Quando ho preso per la prima volta in mano L’Arca le mie dita infreddolite si sono posate sulla copertina di carta opaca e dalla consistenza spessa e hanno cominciato a fare su e giù, incapaci di smettere, come tirate da una forza di piccoli fili invisibili, lungo e dentro l’azzurro che dalla superficie del libro promana. Credo fosse il modo di riconoscere qualcosa che si stava aspettando da un po’. Inutile fingere, ho letto il primo romanzo di Ester Armanino esattamente cinque anni fa, quasi in questo periodo, inutile fingere che non sia stato uno dei libri che più ho desiderato che ognuna delle persone che ci teneva a sapere qualcosa di me leggesse. Ai tempi non la conoscevo, se non tramite la familiarità che sentivo per Bianca, la sua protagonista, quel pezzo autentico di lei finito tra le pagine. E poi quella scrittura, quella scrittura così delicata e chirurgica allo stesso tempo, quella scrittura che non risparmiava niente, nessun dettaglio, nessuna emozione: sentivo vicina anche lei. Diceva le cose come si dovevano dire. Come capita quando incontri il libro e lo scrittore giusti al momento giusto. Una volta un ragazzo con cui uscivo, dopo aver letto il libro su mio suggerimento, con aria seria mi aveva allungato una domanda che non mi sono dimenticata: ma come fa a raccontare così lucidamente quei particolari dell’infanzia che quasi tutti si dimenticano? I casi sono due, si era risposto: o ha una macchina del tempo oppure è davvero brava. Sono abbastanza sicura che Ester Armanino non viaggi sulle macchine del tempo, anche se, forse, le piacerebbe. Comunque sì, la considerazione rimane la stessa, anche dopo aver letto L’Arca: non ha perso il dono, gli occhi del “bambino”. Questa volta li infila nello sguardo luminoso di Pietro, figlio di Nadia, sei anni, cucciolo dalla personalità acuta. È lui che, tirando il cordino della storia, ci porta a bordo dell’arca. Accanto e vicino ai suoi genitori, a sua zia, ai suoi cugini, al cane Barba e a un amico speciale. Pagina dopo pagina, ci presta i suoi occhi, che sanno ancora credere ai draghi e ci fa entrare dentro a una metafora che, con la potenza del simbolo, ha la capacità di rendere tutto più chiaro. Parlavo dell’azzurro della bellissima copertina, illustrata da Cecilia Campironi. Sì, le mie dita si sono tuffate, assetate, in quell’azzurro, perché in questo libro la pioggia è il più importante dei quattro elementi. L’acqua. L’acqua che scorre e minaccia. L’acqua che arriva violenta e lascia senza via di scampo. L’acqua di Genova, a volte, e di tutti quei posti in cui si è imparato a temerla. Ma la temevano già gli antichi ed è proprio così che il libro comincia: con Noè e la grande imbarcazione. Ma non è del tutto corretto, perché il libro comincia, a dir la verità, con la moglie di Noè, che, rannicchiata come una cimice nella barba del suo importante uomo, vuole raccontare per noi una prospettiva inconsueta di quella stessa storia che tutti, più o meno, conosciamo: ci tiene a dire perché anche lei è lì. La storia:“Io, hai detto sollevando le spalle. Come sono?” Teresa e Nadia. Due sorelle. La norma e la trasgressione. Sventatezza e Avvedutezza, come le chiamavano da piccole. Due poli al cui interno si cela anche l’opposto. Divise per anni dalla paura del giudizio dell’altra. “Volevo essere come te” E Pietro, figlio di Nadia, che “vorrebbe essere nell’arca” perché “vuole stare dove succedono le cose, anche quelle che non capisce”. Teresa, che non lascia affondare la nave, non la lascerà. Nadia, che ora ha bisogno di lei. E poi il significato della malattia “La radiazione elettromagnetica attraversa le sue diverse strutture anatomiche, quelle più dense e quelle meno dense, viene captata da piccole camere di ionizzazione, poi diventa un segnale elettrico, è elaborata dagli algoritmi, fornisce un’immagine. È quella la donna che sta cercando.” Una storia sull’identità. E sulle differenze. E su cosa vuol dire crescere sempre davanti alla propria ombra, come la intendeva Jung: il proprio opposto. “Ma non ho più paura a esserti compagna nella tempesta… Sorella, non negarmi il privilegio di morire insieme a te… Che vita sarà la mia, quando non ci sarai più?