Alla presentazione de “L’invenzione delle personagge”, libro edito da Iacobelli, ovviamente sono l’unico maschio. Non c’è di che stupirsi, e nel luogo comune ci stiamo anche un po’ comodi. Il libro, curato da Roberta Mazzanti, Silvia Neonato e Bia Sarasini, rilega opinioni e osservazioni di 23 autrici di varia estrazione disciplinare, orbitanti attorno al mondo della scrittura. Sempre che non si offendano a essere chiamate autrici, per la volgarità di questa declinazione del sostantivo maschile. Se è nato prima “autore”, ci sarà un motivo. Se Elsa Morante voleva essere definita “scrittore”, anziché scrittrice, aveva le sue ragioni. E certo. Io non è che sono maschilista. Ma un po’ contro il femminismo, sì. Poi tutte queste parole che finiscono in “ice”, come stanno male. Ricordano un po’ meretrice, non trovate? Le donne dovrebbero tenersi stretta la loro vera coniugazione: – inga. Da casalinga. Lasciamo stare i luoghi comuni? No. Non le lasciamo stare, perché è questo ciò di cui si è parlato. La discriminazione della donna in ambito letterario. Perché le donne, per quanto si sforzino, non possono che scrivere letteratura femminile. Esatto. Rosa. Lo scrittore, e intendo lo scrittore maschio, può scrivere di tutto. Già. Peccato che non legga di tutto. Gli uomini leggono uomini. Le donne leggono sia donne che uomini. E sarà per questo che ci capiscono un po’ di più, in fatto di relazioni sentimentali. Mentre Silvia Neonato parla, cerco di estraniarmi dal mio confortevole luogo comune. Provo a mettermi dietro agli occhi di tutte queste donne che mi circondano. Provo a sentire dalle loro orecchie. E scopro in effetti una scrittura fatta di sensibilità, di un sottotesto difficile da descrivere, perché spesso contiene anche questa piccola rivincita: sono donna e scrivo. Le donne sono un elemento recente, nella letteratura moderna. Hanno iniziato a leggere, e poi a scrivere, intorno al 1700. Sono nuove quanto gli smartphone, per capirci. E infatti c’è chi ancora non le capisce, in ambito letterario. Per sicurezza le confina nella letteratura di genere. Donne che scrivono gialli. Donne che scrivono di donne. Donne che scrivono di amore carnale molto passionale con qualche sfumatura. Come quando non sai cosa sono le app, e usi il nuovo iPhone solo per le chiamate. Che va benissimo, ma gli altri 500€ che hai speso rimangono sprecati dietro l’indifferenza. Va detto che gli uomini scrivono da sempre, e partono con qualche secolo di vantaggio sulle scrittrici. E anche in fatto di personaggi maschili, la letteratura si spreca. E i personaggi femminili? Esistono? Certo. E se esistono le scrittrici, le infermiere, le avvocate, le architette (anche se questo è un po’ osè), perché non ci sono le personagge? Da oggi ci sono, e ce l’ha insegnato Silvia Neonato. Le personagge sono più complesse dei personaggi. Ai personaggi basta che gli dai il calcetto il venerdì sera, una birra, un po’ di scollatura, e sono a posto. Le personagge vogliono qualcosa di più. “Sono di carta, ma vogliono essere amate come donne in carne e ossa”; amate finché morte non vi separi, e fortunatamente da qualche anno le trame stanno lasciando sopravvivere le nostre protagoniste, troppo spesso vittime di strazianti suicidi nella classicità. Ora che anche i nonni si sono abituati allo schermo touch, le donne sono diventate una realtà letteraria non ignorabile. E infatti le loro personagge vivono, sfidano, osano! Perché “la letteratura, specialmente quella pop che non passerà alla storia, è il ventre molle che rispecchia i cambiamenti del mondo”. Pensiamo a alcune delle più recenti eroine. Lisbeth Salander della saga Millenium di Stieg Larsson, che ci dimostra “quanto possa essere feroce una donna abusata”. Katniss Everdeen degli Hunger