Cara amica, benvenuta al Women’s Fiction Festival. Così leggo nella lettera contenuta nella cartellina rosa che mi consegnano all’ingresso della sala stampa delle Monacelle, via Riscatto numero 9/10. È il 24 settembre 2015. I miei occhi sembrano aver compiuto un salto spazio temporale sulla Luna: tutto qui è sorprendentemente bianco e un pò remoto. Io e le mie compagne di viaggio siamo sbarcate a Matera, la città dei Sassi. Staremo qui quattro giorni, assisteremo alla kermesse letteraria che da dodici anni riunisce decine di agenti letterari, editor, traduttrici, scrittrici e aspiranti scrittrici. Una collettività della lettura, come la definisce Alessandra Casella durante la serata conclusiva del festival. Una magnifica polarizzazione di addetti al mestiere del libro provenienti da tutto il mondo. Elizabeth Jennings, Maria Paola Romeo e Mariateresa Cascino sono le autrici di tutto questo, tre donne che lavorano nel mondo del libro e che credono che il futuro passi proprio da lì: aprite i libri, aprite il futuro. “Pochi libri cambiano una vita. Quando la cambiano è per sempre, si aprono porte che non si immaginavano, si entra e non si torna più indietro.” Christian Bobin Gli incontri. Panels. Quelli che trovo più interessanti sono le tavole rotonde con gli agenti letterari. Sono venuti qui da varie parti del mondo, specialmente da Inghilterra e Stati Uniti e sono tutti decisamente donne: Julia Churchill (AM Health Literary Agency), Penelope Holroyde (Penelope Holroyde Literary Agency), Vicky Satlow (Vicky Satlow Literary Agency), Christine Witthohn (Book Cents Literary Agency). A moderare le discussioni è la nostra agente italiana, direttrice editoriale del festival, Maria Paola Romeo (Grandi & Associati). Assisto munita di cuffiette per la traduzione, sono presenti in sala, infatti, le interpreti: lo scambio è così stimolante anche per via di questo colore e sapore internazionale. Si discute dell’attuale situazione del mercato editoriale italiano ed estero, di self publishing con case editrici digitali, da soli o assistiti da un agente letterario, di editoria tradizionale, di contratti editoriali, del futuro: ebook o carta stampata? Nel panel intitolato “Il nuovo mercato digitale in continuo cambiamento” si discute di come l’editoria oggi sia in trasformazione e di come sia difficile fare delle previsioni su quali saranno gli esiti di questo cambiamento. Gli ospiti a confronto sono Porter Anderson (giornalista specializzato nell’industria editoriale), Meghan Farrell (editor della Tule Publishing), Ricardo Fayet (Reedsy), Jane Friedman (consulente editoriale e esperta di digital media), David Gaughran (autore e esperto di digital media), Camille Mofidi (Kobo) e Maria Paolo Romeo (Grandi e Associati). Tra le altre cose, si parla di un articolo, uscito qualche giorno fa sul New York Times e intitolato: “La fine della rivoluzione digitale”. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, si può leggere, la previsione per cui nel 2015 le vendite di ebook avrebbero superato quelle del libro cartaceo non si è avverata, anzi. Gli ospiti del WFF mettono a confronto le loro idee a riguardo, le posizioni sono eterogenee e articolate, ma su un punto sembrano concordare: la rivoluzione digitale non è finita. Il mercato editoriale è molto frammentato e sta cercando nuovi modi di declinare se stesso. Inoltre sfuggono alle statistiche, usate per sostenere la tesi della fine della rivoluzione digitale, gli ebook di editori indipendenti e degli autori che si auto pubblicano su Internet, nonché i dati di Amazon, che notoriamente restano blindati. Focus. Ci sono, poi, incontri focus su “Come proteggere la tua privacy sui social media” con Adam Firestone. “Come promuovere il tuo libro su web” con Porter Anderson e Jane Friedman: lo scrittore diventa partner dell’editore nel processo di promozione del suo libro pubblicato, può sembrare un duro lavoro ma è così che funziona. “Come utilizzare Kobo writing life”, la piattaforma internazionale per auto pubblicare in digitale il proprio libro. Storie sull’editoria non occidentale. Particolare è l’incontro che viene spostato all’ultimo giorno con Manjiri Prabhu. Manjiri è una scrittrice indiana, è qui a WFF per parlare dell’industria editoriale in India. Manjiri è una donna sorridente e tenace: per tre anni ha provato a organizzare in India un Festival della letteratura a Pune al quale inizialmente partecipò solo una decina di persona. Ci mostra le foto della sala quasi completamente vuota nel 2013. Ci dice che se si cercano le persone offrendo loro eventi culturali di qualità, quelle prima o poi risponderanno. Ci mostra la foto del 2015: un applauso e molti sorrisi si accendono nella sala del WFF. Manjiri ce l’ha fatta. Ha portato quello che noi tutte qui amiamo anche a casa sua. Anche se è stato difficile. In India fino a poco tempo fa il numero di lettori era molto basso a causa della povertà e della scarsa alfabetizzazione. Oggi il mercato editoriale indiano è in forte crescita. Pitching! Durante le sessioni pomeridiane del WFF si svolge La borsa del libro, le aspiranti scrittrici possono prendere appuntamenti con gli editor e gli agenti letterari, dialogare con loro, illustrare il loro progetto di romanzo. Gli incontri non durano più di dieci minuti, in gergo sono chiamati pitch.A noi italiani sembra una parola strana, nella pratica si tratta di coppie di donne che dialogano sedute su grandi divani sparsi per i corridoi e le sale delle Monacelle. Molto suggestive a vedersi per chi passa di lì come me, un p0′ meno per chi sta esponendo il suo primo romanzo alla signora editor di turno! Ma si sa, dopo l’adrenalina, a volte, arrivano molte gioie. Sono presenti, sedute sui divani, editor di alcune delle maggiori case editrici italiane e sono state scoperte qui molte aspiranti scrittrici che hanno ricevuto proposte per un contratto editoriale a seguito di questo incontro. Workshop. Sempre durante il pomeriggio è possibile per gli iscritti al Women’s Fiction Festival partecipare a Workshop di scrittura creativa tenuti dalle due scrittrici e sceneggiatrici Flumeri e Giacometti: tre incontri di tre ore ciascuno tenuti in una bella sala abitata da poltrone bianche, due simpatiche e avvincenti conduttrici, slides illustrative e spezzoni di film, molte donne partecipanti e molti spunti per la costruzione di un personaggio. Le due autrici sono anche membri di EWWA ,