… In parti uguali è divisa la colpa.” (Antigone, tradotto da Ester Armanino e Maria Rosaria Di Garbo) Nel libro compaiono alcuni versi, tradotti personalmente dal greco antico all’italiano dalla nostra autrice, della tragedia di Sofocle, Antigone. Antigone ed Ismene, sono due sorelle che aiuteranno le due sorelle, Nadia e Teresa, a mettere a confronto le loro personali posizioni, i loro personali equilibri nella storia. Due cuori speculari. L’ordine e la rivoluzione. E allora che cosa sarebbe Teresa senza Nadia? E cosa Nadia senza Teresa? Sono state libere di scegliere i loro ruoli e i loro “difetti tragici” oppure si sono determinate vicendevolmente al contrario? Chi ha scelto meglio? Chi ha fatto meglio? Chi si merita di restare? Chi decide di andare? Chi di salvarsi? “Quale sarà la mia felicità? Che donna felice diventerà la piccola Antigone? Quali miserie bisognerà che compia anche lei, giorno per giorno, per strappare coi suoi denti il suo piccolo brandello di felicità? Ditemi, a chi dovrà mentire, a chi sorridere, a chi vendersi? Chi dovrà lasciare morire voltando lo sguardo?” (Antigone, di Jean Anouilh) L’Arca di Ester Armanino racconta, ancora una volta, del dolore e della separazione, della meraviglia e dell’intensità di ogni piccola scheggia di quotidiana realtà come di qualcosa di vitale importanza. Auguro anche a voi di poter sentire nella sua scrittura tutta la dedizione e la scelta fine e accurata che, cinque anni fa come oggi, ho percepito nelle sue parole. Una volta, poco tempo fa, mi ha detto che a volte si chiede che cosa pensino le sue parole di lei: lei che le sposta, le cambia, le aggiunge, le accorcia, le unisce, le lima, le taglia… all’infinito. Si sentiranno maltrattate forse, sottoposte a torture turche! Io, che sono qui a leggerne la composizione finale, credo che si sentano felici di stare dove lei le ha messe.
La nostra recensione di Volevamo essere Jo, romanzo di Emilia Marasco in uscita per Mondadori il 29 aprile 2016
Si dice che i giovani d’oggi sono quello che sono per colpa di qualcuno, o di qualcosa. Di chi, esattamente? È forse colpa dei genitori, dei nonni, della società, dei reality show, del cellulare regalato troppo presto, delle maestre che si fanno dare del tu? Difficile rispondere. Cambiamo domanda. Esiste davvero una colpa? Ogni età ha i suoi malanni. Il malanno di Bianca è tipico di buona parte degli adolescenti: credere che ogni cosa che avviene sia irrimediabile. Bianca vuole fare l’attrice, e l’articolo non è scelto a caso: non vuole essere un’attrice, vuole essere l’attrice, la stella più luminosa di tutte, che così luminosa non ce n’è mai stata. Bianca crede che se non realizzerà ora questo sogno, ora, nei suoi acerbi sedici anni, la sconfitta sarà irrimediabile, non lo realizzerà mai. Perché non esiste un dopo, per gli adolescenti, la vita è un oggi senza fine, e oggi è suo fratello Valerio la stella del cielo di famiglia, Valerio e le sue scarpe da calcio, Valerio e le sue battute affilate, Valerio che mamma e papà hanno occhi solo per lui. «Anche mamma e papà mi guarderebbero con la stessa passione, ne sono certa. Se solo Valerio smettesse di esistere». Bianca cerca allora approvazione in