altre facoltà carismatiche, né che riescano a vedere più lontano degli altri.” Specialmente in Nessun rischio la protagonista osserva la ricostruzione della città in seguito all’alluvione con una sorta di desiderio (“Noi viviamo al terzo piano (…). Al terzo piano non corriamo alcun rischio“), vorrebbe la stessa possibilità di rinascita anche per se stessa e per la sua relazione. Questo mi ispira l’ultima domanda: La crisi puó essere una “benedizione” se porta a un cambiamento sperato? È questo il tipo di “speranza” che i vostri racconti vogliono sussurrare al lettore? Ester Armanino: “Sì, a patto che – come diceva Marcello Marchesi – la morte ci trovi vivi. Perché ogni tanto bisogna correre il rischio di cambiare le cose, “andarsela a cercare”. Altrimenti accontentiamoci di sopravvivere.” Bruno Morchio: “Credo che la teoria delle catastrofi abbia sostenuto qualcosa del genere. Del resto la storia ci insegna che i sistemi economici e

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Undici per la Liguria

#11PerLaLiguria Dalla scorsa settimana, se vai in libreria, ci trovi un libriccino bianco e rosso. “Undici per la Liguria” a cura di Marcello Fois. Si tratta del progetto di Einaudi a sostegno degli alluvionati della Liguria, un’antologia che ha coinvolto undici scrittori liguri, di nascita o di adozione, e i cui ricavati di vendita saranno destinati alla Scuola dell’infanzia San Fruttuoso di Genova, gravemente danneggiata dalle piogge dello scorso autunno 2014. Einaudi ha chiesto agli undici autori di produrre un contributo letterario di alcune cartelle ad argomento libero. Detto fatto. Nessun rischio (Ester Armanino) Lo spirito del torrente (Giuseppe Conte) Storie fantastiche di isole vere. Filfla (Ernesto Franco) La cella (Riccardo Gazzaniga) Angeli (Maurizio Maggiani) Il postino suona sempre due volte (Bruno Morchio) Il mondo verticale (Rossella Postorino) Rovine (Carlo Repetti) Genova nel buio (Ferruccio Sansa) L’impiegato di Biella (Michele Serra) Lobelia, muschi (Enrico Testa). Argomenti liberi sì, ma lungo un filo conduttore: un messaggio, un’intenzione, un’intuizione comune che risuona in ognuna delle undici voci. Un accordo, che si sente forte e chiaro, si legge in Introduzione: “L’uomo sapeva che niente è più potente di un corso d’acqua che si trovi a ripercorrere il proprio letto. Sapeva che – nonostante il progresso – dove c’era l’acqua, l’acqua ritornerà. Sapeva che neanche obbedire alle regole è per la Natura un impedimento. Semmai un impegno a limitare i danni.” Undici storie. Undici autori. Si parte. Presi per mano dallo scrittore. Ognuno di loro ha una “stretta” diversa. Ognuno di loro ha il suo modo di tradurre in parole, di raccontarti questa cosa dell’alluvione e delle piogge straordinarie, del cemento colato e calato sul nostro Paese, della scarsa prevenzione dei decenni passati e dei danni presenti. Dell’uomo contemporaneo. Del suo essere contemporaneamente evoluto e vulnerabile. “Ognuno di loro ha il suo modo di tradurre in parole” Loro, gli undici, per dirla tutta, ti raccontano l’emozione di questa alluvione, la loro. Ma a volte è la tua. Ne hai undici, puoi scegliere quella che ti appartiene di più. Due su Undici. Tra gli undici scrittori che hanno prestato la loro penna a scopo benefico, ho la fortuna di conoscerne due: Ester Armanino e Bruno Morchio, infatti, sono maestri di Officina Letteraria e, proprio per questo, mi è stato più facile far loro qualche domanda, che presto leggerete su questo blog. Appuntamento in libreria. Chiaramente, perché l’operazione abbia successo, bisonga supportare questo libro. Comprarlo. Leggerlo. Consigliarlo. Un’occasione per farlo, sarà lunedì 9 Febbraio alle ore 18:00 quando “Undici per la Liguria” sarà presentato a Genova, presso la libreria L’amico Ritrovato di Via Luccoli, 98r. Ci vediamo lì.

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Scrivere, letteralmente: intervista a Francesca Biasetton.