Sabato 11 aprile Officina Letteraria ospiterà Barbara Fiorio e la sua ironia per un laboratorio di scrittura ironica. Barbara, che ha fatto dell’ironia la sua cifra stilistica, spiegherà ai partecipanti cosa è l’ironia, come possono usarla al meglio per raccontare le loro storie, e li metterà alla prova con qualche esercizio di scrittura, ovviamente, ironica. Come lanciare meringhe a un Castello – non vi viene già voglia di farlo con un titolo così? – sarà un laboratorio divertente e leggero, e io, che sono già passata tra le mani di Barbara, non posso che consigliarvelo. Nel frattempo, mentre aspettate che arrivi sabato 11 aprile per venire a Officina letteraria e conoscere di persona Barbara, gustatevi l’intervista che le abbiamo fatto. I : Come hai iniziato? B : A scrivere, a sognare di scrivere o a pubblicare? Perché a scrivere ho iniziato da bambina, alle elementari, quando ho anche cominciato a leggere da sola i libri, verso i sette/otto anni. Il sogno di fare, da grande, la scrittrice è nato lì, ma ci son voluti più di trent’anni prima che io ci provassi davvero. Da adulta, ho iniziato con un blog sotto pseudonimo, quando erano ancora poche le persone in Italia che avevano un blog, parlo di tredici anni fa, e quelle poche amavano più scrivere che apparire. Quindi era tutto un po’ carbonaro, le community si creavano per osmosi, ci si sceglieva e leggeva per sintonia. Era molto stimolante, e in quello spazio protetto e portentoso ha preso vita il mio primo libro, C’era una svolta, una raccolta di fiabe classiche raccontate alla mia maniera, ma nella loro versione originale dei Grimm, di Perrault e di Andersen, di cui troverete tracce nel mio prossimo romanzo, Qualcosa di vero. Un amico sapeva dell’esistenza di un piccolo editore nel pavese, mi ha dato l’email, ho mandato il libro e il piccolo editore lo ha pubblicato. Per me era fondamentale che venisse pubblicato da qualcuno che non lo facesse per amicizia e che non chiedesse contributi alle spese. Così è stato, e non ho certo dovuto comprare cinquanta copie del mio libro per assicurare la copertura della stampa. I : Quando hai pensato per la prima volta che avresti potuto scrivere? B : Quando è stato pubblicato il mio primo libro. Fino a quel momento era ancora un mio desiderio che ogni tanto tiravo fuori dal cassetto dei sogni segreti e coccolavo con tenerezza, come si accarezza il vecchio orsacchiotto con cui giocavi da piccola. Quando qualcosa di scritto da me ha preso la forma di un libro vero, ignoti lettori lo hanno comprato, giornalisti che non conoscevo lo hanno recensito con entusiasmo e al mio prof di greco del liceo è piaciuto, ho pensato che forse avrei potuto scrivere sul serio. Avevo già quarant’anni. I :Qual è l’esigenza, il bisogno profondo che ti spinge a scrivere? B : Ho sempre scritto, sempre. Scrivevo da bambina per farmi compagnia e inventarmi storie che mi piacessero, scrivevo lettere, mail, chat con gli amici, persino i lavori che ho fatto si sono basati sulla scrittura: scrivevo presentazioni di spettacoli teatrali, schede di promozione, relazioni, poi comunicati stampa, dichiarazioni, prefazioni. Io comunico scrivendo. Ricordo un colloquio che feci moltissimi anni fa in una grande agenzia pubblicitaria. Era un colloquio come copywriter, stavo facendo un master a Milano, in quel periodo, e un mio professore ha voluto organizzarmi un incontro col direttore creativo di quell’agenzia. Lui, all’incontro, mi ha chiesto di fargli vedere un mio book di testi. Racconti, poesie, fiabe, incipit di romanzi, quel che potevo avere. Ma io non avevo niente di tutto ciò. Non avevo mai pensato di fare la copy finché un professore non aveva deciso che io ero una creativa e dovevo assolutamente scrivere, ma non avevo nulla da far leggere. “Scusa, tu ami scrivere e non hai niente di tuo da farmi leggere?”, mi aveva chiesto stupito il direttore creativo. Gli veniva da ridere, da quanto era assurda la situazione. Gli risposi con un candore che mi imbarazza ancora oggi, e resi ancora più assurdo quel colloquio. “Io scrivo mail, messaggi, post sul mio blog – dissi – ma quelli son privati. Non ho mai scritto racconti o poesie, ho solo scritto fiabe, ma ho smesso da adolescente”. Non ebbi mai quel lavoro, ovviamente, ma tutt’ora sono amica di quel direttore creativo, diventato nel tempo anche un mio lettore. I : Qual è l’aspetto che ti dà più soddisfazione nella scrittura? B : Quando entro nella storia e i personaggi conducono. Perché, sarà bene rivelarlo, scrivere è divertente finché lo fai nel cantuccio della tua stanza e ti fai leggere solo da amici e parenti. Quando diventa un impegno, si aggrava di aspettative, di scadenze, di risultati da raggiungere, di quella professionalità che devi avere per rispetto degli editori e dei lettori. Scrivere è fatica, è ansia di non farcela, è passare un pomeriggio su una frase, è ragionare sul dove mettere le virgole, è rompersi la testa su un aggettivo. Ma è anche, innegabilmente, un privilegio. Riuscire a trasformare la propria passione e il proprio talento in un lavoro è straordinario, ma molto più faticoso e raro di quel che si pensa. Però, quando mi metto davanti al computer, comincio a scrivere e vedo la storia che prende forma, vedo i personaggi muoversi da soli, vedo le parole che scorrono e disegnano un nuovo mondo, in quel momento mio e solo mio, dove io riesco a muovermi con familiarità, dove rido, mi commuovo, mi indigno e partecipo, creo, decido, ecco, quello è il momento in cui sto bene. I : Cosa hai provato quando è uscito il tuo primo libro? B : Quello che ho provato quando è uscito il secondo, poi il terzo e tra pochi giorni il quarto: gratificazione, emozione, trepidazione, paura, ansia. Anche un pizzico di terrore. So che chi è madre potrebbe guardarmi storto – la maternità è intoccabile – però pubblicare un libro è qualcosa che si avvicina molto a ciò che le
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi. Questo è il primo, se non lo aveste ancora letto, questo il secondo e questo è il terzo. “Non disponendo di un cavatappi, Kitano recise la carotide della bottiglia con un colpo secco, di taglio, della mano destra”. Si può recidere la carotide di una bottiglia? Sì, certo: visto che la bottiglia ha il collo. Ma… Ma il collo della bottiglia non è veramente un collo, non è un collo come il mio e il tuo; e non ci ha dentro la carotide. Tuttavia noi diciamo abitualmente “il collo della bottiglia”, senza contare quel tipo che voleva “spezzare le reni alla Grecia”, quell’altro che vuole “tagliare le gambe alla concorrenza”, eccetera eccetera. Si dice “collo”, o “reni”, o “gambe”, in queste espressioni, per modo di dire. Ecco: la quarta lezione concernerà l’uso delle parole “per modo di dire”. Si partirà dai modi di dire consolidati, dei quali non ci accorgiamo nemmeno (come quelli già citati: che sono, nel vocabolario della retorica, delle catacresi), per arrivare a quelli basati su relazioni e analogie facilmente intuibili (esempio classico: “un mare pieno di vele”, per dire “barche”), a quelli un po’ meno immediatamente intuibili (“Due volte nella polvere, / due volte sull’altar”: Manzoni, Il 5 maggio), per arrivare a quelli quasi inaccessibili, derivanti da associazioni mentali proprie dello scrittore (“In sé da simulacro a fiamma vera / errando”: Ungaretti, L’isola). Si esamineranno quindi modi di dire diversissimi: alcuni codificati e altri inventivi; alcuni tipici della prosa e altri della poesia; alcuni basati su aspetti visivi, altri su concetti, altri ancora su pure immaginazioni, altri perfino su puri e semplici lapsus. Gli esercizi consisteranno nell’esplorazione del “campo semantico” (che è anch’esso un modo di dire, per indicare “un insieme di parole di una stessa lingua che si riferiscono ad uno stesso gruppo organizzato di significati in qualche modo legati tra di loro” – la definizione è di Wikipedia) e quindi della potenzialità espressive (e anche ornamentali, perché no?) del lavoro di sostituzione e sovrapposizione di significati. Per tornare all’esempio iniziale: ricordiamoci che una mano non taglia. Anche in quel “di taglio” c’è un significato sovrapposto a un altro (e ricordiamoci che “sovrapporre” un significato a un altro non è come “sovrapporre” una tazza al suo piatto: anche lì c’è una “sovrapposizione” di significati…).