Games di Suzanne Collins (personaggia che non mi aspettavo di sentire nominare da una donna che non portasse jeans strappati a vita bassa e maglietta sopra l’ombelico). Questa protagonista che finalmente non è una ragazza che deve farsi maschio, ma diventerà una giovane donna, completa e vincitrice nella sua femminilità, e senza alcuna invidia del pene. Il libro raccoglie anche diverse dichiarazioni sulle personagge più amate dalle diverse interlocutrici. Ester Armanino confessa una passione per Salomè Otterbourne, un’eccentrica, vulcanica e alcolizzata scrittrice di mezz’età di discutibili romanzi del genere rosa-piccante, personaggio minore di Assassinio sul Nilo della celebre Agatha. E una chicca così poteva scovarla solo Ester, che ha uno spirito di osservazione maniacale per le donne in letteratura. Lei, che delle personagge ha fatto sempre le protagoniste (in Storia naturale di una famiglia, primo romanzo, e ne L’arca, appena uscito per Einaudi), ci confessa la sua scoperta: “le mie personagge sono sempre sdoppiate. La mia protagonista, se è donna, non è mai unica, ma è costituita da una traiettoria tra due donne differenti. Come Antigone e Ismene”. Le donne che scrivono donne, non le dipingono mai sole. Sono sempre in amicizia, o in antitesi, comunque in stretto legame. Questo perché le scrittrici portano con loro i ricordi dei rapporti intrecciati con altre donne. Motivo per cui “gli uomini, quando scrivono di una donna, la lasciano sola. E anche motivo per cui i miei uomini (quelli di cui scrive Ester) risultano sempre un po’ dispari”. Il mondo editoriale moderno, per fortuna, sembra riconoscere le potenzialità – meramente commerciali – della scrittura femminile (non rosa!). Pensiamo alla campionessa di traduzioni L’amica geniale e tutti i suoi seguiti. Annamaria Fassio, giallista genovese di successo, ci dice che “è stato il suo editor a chiederle di fare diventare Erica Franzoni, inizialmente personaggio secondario, protagonista assoluta dei suoi gialli”. Meno male. C’è speranza per il mondo maschile, che potrà leggere sempre più scrittrici (con la “ici”) di qualità. E di conseguenza, forse, capire meglio le donne. E sapere cosa a rispondere a “cosa guardi in una donna?”. Un buon libro per aprire nuovi punti di vista. Io non l’ho ancora letto. Sono pur sempre un maschio. L’invenzione delle personagge a cura di Roberta Mazzanti, Silvia Neonato, Bia Sarasini Iacobelli Editore
Quando ho preso per la prima volta in mano L’Arca le mie dita infreddolite si sono posate sulla copertina di carta opaca e dalla consistenza spessa e hanno cominciato a fare su e giù, incapaci di smettere, come tirate da una forza di piccoli fili invisibili, lungo e dentro l’azzurro che dalla superficie del libro promana. Credo fosse il modo di riconoscere qualcosa che si stava aspettando da un po’. Inutile fingere, ho letto il primo romanzo di Ester Armanino esattamente cinque anni fa, quasi in questo periodo, inutile fingere che non sia stato uno dei libri che più ho desiderato che ognuna delle persone che ci teneva a sapere qualcosa di me leggesse. Ai tempi non la conoscevo, se non tramite la familiarità che sentivo per Bianca, la sua protagonista, quel pezzo autentico di lei finito tra le pagine. E poi quella scrittura, quella scrittura così delicata e chirurgica allo stesso tempo, quella scrittura che non risparmiava niente, nessun dettaglio, nessuna emozione: sentivo vicina anche lei. Diceva le cose come si dovevano dire. Come capita quando incontri il libro e lo scrittore giusti al momento giusto. Una volta un ragazzo con cui uscivo, dopo aver letto il libro su mio suggerimento, con aria seria mi aveva allungato una domanda che non mi sono dimenticata: ma come fa a raccontare così lucidamente