tutti gli altri occhi del mondo, specchi in cui riflettere la sua immagine di diva, la sola che comprende. Bianca recita così bene che tutti le credono: a Gabriele, il nuovo arrivato, non sembra vero che lei, così bella, scelga proprio lui per farlo la prima volta, scelga proprio lui come alleato per avvicinarsi al suo irrimediabile sogno. Bianca recita così bene che ormai, di se stessa, conosce solo la messa in scena. Ogni emozione, in lei, è irrimediabilmente frantumata: non c’è dolore, né rabbia, né felicità, né spensieratezza. Il provino all’Accademia d’Arte Drammatica e la premeditazione di un assassinio sono recitate con la stessa intensità. Ha un solo amore, Bianca. Una bestia, il lupo cattivo, l’incompreso delle fiabe, come è incompresa lei. Sogna di riscattarlo, mentre varca il primo passo nel firmamento delle celebrità. Scrive il monologo del loro amore eterno, e recitarlo è come respirare, per buona parte della storia, finché neanche quel respiro basta più. «Ho amato una bestia, nelle notti d’estate mi mordeva con le cinque punte di una stella». La storia di Bianca dura una manciata di pagine, ma capaci di far provare a chi legge tutte le emozioni che esistono: fai il tifo per lei, provi compassione, la disprezzi, la guardi dall’alto in basso, pensi che se l’è cercata, desideri per lei tutto il male possibile e subito dopo tutto il bene possibile, vorresti tornare indietro di qualche pagina e non aver pensato tutti quei pensieri, vorresti restituirle l’infanzia e farla ripartire daccapo, che quei sogni lì non tornano più, dopo, desideri che all’irrimediabile si ponga rimedio. Neanche in questo c’è colpa. Perché Bianca è tutte noi, che da bambine ci mettevamo il rossetto della mamma e poi lo usavamo come microfono cantando davanti allo specchio. Bianca è noi, che guardavamo la televisione e volevamo entrarci dentro, e da là dentro guardar crepare d’invidia tutte le persone che ci hanno fatto del male. Bianca è noi, che a ogni mi piace ci sentiamo importanti, e quando in alto a destra della bacheca Facebook non c’è alcun quadratino rosso delle notifiche crediamo che il mondo si sia dimenticato di noi. Bianca è noi, è il limite che non varcheremo mai. Il lupo cattivo non mangia le persone perché è cattivo, ma perché è la sua natura: Bianca lo ha capito. Quello che non ha capito, non ancora, è che il lupo cattivo mai mangerebbe un suo simile. Bianca da morire, romanzo di Elena Mearini (Cairo Editore, 2016).
Segnaliamo in uscita per la casa editrice Emma Books Verso Sud, il quarto romanzo di Emilia Marasco, coordinatrice di Officina Letteraria. Un viaggio da Genova alla Puglia alla riscoperta delle proprie radici, per rimettere insieme i frammenti del passato. Il viaggio di Nora, il viaggio di Caterina, il viaggio di Paola. Giovedì 12 febbraio alle ore 20:00 si tiene a La Claque (Genova) la prima presentazione del romanzo, nell’ambito della rassegna teatrale Occhiali d’Oro organizzata da Approdo Ostilia Mulas – Arcigay Genova. Introduce Marta Traverso, letture a cura di Sara Sorrentino. Sinossi del romanzo Nora e Caterina, madre e figlia, per tutta la vita hanno avuto una relazione difficile nutrita di silenzi e di gesti mancati. Quando Nora muore, tra gli oggetti appartenuti alla madre Caterina trova i frammenti di una storia che non conosceva. Inizia così un viaggio a ritroso nel tempo, verso sud, da Genova alla Puglia. A spingere Caterina a partire, solo piccoli indizi: un abito da sposa di seta da paracadute, un camicino da neonato, poche lettere, qualche fotografia. “L’estate del ’43. In autobus Caterina pensa a Nora ventenne, nelle foto, che guarda il fidanzato americano. Chissà cosa facevano quando