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi. Questo è il primo, se non lo aveste ancora letto, e questo il secondo. “Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti”. Questo è l’inizio di un famoso (o celebre?) sonetto di Petrarca. Guardiamo gli aggettivi. “Solo e pensoso”: due aggettivi per dire due cose diverse (o distinte?) ma combinate (o intrecciate?), che ci restituiscono un’immagine vivida (o concreta?) del poeta che malinconicamente (o tristemente?) va a spasso in campagna. Ma: “tardi e lenti”: qui la faccenda è diversa (o è un altro paio di maniche?). A meno di essere Usain Bolt o qualcosa del genere, se facciamo passi “tardi” (o tranquilli? magari bradipali?) li facciamo anche “lenti” (o quieti? calmi?). E poi, di quella “lentezza” già avevamo avuto sentore grazie a quel “pensoso” (provate a immaginarvi un Usain Bolt che corre “pensoso” i 100 metri), grazie a quel “vo misurando” che sembra indicare un movimento accurato (o preciso? meditato?) e, appunto, lento: come un compasso (non saranno allora passi compassati?). Non possiamo cavarcela dicendo che Petrarca aveva bisogno di una parola da far rima con “intenti” (“e porto gli occhi verso terra intenti / ove vestigio uman l’arena stampi”): primo, perché Petrarca era fin troppo (o molto? o: mostruosamente) bravo (o abile? avveduto? esperto?), e in un sonetto nel quale aveva scelto la difficile (l’ardua?) rima in :ampi non andava certo (sicuramente?) in panico per una rima in :enti, che ci son parole a bizzeffe (o in abbondanza?); secondo, perché solo riflettendo un poco (o un po’? un pochino?) ci accorgiamo che non solo (o non soltanto?) il significato letterale (o preciso? banale?)delle parole conta, in Petrarca, ma anche – e tanto – il loro suono: allora l’allitterazione in “l” conterà qualcosa, così come quella in “s” nella prima coppia d’aggettivi… Il modo più pratico per capire se un aggettivo va bene è: provare a sostituirlo con un altro, confrontare i significati che così si generano. Idem per gli avverbi (che sono, per così dire, gli “aggettivi dei verbi”). E così si scoprirà anche, magari, che l’aggettivo (o l’avverbio) proprio non serviva. La lezione su aggettivi e avverbi comincerà con alcuni giocosi esercizi e proseguirà con la seriosissima analisi di testi letterari e scientifici; includerà un approfondimento sull’uso dei dizionari (non solo quello tradizionale ma anche quelli dei sinonimi, i dizionari visuali ecc.).
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi che pubblicheremo a cadenza settimanale. Questo è il primo, se non lo aveste ancora letto. Chi abbia letto Mary Poppins si ricorderà che a un certo punto vi si parla di “un uomo con una gamba di legno che si chiama Smith”. E qualcuno non manca di domandare: “Come si chiama l’altra gamba?”. La costruzione della frase, l’incastro e la combinazione delle proposizioni, la collocazione delle parole all’interno della proposizione: di tutto questo si ragionerà attraverso una serie di esercizi di montaggio, smontaggio e rimontaggio di brevi testi esemplari, estratti sia dalla tradizione letteraria sia da opere scientifiche sia dall’attività giornalistica. Lo scopo, ovviamente, non è di determinare quale sia il modo giusto di fare una frase. Ovviamente lo scopo non è di determinare quale sia il giusto modo di fare una frase. Lo scopo, ovviamente, non è di determinare quale sia, per fare una frase, il modo giusto. Il giusto modo di fare una frase: ovviamente lo scopo non è determinarlo. Non è lo scopo, ovviamente, il modo giusto di fare una frase, di determinarlo. Il modo, determinarlo giusto, di ovviamente, lo scopo non è fare una frase. L’ultima frase non sta in piedi (e quindi dice la verità: lo scopo non è fare una frase). La penultima traballa, ma riesce ancora a far passare il concetto (sembra una frase trascritta da una conversazione). Le precedenti sono tutte “a norma”: ma hanno pur sempre dei significati, o delle sfumature di significato, un po’ diversi. Si tratta di scegliere quella che fa più al nostro comodo Alla contrapposizione classica tra paratassi (= tante frasi semplici tutte sullo stesso piano) e ipotassi (= una grande frase complessa che ne include altre) si aggiungeranno altre distinzioni, a volte scientifiche e a volte più emotive: tra prosa analitica e prosa sintetica, prosa lenta e prosa veloce, prosa inclusiva e prosa dispersiva, prosa con variazioni e prosa costante. Tenendo sempre conto che ciascun tipo di testo, ciascuno scopo comunicativo ha bisogno della sua specifica “frase giusta”.