quei particolari dell’infanzia che quasi tutti si dimenticano? I casi sono due, si era risposto: o ha una macchina del tempo oppure è davvero brava. Sono abbastanza sicura che Ester Armanino non viaggi sulle macchine del tempo, anche se, forse, le piacerebbe. Comunque sì, la considerazione rimane la stessa, anche dopo aver letto L’Arca: non ha perso il dono, gli occhi del “bambino”. Questa volta li infila nello sguardo luminoso di Pietro, figlio di Nadia, sei anni, cucciolo dalla personalità acuta. È lui che, tirando il cordino della storia, ci porta a bordo dell’arca. Accanto e vicino ai suoi genitori, a sua zia, ai suoi cugini, al cane Barba e a un amico speciale. Pagina dopo pagina, ci presta i suoi occhi, che sanno ancora credere ai draghi e ci fa entrare dentro a una metafora che, con la potenza del simbolo, ha la capacità di rendere tutto più chiaro. Parlavo dell’azzurro della bellissima copertina, illustrata da Cecilia Campironi. Sì, le mie dita si sono tuffate, assetate, in quell’azzurro, perché in questo libro la pioggia è il più importante dei quattro elementi. L’acqua. L’acqua che scorre e minaccia. L’acqua che arriva violenta e lascia senza via di scampo. L’acqua di Genova, a volte, e di tutti quei posti in cui si è imparato a temerla. Ma la temevano già gli antichi ed è proprio così che il libro comincia: con Noè e la grande imbarcazione. Ma non è del tutto corretto, perché il libro comincia, a dir la verità, con la moglie di Noè, che, rannicchiata come una cimice nella barba del suo importante uomo, vuole raccontare per noi una prospettiva inconsueta di quella stessa storia che tutti, più o meno, conosciamo: ci tiene a dire perché anche lei è lì. La storia:“Io, hai detto sollevando le spalle. Come sono?” Teresa e Nadia. Due sorelle. La norma e la trasgressione. Sventatezza e Avvedutezza, come le chiamavano da piccole. Due poli al cui interno si cela anche l’opposto. Divise per anni dalla paura del giudizio dell’altra. “Volevo essere come te” E Pietro, figlio di Nadia, che “vorrebbe essere nell’arca” perché “vuole stare dove succedono le cose, anche quelle che non capisce”. Teresa, che non lascia affondare la nave, non la lascerà. Nadia, che ora ha bisogno di lei. E poi il significato della malattia “La radiazione elettromagnetica attraversa le sue diverse strutture anatomiche, quelle più dense e quelle meno dense, viene captata da piccole camere di ionizzazione, poi diventa un segnale elettrico, è elaborata dagli algoritmi, fornisce un’immagine. È quella la donna che sta cercando.” Una storia sull’identità. E sulle differenze. E su cosa vuol dire crescere sempre davanti alla propria ombra, come la intendeva Jung: il proprio opposto. “Ma non ho più paura a esserti compagna nella tempesta… Sorella, non negarmi il privilegio di morire insieme a te… Che vita sarà la mia, quando non ci sarai più?… In parti uguali è divisa la colpa.” (Antigone, tradotto da Ester Armanino e Maria Rosaria Di Garbo) Nel libro compaiono alcuni versi, tradotti personalmente dal greco antico all’italiano dalla nostra autrice, della tragedia di Sofocle, Antigone. Antigone ed Ismene, sono due sorelle che aiuteranno le due sorelle, Nadia e Teresa, a mettere a confronto le loro personali posizioni, i loro personali equilibri nella storia. Due cuori speculari. L’ordine e la rivoluzione. E allora che cosa sarebbe Teresa senza Nadia? E cosa Nadia senza Teresa? Sono state libere di scegliere i loro ruoli e i loro “difetti tragici” oppure si sono determinate vicendevolmente al contrario? Chi ha scelto meglio? Chi ha fatto meglio? Chi si merita di restare? Chi decide di andare? Chi di salvarsi? “Quale sarà la mia felicità? Che donna felice diventerà la piccola Antigone? Quali miserie bisognerà che compia anche