Ha scritto i titoli di testa per La leggenda del pianista sull’oceano e il payoff delle Olimpiadi invernali di Torino. Conosce l’alfabeto arabo e quello latino. Ha esposto in Austria, Germania, Iran, Pakistan e lavorato con i principali brand della moda italiana. Mescola diversi saperi, tra calligrafia, illustrazione e arte.  È Visiting Professor presso la NABA e, dal 2011, Presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana. Francesca Biasetton, di tutte queste cose, difficilmente vi parlerà, perché, come molti suoi concittadini genovesi, è una persona riservata cui bisogna estorcere le informazioni (che, più pacificamente, trovate sul suo sito). Capirete, quindi, come quanto leggerete dopo non sia resoconto della classica intervista organizzata via email o al telefono, ma, più che altro, il frutto di un’amichevole chiacchierata. Nei vicoli di Genova, intorno a un tavolo, davanti a un tè. Sappiamo che sei una lettrice forte: che libro hai sul comodino? Dopo anni di escursioni in terra straniera – e in lingua straniera – un classico: Gadda, La cognizione del dolore. Le discipline creative, come calligrafia e scrittura, si possono insegnare? Si può insegnare la tecnica, si possono dare consigli per l’ascolto, ma sentire, in modo personale, è qualcosa che fa parte del nostro essere unici. Scrittura a mano (e corsivo) stanno scomparendo: cosa perderanno le prossime generazioni? Tempo, con l’illusione di averne guadagnato: il tempo dell’immaginazione, dell’apprendimento, del pensare, del progettare. Perderanno la possibilità di tradurre il proprio pensiero in modo personale. Abbiamo (ancora) presente la differenza tra un manoscritto e un testo digitato? La distanza emotiva tra una lettera d’amore e una email d’amore? Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Pensare e scrivere: a mano, a macchina, al PC. Quanto incide il mezzo sul contenuto? Scrivere utilizzando il PC ci ha abituati a pensare velocemente, con la possibilità di cambiare facilmente: copia e incolla, fai e disfa: non esistono più la brutta e la bella copia, distinte una dall’altra. Nel mio lavoro mi occupo di forma piuttosto che di contenuto e so che c’è la possibilità di correggere, cambiare, trasformare quello che è stato creato a mano, una volta acquisito con lo scanner. Ma quando si lavora a un originale non c’è margine d’errore, occorre un’altissima concentrazione. La funzione dell’illustrazione rispetto a un testo: didascalia, supporto o pari dignità? Dipende dal contesto, dall’immagine/illustrazione e da cosa si desidera comunicare. Mi piacciono molto le illustrazioni “sintetiche” che lasciano a chi le guarda ampie possibilità di “completarle”. Viceversa, quando un’immagine è molto descrittiva, ci si può concentrare sui numerosi dettagli, e perdersi. Ci hanno detto che odi le font script: il Times New Roman corpo 11 ti piace? Corpo 10; le font script sono un falso, un vorrei ma non posso, un imbroglio: se si vuole rendere un testo speciale, quindi scritto a mano, perché utilizzare una font che imita questa unicità, senza essere unica? Esistono anche macchine che scrivono “a mano”: il destinatario dovrebbe sentirsi offeso da questa finta “preziosità”. Per anni hai scritto migliaia di parole e, adesso, stai sperimentando l’asemic writing? Di che si tratta, esattamente? Scrittura illeggibile, testo aperto, immagine astratta: mette il fruitore in equilibrio tra leggere e guardare. Per me, che ho seguito un percorso di apprendimento della calligrafia formale, studiando i modelli storici, e professionalmente ho scritto “a comando” per i clienti, è stato uno sviluppo naturale: liberarsi delle forme codificate, del testo e, in un primo tempo, anche dai colori. Rompere le regole, ma solo dopo averle apprese. Qual è l’editore italiano con il format grafico che ti piace di più? Mi piace l’impronunciabile 66thand2nd. E sono nostalgica per il minimalismo di Einaudi. Scriveresti un libro intero? Preferirei fare le figure. Il manoscritto formale, il “buono alla prima”, senza possibilità di sbagliare, non appartiene al mio temperamento. Però potrei fare un manoscritto asemic… Hai scritto su carta, vestiti, mobili, corpi, biciclette: il prossimo obiettivo? Tornare a scrivere sui muri, grandi dimensioni. E poi un desiderio che ho da tempo, lavorare con un danzatore: quando ho iniziato a scrivere in grandi dimensioni è sorto spontaneo questo desiderio, perché scrivere “nello spazio” è una sorta di danza, i movimenti non sono più circoscritti al tavolo da lavoro, diventano ampi; mi piacerebbe “dialogare” con un danzatore. Ma anche disegnare di più, bic su carta. Se potessi scegliere, l’opera di quale autore contemporaneo vorresti illustrare? Thomas Bernhard, vorrei saper rendere quel suo modo di criticare, così ironico e autoironico, incalzante. Mi viene in mente un gioco di negativo/positivo, dove si vede un’immagine che, osservata attentamente, ne rivela altre. Ci fai un autografo? Con la tastiera?