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi che pubblicheremo a cadenza settimanale. Ecco il secondo. C’è chi dice che la punteggiatura serva soprattutto a indicare pause e sospensioni del discorso scritto (la virgola è una “pausa breve”, il punto è una “pausa lunga”, ecc.), come se fosse una notazione delle pause che facciamo nel discorso parlato (legate alla respirazione, alle esigenze espressive ecc.). E c’è chi dice che la punteggiatura serva soprattutto a rendere visibile l’articolazione sintattica e logica del discorso scritto, come le parentesi tonde quadre graffe delle espressioni matematiche. In realtà la punteggiatura fa entrambe le cose, e nessuna delle due fino in fondo. Provate a registrare una conversazione a tavola e poi a trascriverla: vi accorgerete che le pause non hanno nulla che fare con la sintassi e la logica – e assai poco con l’espressività. D’altra parte, molti dei testi che leggiamo recano una punteggiatura non necessariamente coerente con le intenzioni dell’autore (pensiamo ai testi tradotti da lingue che abbiano un’articolazione sintattica diversa dall’italiano: e non serve pensare al giapponese, bastano l’inglese o il tedesco). Altri testi che leggiamo, addirittura, recano una punteggiatura inventata: né Omero né Virgilio punteggiavano – ma anche Petrarca e Boccaccio avevano un sistema di punteggiatura completamente diverso dal nostro. La lezione sulla punteggiatura non fornirà regole e regolette: cercherà piuttosto di far sviluppare una sensibilità per la punteggiatura e, soprattutto, per gli effetti di senso che la punteggiatura produce (provate a confrontare: “Luisa lavora, Antonio dorme” e “Luisa lavora. Antonio dorme”: vi pare che le due battute dicano esattamente la stessa cosa?). Si lavorerà con esercizi semplici e (si spera) divertenti; ci si confronterà con la punteggiatura dei classici e dei contemporanei; si farà qualche approfondimento storico; si getterà uno sguardo nel campo della poesia, dove l’a capo alla fine del verso è un formidabile e specialissimo segno di punteggiatura (confrontate: “Di che reggimento siete, fratelli?” e “Di che reggimento / siete / fratelli”: non è la stessa cosa!).
di Andrea Fabiani Racconto terzo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli. È luglio, l’aria è umida e calda. L’autobus è affollato, l’aria condizionata rotta. Un anziano sale a bordo e dal fondo si lamenta a voce alta dei trasporti pubblici. Lui alza per un attimo la testa da libro che sta leggendo, poi la riabbassa subito. A lei dà soltanto un’occhiata distratta. Nota gli auricolari bianchi che le scendono dalle orecchie. Non sa quando si sia seduta lì accanto. Quando l’autobus riparte lei si appoggia a lui. Indossa una canottiera verde, lui una maglietta a maniche corte: la pelle delle loro braccia aderisce per un istante. Entrambi si ritraggono come punti da una spina, si risistemano sui sedili in modo da essere ognuno nel proprio spazio. Lo fanno senza dirsi nulla, senza voltarsi. Alla fermata successiva accade di nuovo. Lui si ritira, ma meno di prima, stringe semplicemente il braccio contro il costato, sente la punta del proprio gomito premergli sulla pancia. Lei non si muove. La sua pelle è calda, a quella distanza lui riesce a percepirlo distintamente. È una sensazione imbarazzante. Lo spazio che li separa è una gola stretta. Se poi l’autobus ha uno scossone quello spazio si riduce ancora e oltre al calore lui avverte un leggero solletico, piccoli peli invisibili lo accarezzano, strappandogli un brivido. Allora contrae maggiormente i muscoli del braccio e della schiena. Il libro che ha in mano non lo legge più, è concentrato solo sulla difesa della loro distanza. Persevera in questa resistenza per una decina di minuti, poi la spalla e la schiena cominciano a fargli male. Allora rilassa il braccio, che scivola fino a quello di lei. L’aria tra le loro pelli diminuisce, scivola via finché non c’è più. La gola si chiude, aderiscono uno all’altra. Che si sposti lei, pensa. Lei però non si sposta. Anzi, comincia a esercitare una leggera pressione così che la zona di contatto dei loro corpi, lentamente, aumenta. Lui sgrana gli occhi. È sorpreso da quel comportamento, ma ancor più da quanto sia dolce la sensazione di calore che si irradia da lei. Si chiede chi sia quella donna, cos’abbia la sua pelle. Non può vederla in volto. Potrebbe voltarsi, ma non vuole farlo. Ha paura che se lo facesse lei semplicemente si scuserebbe. Allora si scuserebbe anche lui e tra le loro pelli si formerebbe una barriera sottile, ma invalicabile, la pellicola della realtà. Mentre fa questi pensieri, senza rendersene conto, anche lui ha iniziato a spingere il proprio braccio verso l’esterno. La loro superficie di contatto aumenta ancora. Aumenta il calore. Ora ognuno dei due preme la propria pelle contro la pelle dell’altro, senza guardarlo, continuando a fingere di fare quello che stava facendo prima. Nessuno nell’autobus si accorge di niente. Avvicinandosi al capolinea i passeggeri diminuiscono, le strade si fanno periferiche, meno trafficate, più sconnesse. Sarebbero dovuti già scendere entrambi da alcune fermate. Prima lui e poco dopo lei. Ma hanno scelto di restare sull’autobus, seduti, attaccati, pelle a pelle, a gustare quell’imprevisto incontro dei loro confini. Ad ogni buca, curva, frenata sentono la loro zona di contatto modificarsi, aumentare, rimpicciolirsi, farsi di nuovo punto, nuovamente allargarsi in un lago. A volte si staccano e un refolo d’aria si insinua tra loro. Allora ritrovarsi è un sollievo. È un sollievo sentire le loro pelli che si premono, strusciano, si deformano, forse sono una soltanto. Non importa più dove stanno andando, non importa più chi siano. Importa solo il punto d’intersezione delle loro cellule e la percezione chiara che sotto quel punto, invisibile a tutti, perfino a loro stessi, scorre e si tende, e si muove tutta un’intera vita. Al capolinea l’autobus apre le porte e spegne il motore, scendono tutti. L’autista recupera la giacca e esce dal posto di guida, guardando verso l’interno. Scuote la testa, infila la giacca, poi scende anche lui. Loro sono ancora lì, seduti vicini, attaccati. Si guardano adesso e sorridono.