lei, giorno per giorno, per strappare coi suoi denti il suo piccolo brandello di felicità? Ditemi, a chi dovrà mentire, a chi sorridere, a chi vendersi? Chi dovrà lasciare morire voltando lo sguardo?” (Antigone, di Jean Anouilh) L’Arca di Ester Armanino racconta, ancora una volta, del dolore e della separazione, della meraviglia e dell’intensità di ogni piccola scheggia di quotidiana realtà come di qualcosa di vitale importanza. Auguro anche a voi di poter sentire nella sua scrittura tutta la dedizione e la scelta fine e accurata che, cinque anni fa come oggi, ho percepito nelle sue parole. Una volta, poco tempo fa, mi ha detto che a volte si chiede che cosa pensino le sue parole di lei: lei che le sposta, le cambia, le aggiunge, le accorcia, le unisce, le lima, le taglia… all’infinito. Si sentiranno maltrattate forse, sottoposte a torture turche! Io, che sono qui a leggerne la composizione finale, credo che si sentano felici di stare dove lei le ha messe.
Un libro per l’alluvione. In occasione dell’uscita della raccolta “Undici per la Liguria” a cura di Marcello Fois, undici scrittori liguri hanno messo a disposizione le proprie penne per contribuire, con ciò che sanno fare, alla causa degli alluvionati. Due delle undici penne, le puoi trovare a Officina Letteraria. Le ho intervistate e ho restitutito quello che è emerso in questo post. Intervista doppia: Ester Armanino e Bruno Morchio raccontano dell’evento dell’alluvione attraverso la narrazione di una crisi sentimentale. Comodità, beni irrinunciabili, routine. Solitudine, incapacità di cambiamento, incomunicabilità. Sicurezza, che non è sinonimo di felicità. Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. La città durante l’alluvione è come un “cadavere in putrefazione” (Il postino suona sempre due volte), “il diluvio, spietato e indifferente, non aveva fatto altro che portare a galla la verità” (Il postino suona sempre due volte).”Tra i detriti accumulati un po’ ovunque mi sembra di scorgere le nostre cose. Tu scuoti la testa e mi rassicuri. Ci assomigliano ma non sono le nostre” (Nessun rischio). Detriti della relazione tra due persone e di quella tra loro e le Istituzioni della città. Ho chiesto ad entrambi com’è nata l’idea di raccontare il disagio sociale anche attraverso quello privato-relazionale. Ester Armanino: “Per me è inevitabile partire dall’esperienza personale sempre e comunque. Non riesco a orientarmi nel generale se il mio occhio prima non coglie i dettagli, le pieghe anche più trascurabili del reale e delle relazioni. L’alluvione ha travolto la città, nella città c’era una coppia: sono partita da qui. Da come avevano arredato casa, dai loro gesti e da ciò che tradiva la presunta solidità del loro rapporto. C’è un racconto bellissimo di Amy Hempel che s’intiola Nella vasca e inizia così: “Il mio cuore – credevo si fermasse. Così ho preso la macchina e sono andata a cercare Dio”; un esempio magistrale di come da un piccolo dettaglio, il battito del cuore percepito nella vasca piena d’acqua, si passi alla dimensione di una macchina più grande e poi a quella indefinibile di Dio, in due sole frasi.” Bruno Morchio: “È nata dalla realtà, dalla mia esperienza personale. In coppia succede di litigare e la trattoria, la Vespa, l’ora in cui sono passato dal luogo dell’alluvione sono un racconto autobiografico. Anche l’idea dell’altro fango, quello mediatico, corrisponde alla realtà. Per fortuna, il resto è fantasia. Il senso di morte, di dissoluzione che accompagna eventi come questi, risulta più efficace se viene associata a un elemento soggettivo, privato.” Poi chiedo loro qual è, se c’è, la differenza tra la lettura della società che danno gli scrittori attraverso la narrazione e quella di coloro che, invece, ci