s’incontravano, stavano in famiglia, passeggiavano sulla piazza sotto gli occhi di nonna Rita, chissà se andavano al mare. Il paese è in campagna ma il mare è vicino. Nora amava il sole, amava nuotare, chissà se andava in spiaggia con quei costumi castigatissimi dell’epoca. Finché, un giorno, lui parte per una missione, a bombardare qualche città in Germania, e non torna più. Nora rimane col suo abito da sposa di seta del paracadute. Perché il paese parlò? Uno scandalo? Un segreto? Vorrebbe poter tornare nella casa di Nora, la casa dove lei è cresciuta, sedersi in un angolo e ricostruire le conversazioni, le liti, cercare di rivedere Nora entrare e uscire, muoversi da una stanza all’altra, rivedere nonna Rita, rivedere suo padre.” Caterina non sarà sola nel suo viaggio verso sud. Accanto a lei, Paola. E avvicinandosi alla storia di sua madre, Caterina si avvicinerà anche a una parte sconosciuta di sé. Vi aspettiamo dunque giovedì 12 febbraio a La Claque La presentazione sarà accompagnata da un aperitivo (a partire dalle 19:00). Seguirà, alle 21.15, lo spettacolo Metafisica dell’amore a cura della compagnia Le Brugole.
Scena di apparente vita quotidiana: un ragazzo sotto la doccia. Solo che non vuole lavarsi da solo, o non è in grado, o non gli viene permesso. Sono le infermiere a farlo per lui. Ogni mattina, uno scroscio di resina di pino silvestre, il sangue degli alberi, striscia lungo il suo tronco sotto forma di bagnoschiuma, graffia la sua corteccia, soffoca le foglie tra i suoi capelli. Ogni mattina, l’acqua ripulisce l’emorragia di un albero tramutato in sapone, mentre il corpo del ragazzo resta inerte sotto le mani altrui. Ogni mattina, l’acqua ripulisce l’emorragia di un albero tramutato in sapone, mentre il corpo del ragazzo resta inerte sotto le mani altrui Con questa immagine inizia A testa in giù, romanzo di Elena Mearini appena pubblicato da Morellini Editore. Gioele abita il mondo costruito nella sua mente, confinato in un muro di silenzio che lui stesso cerca e si impone, mentre all’esterno i degenti e il personale dell’istituto tentano inutilmente di “salvarlo”. Gioele è un picchiato in testa: così si definisce, così sa di essere definito. È la sua natura. Eppure, sarebbe così semplice comprendere la verità: non siamo tutti fatti per comunicare attraverso la voce. La voce di Gioele non è quella che esce dalle vibrazioni dentro la bocca: è quella del picchiettio delle mani e dei piedi, della testa contro il muro, degli oggetti che cadono e sbattono. “La mia voce è il suono, io dico con i rumori” Sono i suoni a portarlo fuori dalle mura dell’istituto, un giorno. Sono i suoni a farlo montare su Domingo, mettere in moto, guidare per alcuni metri e quasi investire una signora in bicicletta. Maria monta sul sedile passeggero, vuole andare al Pronto Soccorso, poi no, fuori Milano, in campagna, dov’è nata e cresciuta e dove si annidano i suoi ricordi. Maria è un fiume di parole, parla, parla, parla dell’uomo che da bambina le faceva male in mezzo ai cespugli, delle patate da raccogliere, della sua mamma, del signore Gesù che lei ama così tanto, di suo marito che amava di più il vino, di sua sorella Eleonora che era incinta e nessuno la voleva. Maria parla con la voce, Gioele risponde battendo sul volante, uno-due, uno-due. Finché, chilometro dopo chilometro, sentono l’uno nell’altra il richiamo del sangue che scorre lungo le loro cortecce ferite. Un romanzo che è poesia, che traduce le immagini tipiche della scrittura di Elena Mearini in un crescendo di emozioni, attraverso due voci narranti così in apparenza lontane ma in realtà simili più che mai. Un romanzo che ci ricorda che in ciascuno di noi si nasconde una storia.