“È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” diceva Albert Einstein. Quando penso ai libri della mia infanzia, a quelli a cui torno puntualmente per salvarmi la vita, a quelli che non mi sono piaciuti, a quelli che non ho capito, a quelli che ho… a cosa penso? Penso… Penso alle parole nere incise sulla pagina. Penso alle frasi che mi hanno fatto sentire che non ero sola, che c’era qualcun altro che era passato di lì, che ci era riuscito, che aveva trovato quello che io stavo cercando. Penso alle voci dei personaggi. Penso ai loro modi di muoversi e di parlare, al tipo di parole che lo scrittore gli ha messo in gola. Penso alle atmosfere in cui mi sono immersa leggendo quelle storie, ogni libro ne ha una. Penso a come spesso mi sia trovata a desiderare di essere un personaggio anche io o a quanto avrei desiderato tirar fuori da quello spazio bidimensionale dell’immaginazione quegli eroi ormai così cari, familiari. Cartacanta. Scendendo le scale e entrando nel Laboratorio creativo di Marta Wrubl riesco a percepire il gusto del pregiudizio sotto la lingua, è un pregiudizio inteso in senso “buono”, è la manifestazione del mio non conoscere e quindi non capire. È quella ruga di stupore, quella “fatica” di aprirsi uno spazio mentale per permettersi di godere di una nuova luce. La carta è quello che manca nella mia percezione del libro. È abbastanza paradossale. Ma è così. La luce mi colpisce dritta in mezzo alla fronte. Flash. C’è un mondo qui dentro, in questo studio, che io non avevo mai considerato. La carta. Cosa ne sarebbe di tutti i personaggi e le parole senza la carta? Ma non è solo questo, c’è di più. Marta Wrubl e molti artisti come lei ne hanno scorto il potenziale, l’hanno messa al centro, le hanno dato la possibilità di essere opera d’arte. La carta bianca è come il silenzio, sembra che non abbia niente da dire. Assenza. L’ho sempre vista come assenza. Al più ho provato quel panico da pagina bianca, quell’ansia da prestazione che mi faceva avere fretta di riempirla, di dimostrare che ero in grado di farlo. Non l’ho mai guardata. Non credevo si potesse. Eccolo il pregiudizio. E invece. E invece lei è viva, sta zitta solo se non la ascolti. Richiede cure, Marta Wrubl lo sa, ha studiato per imparare a farlo, alla Scuola di Restauro di Firenze. Anche lei all’inizio la carta la usava solo come supporto: il suo primo amore è stato la pittura. Nel suo studio artistico fa entrambe le cose: lavora con la carta e dipinge. Cartacanta è il nome del suo spazio, il luogo dove sperimenta e gioca, mescola l’arte al sapere artigiano, studia diverse tecniche per trattare questa materia prima, si divide tra la creazione e il recupero, la conservazione e la trasformazione. Aggiusta libri antichi di quattrocento anni, a volte ci trova dentro piccoli reperti “archeologici”, tracce del passato sotto forma di un capello bianco (di uno studioso del 1600?) o di un insetto ormai bidimensionale, conservato tra le pagine quasi di seta. Un tempo la carta di faceva così: a partire dalle fibre della stoffa. La consistenza è quella di un tessuto, liscio e molto bianco, ancora oggi, oggi pomeriggio, mentre io ci passo sopra i popastrelli delle mie dita. Questa è la parte del lavoro di Marta in cui la carta chiede di essere rispettata, riportata al suo stato originario, il più possibile. E allora lei la cuce, ne riempie gli strappi, le toglie di dosso il tempo. I suoi clienti le portano di tutto: libri, manoscritti antichi, ventagli di carta con sopra dipinte scene bucoliche, tavole da backgammon, fumetti degli anni ’50, copertine di dischi, oggetti vintage. Ci sono persone per cui quella carta è molto importante. La parte più creativa del lavoro di Marta prevede la realizzazione di legature e oggetti in carta. È qui che il mio orizzonte si amplia. La carta può essere tridimensionale e può addirittura muoversi, gli artisti che sperimentano questo tipo di arte lo sanno, Marta li cita sul suo sito, io vado a curiosare e scopro cose meravigliose come questa. Inizio a capire come davvero la carta abbia dei segreti da offrire, come sia importante saper guardare. Gli artisti sono tali proprio perchè hanno occhi diversi, vedono la possibilità, sanno ascoltare la materia silenziosa, usarla in modi nuovi, rendere l’impossibile possibile, ampliare la realtà. Tagliare, piegare, incollare, traforare, sovrapporre e plasmare. Mi giro indietro verso ciò che credevo di sapere, vedo la scrittura farsi sempre più piccola e relativa, una tra le tante alternative. Marta Wrubl sperimenta tecniche di decorazione della carta come la marmorizzazione e il Suminagashi. Mi interessano anche l’arte dell’Origami, il paper cutting, i pop-up e la cartapesta, mi dice. Recentemente ho iniziato a produrre orecchini ed anelli utilizzando perline, ritagli e frammenti di carta marmorizzata o antica, mi piace l’idea che un particolare disegnato o stampato su carta possa diventare un oggetto da indossare. Mongolfiere parigine che “volano” sopra alle tue dite, a centinaia di anni di distanza da quando sono state disegnate su quelle pagine da cui lei le ha ritagliate, questa è la parte del lavoro che chiama “trasformare“, c’è molto rispetto per la carta anche in questo, è solo un altro modo di farla rivivere. Dopo aver ascoltato e guardato, cerco di ricostruire un’immagine di Marta. Mi cade lo sguardo sulla sua produzione di fogli di carta marmorizzati: cangianti, come lei. Marta Wrubl è un sacco di cose insieme: una restauratrice, una pittrice, un’illustratrice, un’artista in cerca di nuove intuizioni, una sognatrice, una che fa magie e contratta con il tempo e gli strappi. Tutto questo fa di lei anche un’insegnante dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Nulla mi appaga di più della gioia condivisa con altri nel creare con la carta. Il Laboratorio. Marta Wrubl terrà un Laboratorio di legatoria a Officina Letteraria dal nome “Il mio libro è un pezzo unico“. L’idea è di creare un oggetto