parlano della crisi sociale e politica senza la mediazione dello storytelling (giornalisti, politici). In pratica: Rispetto alla cronaca, il messaggio dello scrittore arriva al lettore in modo più intimo e personale, quindi più efficace? Ester Armanino:“Abbiamo un bisogno incommensurabile di storie, questo è appurato. Io non sono una grande consumatrice di serie televisive, ma la maggior parte delle persone che conosco sì, per loro è come una droga, come per me lo è rileggere periodicamente i libri della mia infanzia. Fabrizio De André ha detto che scriveva “per il bisogno di sentirsi protetto da una storia”, pensiero altissimo che onoro e condivido. In un mondo stracolmo di fatti e informazioni usa-e-getta, le storie hanno il meraviglioso potere di condurci al riparo dal ricatto mediatico, da quel sentirci in dovere di ospitare un’opinione a tutti i costi. Il mondo filtrato da una storia non cambia, ma forse ci coglie più preparati, perché ci siamo concessi il tempo di riflettere attingendo a un immaginario preesitente, archetipico. Anche quando la storia è dolorosa, cruda, non importa: siamo vulnerabili, ma protetti. Abbiamo l’antidoto.” Bruno Morchio: “Credo dipenda dalla bravura dello scrittore o del giornalista. Un buon reportage di cronaca può efficacemente documentare un evento tragico come sono state le alluvioni a Genova (in effetti il titolo del mio racconto dovrebbe essere cambiato: il postino ha suonato tre volte). Però non c’è dubbio che il messaggio “mitopoietico” (narrazione, poesia epica o lirica) ha il potere di raccontare l’esperienza del vissuto, mettendo a nudo la soggettività di coloro che sono coinvolti e, attraverso il meccanismo dell’identificazione, attivando le emozioni del lettore. A chi direbbero qualcosa le pietre di Troia se non avessimo letto l’Iliade?” Proseguo nell’intervista doppia: il filo conduttore di tutta l’antologia sembra essere il rapporto tra la Legge dell’uomo e quella della Natura. Gli scrittori potrebbero dirsi coloro che riescono ancora a vedere e a rispettare la Bellezza del mondo? A “restare umani”? Ester Armanino: “Più che bellezza, direi che gli scrittori indagano la banalità del mondo. Tendono a cogliere lo straordinario nell’ordinario, a rivalutare il banale nelle nostre vite come qualcosa di prezioso e importante. E vale anche il processo contrario: attraverso le parole raccontare ciò che ha avuto una portata straordinaria nella vita di molti e che sarebbe impossibile descrivere se non riconducendolo alla sfera personale, ai dettagli apparentemente banali e ordinari delle singole esperienze.” Bruno Morchio: “Gli scrittori, quando ce l’hanno, posseggono una dote: la capacità di scrivere, cioè di tradurre in parole il vissuto proprio e altrui. Questo è già molto e io mi accontenterei. Non credo che abbiano altre facoltà carismatiche, né che riescano a vedere più lontano degli altri.” Specialmente in Nessun rischio la protagonista osserva la ricostruzione della città in seguito all’alluvione con una sorta di desiderio (“Noi viviamo al terzo piano (…). Al terzo piano non corriamo alcun rischio“), vorrebbe la stessa possibilità di rinascita anche per se stessa e per la sua relazione. Questo mi ispira l’ultima domanda: La crisi puó essere una “benedizione” se porta a un cambiamento sperato? È questo il tipo di “speranza” che i vostri racconti vogliono sussurrare al lettore? Ester Armanino: “Sì, a patto che – come diceva Marcello Marchesi – la morte ci trovi vivi. Perché ogni tanto bisogna correre il rischio di cambiare le cose, “andarsela a cercare”. Altrimenti accontentiamoci di sopravvivere.” Bruno Morchio: “Credo che la teoria delle catastrofi abbia sostenuto qualcosa del genere. Del resto la storia ci insegna che i sistemi economici e