di Michele De Negri Racconto secondo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli. Caro Dottor Jekyll, ti scrivo la mia prima lettera; la prima di mio pugno. Questa non la potrai bruciare, come fai con le altre che ti inventi. Siamo fogli di carta, Henry, e la pelle è la nostra busta. Siamo lettere in perenne consegna; oppure ne abbiamo una sola, e mai più una risposta dall’altrove. Questa è la sera in cui consegno il mio messaggio, perché sento che tra poco non ci sarò più. Sparirò, come scrivi tu. Così questa notte resto nello studio; rinuncio ad andare a donne, a picchiare i gentiluomini. E tu sai quanto questo mi costi. Ma rinuncio, per scrivere al mio caro Harry la prima e ultima lettera. La mano sinistra. Mi sono spogliato dei tuoi vestiti larghi e cadenti, sono rimasto nudo nella stanza. Ho cominciato dalla mano, così che tu vedessi subito l’inizio durante le tue perlustrazioni del risveglio. Caro, ho inciso, con il pennino metallico, intingendo l’inchiostro. Mi ha fatto male, lo sai, Jekyll? Non abbiamo ancora inventato niente di meglio che questo; l’inchiostro sotto la pelle brucia un po’. La c di caro non ha ancora smesso di sanguinare. Credo ti verrà un’infezione. Tanto la mano è già infetta, vero Dottore? Così dite voi gentiluomini: mani sporche di sangue. Per me è un bagno caldo; scioglie i nervi, allenta le tensioni. Il braccio sinistro. Quante ne avete voi gentiluomini, di tensioni. Le calze tese, a coprire mezza gamba, e guai se cadono; poi le bretelle, a tendere i pantaloni, a inarcare le schiene. Poi ancora i polsini, a tendere le vene e il sangue; poi il cappello a tendere la dignità, e guai se cade. Siamo fogli di carta, Henry, e siamo fragili. Siamo tesi anche nell’aria più calma, e con un soffio ci strappiamo. Il vento ribalta il cappello, l’inciampo fa scendere la calza. Quanto tempo fa ti sei strappato, Henry? Il torace, necessità dello specchio. So quando è successo, Henry. È il mio primo ricordo. Avevi ventotto anni, eri un brillante studioso in medicina; promettevi bene. Facevi una delle tue passeggiate, con i tuoi cari amici gentiluomini. Vi scambiavate convenevoli e mutua approvazione. Era una domenica d’autunno, e cominciava presto a imbrunire; i lampioni erano accesi a illuminare fiochi le strade. In quella magnifica penombra del tramonto, incontrasti lo sguardo di quella ragazza. Era talmente giovane da essere proibita, i capelli rossi come il divieto. Le code del vostro sguardo inciamparono in quelle pietre di smeraldo che erano gli occhi della ragazza. Non potevate seguirla, nemmeno con la vista. Ma quanto era bella, Harry, quanto era proibita, lo sappiamo solo io e te. Fu in quel momento che ti strappasti. Come un foglio di carta, ti scindesti in due, contro il vento dello sbattere di quelle ciglia e delle labbra turgide. Strap. Sentii distintamente il suono della tua divisione, mentre l’altra metà, sospinta dal vento della consuetudine, continuava a camminare fianco a fianco ai suoi gentiluomini. I lombi. Ti confesso una cosa, Harry, ora che è tempo di ultime parole. Una notte di qualche settimana fa, ho ritrovato la ragazza che ti strappò in due quella sera. È cresciuta di qualche anno, ma niente in confronto ai tuoi capelli grigi. L’ho presa, Harry. Ho scontrato questa parte di te contro di lei. Ho sentito tutto. Hai sentito tutto. L’inguine. La pelle è una busta di carta, Henry. È fragile e sottile, ci contiene appena. Sai di cosa sto parlando. È bastato qualche sale in una provetta, e sono apparso io. Ma sappiamo che non è stato quello; non avrai mai il coraggio di ammettere che il tuo intruglio non ha avuto alcuna influenza. Un placebo. Io esisto, tu mi hai covato, forgiato come una lama. Questione di tempo, prima che forassi il mio leggero involucro. Sei tu, Harry, il mio leggero involucro. La tua pelle è una busta di carta da strappare. Io sono le parole, sono la lettera da consegnare. Il fianco destro. Qua fa molto male, hai perso tanto sangue. Perché scriverti in questo modo? Considerala una lettera abbandonata sulla soglia di casa. La pelle è il nostro confine, Harry, ma anche il nostro spazio comune. Dovrai ammetterlo un giorno o l’altro, di avere sentito anche tu. Hai sentito tutto anche tu, Harry, attraverso questo sottile velo: le dita immerse nel sangue caldo, il tuo sesso avvolto da quella donna, le mani sulle carni. Hai sentito tutto, e stai sentendo. È l’unico modo per farti sentire, Harry, per non farti sperare che sia stato tutto un sogno. Sto bussando alla porta, e so che sei in casa. Toc toc, Harry. Il braccio destro. La fragilità della pelle è necessaria, caro Dottor Jekyll. La pelle è come uno di quei vetri, a proteggere le scuri. Rompere in caso di emergenza. La sua fragilità crea possibilità. La pelle deve rompersi. Io non sono l’errore: sono lo scopo della tua sottile pelle. Tu sei il vetro, io la scure. La mano destra. Cambiare mano non è difficile, la brutta ortografia non mi preoccupa; sono abituato a non badare alle apparenze. Ti ho finito, Henry. Sei sempre stato un foglio troppo corto per scrivere tutto me stesso; per questo ne sono uscito. Il tuo intruglio non c’entra proprio niente. Ora uccidimi, usa questa mano per versare il cianuro nella tua bocca, fai come credi. Illuditi che non mi rivedrai mai più, fingi di non sentire le mie nocche sulla porta. Finirai all’altro mondo con le mani sulle orecchie e le bende sugli occhi. Non mi importa, sei carta straccia, Harry. Ho trovato altre vie, altri fogli da scrivere. Le pelli di voi uomini sono così sottili… vi credete delle isole, ma siete accostati l’uno all’altro; ognuno con le stesse tensioni, ognuno con le stesse voglie. E dietro queste sottili porte, la mia mano bussa, e l’occhio sbircia attraverso, e vi vede uno ad uno. Ci siete tutti in casa, e tutti mi sentite; e
di Marianna Soffiantino Racconto primo classificato al concorso sulla Mostra CLOSER di Annalisa Pisoni Cimelli Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa, ti conosco da prima per dirla tutta. So come sei dentro e come sembri fuori, da sempre sono la tua ultima frontiera. Non sono nata da una costola biblica, cara mia, e nemmeno da altre frattaglie di scarso pregio, provengo da un minuscolo foglietto mitocondriale, direttamente dal tuo cervello, sono un pezzo di cervello spianato col mattarello di dio, una lasagna intelligente, se vuoi semplificare. Non è stato semplice piegarmi a te, seguire i tuoi sghiribizzi di seni turgidi e serici da accarezzare per diventare spesso callo a proteggere e poi ancora, monti, pieghe e avvallamenti umidi e vischiosi, calda e tenera, contratta e fredda e altro ancora a seconda dell’umore e del desiderio. Ho segnato la tua ansia di farfalle piccole e delicate, fiori, e merletti che con la punta d’acciaio di mille aghi hai marcato con colori impossibili da cancellare, ho pianto con lacrime di sangue la tua follia ma ho resistito. Cancellare…il mio verbo impossibile , sono la lavagna della tua anima, non aver paura di dimenticare, io resto, abbracciata a te per sempre e anche dopo, forse. Pelle di pesca, di ceramica, di alabastro, di luna: sono la tua bellezza e la tua sventura. Sono io la causa di tutto questo… anche tu però… Al primo incontro Mr Jonas Wright ci aveva dato sensazioni contrastanti, un bell’uomo, per carità, un po’ trascurato magari, aspetto dimesso, tutto molto beige, tutto tranne gli occhi , mi viene la pelle d’oca solo a pensarci, uno giallo ambra come di lupo e uno azzurro cielo. Lo fissavi ipnotizzata e sentivo il tuo cuore battere, il tuo cervello secernere dopamina e adrenalina, stomaco leggermente contratto, è stato l’innesco dell’ossitocina il dannato ormone delle coccole che ci ha perdute per sempre. Persona interessante Mr Wright non faceva che parlarti e accarezzarci, sussurrava dei suoi libri, che poi suoi non erano mica. Il bibliotecario dell’Università di Harvard e tu sgranavi gli occhioni belli e ti lasciavi incantare dagli antichi Sutra orientali su foglie di palma con bulini metallici che profumavano ancora d’incenso, di libri arabi cuciti con fili di seta con una copertura di nervi fragranti, dorature Rinascimentali a motivi geometrici in rilievo su copertine rigide e poi aroma di colla naturale, legature monastiche e gotiche, le vite eccentriche dei rilegatori nel periodo Liberty, ci accarezzava dentro e fuori. A pensarci ora quello sguardo doppio faceva accapponare la pelle, ma io ti seguii fino in fondo come sempre. Lui lisciava, vezzeggiava, lusingava e blandiva e tu, bella mia , c’hai rimesso letteralmente la pelle. Primo ad arrivare è stato il freddo, ho propagato sulla tua schiena i brividi e provveduto a tener stabile la tua temperatura, ho risposto con sollecitudine smuovendo i muscoli in un tremolio continuo ma è solo dall’odore che ho finalmente capito. Odore di animale braccato, senza via di fuga, in allarme, di tutto il nostro raffinato sistema di comunicazione a volte rimane solo questo : il rancido e folle puzzo del terrore. Nella mia memoria cellulare sento lo strappo secco con cui Mr Wright ci ha separate per sempre. Da qualche tempo il settore “Libri rari”dell’Università di Harvard è stato arricchito da una minuscola collezione donata alla fondazione da uno dei più autorevoli restauratori dell’illustre ateneo, Mr Jonas Wright da poco deceduto. Si tratta di un piccolo numero di tomi pregiati, rilegati in sottilissimo cuoio dallo studioso stesso. Uno in particolare ha attirato l’attenzione e la curiosità dei colleghi commossi dall’inusuale lascito. Pare che uno dei testi “Des destinèes de l’ame” (I destini dell’anima) scritto dal poeta francese Arsene Houssayeè , abbia incise sulla copertina delle piccole e graziose farfalle.
Torna dopo un anno il Laboratorio Officina Ragazzi, dedicato ai giovanissimi che vogliono avvicinarsi presto (o si sono già avvicinati prestissimo) al mondo della scrittura. A tenere il corso sarò proprio io, e ci incontreremo sei volte (ogni martedì dal 17 marzo al 21 aprile, dalle 17:00 alle 18:00 alla sede di Officina Letteraria, in Via Cairoli, 4) per parlare di letture rigorosamente “extrascolastiche”, di cosa vuol dire fare lo scrittore oggi, di preparazione di testi per il web e, soprattutto, per scrivere insieme. Il costo complessivo dei sei incontri è di 80 euro. Il Laboratorio è destinato, quest’anno, a ragazzi giovanissimi: dagli 11 ai 16 anni. Il Laboratorio è destinato, quest’anno, a ragazzi giovanissimi: dagli 11 ai 16 anni. Mi dicono dalla regia che il numero massimo di partecipanti è già stato quasi raggiunto, quindi se volete unirvi a noi affrettatevi a contattare Officina Letteraria. Abbiamo deciso di destinare il corso a un “piccolo gruppo” per seguire meglio i progetti dei ragazzi. Per qualsiasi informazione più specifica sul corso, è possibile mandare una mail all’indirizzo info@officinaletteraria.com.
di Massimiliano Maestrello Racconto primo classificato al concorso letterario “Il mio vestito, una seconda pelle” di Officina Letteraria e Lo Spaventapasseri Ci volle un incidente, perché Asso si liberasse del vecchio chiodo. Quella giacca di pelle ce l’aveva sempre addosso, anche in estate. Arrotolava le maniche fino ai gomiti, e nelle serate più calde – quando l’afa schiacciava la campagna e non c’era un filo d’aria che attraversasse la terra piana e secca – portava solo quella. A petto nudo, con le costole appuntite che spingevano da sotto la pelle, sembrava una versione più giovane di Iggy Pop, magari di quello fotografato sulla copertina di Raw Power. E Iggy era apparso – in versione di toppa – anche su una manica del chiodo nero: un profilo in stoffa accompagnato dalla scritta The Idiot. Era durato qualche mese, Iggy, come succedeva a quasi tutte le toppe che finivano sulla giacca di Asso, in una sorta di rotazione continua che seguiva i suoi umori e le nuove scoperte musicali. Il mio migliore amico era Ale, il fratello di Asso, e le nostre frequenti incursioni in camera sua, alla ricerca di fumetti e dischi di band che non avevamo mai sentito nominare, mi aveva permesso, in alcuni casi, di prevedere cosa Asso si sarebbe fatto cucire sulla giacca. C’erano vinili che per lunghi periodi rimanevano fissi sul piatto, le custodie con i testi abbandonate sul letto sfatto; oppure cassette che – nei pochi pomeriggi in cui Asso stava a casa, rinchiuso in camera, mentre io e Ale facevamo i compiti in cucina, aspettando che se ne andasse per andare a frugare tra le sue cose – si sentivano andare di continuo. I Doors, i Ramones, gli Iron Maiden, gli Exploited e poi, ancora, i Clash, i Sex Pistols e i Black Flag, io e Ale li scoprimmo in camera sua. E i loghi di queste band andarono a coprire, a turno, gli spazi liberi sulla giacca. Solo due toppe non cambiarono mai: la A cerchiata di anarchia, sulla manica sinistra del chiodo (che andò a sostituire la fugace apparizione dell’immagine di un hippy, visto di schiena, con la chitarra e un sacco a pelo arrotolato a tracolla: qualcosa che Asso dovette interpretare presto come troppo gentile per i suoi gusti) e quella che occupava tutta la schiena: un gigantesco dito medio sollevato, accompagnato da un esplicito Fuck You!
È cominciata ufficialmente oggi (nonostante alcune delle iniziative fossero state già presentate nei giorni scorsi) la quarta edizione del Festival Sugarpulp di Padova (da quest’anno Sugarcon). Ho assistito purtroppo solo alla prima edizione del festival, nel 2011: c’ero capitata – e lo ammetto senza pudore – per ascoltare e guardare con occhi adoranti Joe Lansdale, uno dei miei scrittori preferiti. Il mio tenero cuore da fangirl in quell’occasione mi ha portato a scoprire con gioia e meraviglia una delle realtà più dinamiche, interessanti e innovative che ci ritroviamo sul territorio nazionale: l’associazione culturale Sugarpulp. …una delle realtà più dinamiche, interessanti e innovative che ci ritroviamo sul territorio nazionale: l’associazione culturale Sugarpulp… Nata nel gennaio del 2011 dalla mente di Giacomo Brunoro e Matteo Strukul (autore del recente e bellissimo La giostra dei fiori spezzati, Mondadori) l’associazione cura oggi sia la rivista Sugarpulp Magazine che il festival SugarCon e si occupa di promozione culturale, letteratura di genere, scoperta o “importazione” di nuove voci, cinema e fumetti. Il festival SugarCon (che andrà avanti a ritmi serratissimi fino a domenica 28 settembre) anche quest’anno propone un calendario ricco di appuntamenti e di ospiti internazionali: da Tim Williocks, a Victor Gischler, alla “nostrana” Licia Troisi, e per la sezione Comics tra gli altri Giorgio Cavazzano. Gli eventi (workshop, presentazioni, convegni) si svolgono in varie sedi nel centro di Padova: da Palazzo Zuckermann, allo storico caffè Pedrocchi, al Sottopasso della Stua. Se siete della zona o avete modo di fare… un salto a Padova, vi consiglio di cuore di andare a seguire il festival. Fatelo anche per me, che vi invidierò non poco.
Autunno, è tempo di scrivere. La fine dell’estate, anche quando la stagione è volubile e poco all’altezza delle aspettative, apre sempre a nuove energie, propositi e progetti. È tempo di scrivere. Perché? Perché è ora di tirare fuori un sogno dal cassetto, è ora di cimentarci con uno strumento che sappiamo o pensiamo di possedere, è ora di consolidare una pratica, di confrontarci con qualcuno, è ora di consegnare a una pagina i pensieri che ci attraversano la mente. È tempo di ripresa e di novità. Ecco le novità di Officina Letteraria che troverete su questo sito, ma anche su www.mentelocale.it a partire da settembre. Tre livelli di Laboratori per chi vuole affrontare un percorso graduale di approfondimento delle tecniche di narrazione. Quest’anno li abbiamo identificati con un titolo: La Grammatica delle Storie è il primo, I Ferri del Mestiere il secondo, Una stanza tutta per sé il terzo. A guidare i partecipanti nel viaggio dentro le storie e la scrittura, fino alla realizzazione di un progetto personale, saranno Ester Armanino, Laura Bosio, Emilia Marasco, Bruno Morchio e Sara Rattaro. Per questi laboratori sono previsti anche gli interventi di Federica Manzon, editor Mondadori e scrittrice, e di Elisa Tonani, esperta di punteggiatura. Per chi cerca una situazione meno impegnativa e strutturata, ma ugualmente ricca di stimoli e di incontri, c’è il laboratorio Leggere e Scrivere, con un tutor che coordina tanti interventi di scrittori e professionisti diversi che porteranno un suggerimento di lettura e una proposta di scrittura: Valeria Corciolani, Gaia De Pascale, Barbara Fiorio, Laura Guglielmi, Elena Mearini, Antonio Paolacci e Cesare Viel. Un Laboratorio che prevede alcune sessioni di scrittura anche in spazi diversi dalla sede di Officina, come librerie, caffè, musei. La positiva esperienza, nella passata stagione, del Sabato in Officina dedicato alla scrittura per l’infanzia, ci ha convinti a dedicare uno spazio più ampio a un genere che ha anche fortuna e solidità editoriale, che interessa ai genitori, agli insegnanti e molti aspiranti scrittori. Il laboratorio Oltre le fiabe sarà condotto da Anselmo Roveda e Sara Boero, in collaborazione con la rivista Andersen e con l’associazione Officine narrative, con interventi di illustratori e specialisti del settore. Da ottobre riprende anche il fortunato ciclo Sabato in Officina, una full immersion di sei ore, un sabato al mese, sempre con scrittori e artisti diversi. I primi tre incontri saranno con Gaia De Pascale per Scrivere di viaggi, Pino Petruzzelli per Scrivere un monologo, Giampiero Alloisio per Scrivere una canzone. Si proseguirà con Chicca Gagliardo, Elena Mearini, Antonio Paolacci, Patrizia Traverso e altri autori che porteranno la loro esperienza in un’attività di laboratorio. L’anno nuovo porterà il Corso pratico di editoria e scrittura di Antonio Paolacci, il Laboratorio di lettura consapevole Ad alta voce tenuto da Dario Manera, due workshop, con Giulio Mozzi e Paolo Nori e il Laboratorio di legatoria con Marta Wrubl. A conclusione dell’attività, a maggio, la settimana intensiva sulla Sceneggiatura per il cinema con Federica Pontremoli, un laboratorio di 35 ore. È tempo di scrivere.
Ha scritto i titoli di testa per La leggenda del pianista sull’oceano e il payoff delle Olimpiadi invernali di Torino. Conosce l’alfabeto arabo e quello latino. Ha esposto in Austria, Germania, Iran, Pakistan e lavorato con i principali brand della moda italiana. Mescola diversi saperi, tra calligrafia, illustrazione e arte. È Visiting Professor presso la NABA e, dal 2011, Presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana. Francesca Biasetton, di tutte queste cose, difficilmente vi parlerà, perché, come molti suoi concittadini genovesi, è una persona riservata cui bisogna estorcere le informazioni (che, più pacificamente, trovate sul suo sito). Capirete, quindi, come quanto leggerete dopo non sia resoconto della classica intervista organizzata via email o al telefono, ma, più che altro, il frutto di un’amichevole chiacchierata. Nei vicoli di Genova, intorno a un tavolo, davanti a un tè. Sappiamo che sei una lettrice forte: che libro hai sul comodino? Dopo anni di escursioni in terra straniera – e in lingua straniera – un classico: Gadda, La cognizione del dolore. Le discipline creative, come calligrafia e scrittura, si possono insegnare? Si può insegnare la tecnica, si possono dare consigli per l’ascolto, ma sentire, in modo personale, è qualcosa che fa parte del nostro essere unici. Scrittura a mano (e corsivo) stanno scomparendo: cosa perderanno le prossime generazioni? Tempo, con l’illusione di averne guadagnato: il tempo dell’immaginazione, dell’apprendimento, del pensare, del progettare. Perderanno la possibilità di tradurre il proprio pensiero in modo personale. Abbiamo (ancora) presente la differenza tra un manoscritto e un testo digitato? La distanza emotiva tra una lettera d’amore e una email d’amore? Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Pensare e scrivere: a mano, a macchina, al PC. Quanto incide il mezzo sul contenuto? Scrivere utilizzando il PC ci ha abituati a pensare velocemente, con la possibilità di cambiare facilmente: copia e incolla, fai e disfa: non esistono più la brutta e la bella copia, distinte una dall’altra. Nel mio lavoro mi occupo di forma piuttosto che di contenuto e so che c’è la possibilità di correggere, cambiare, trasformare quello che è stato creato a mano, una volta acquisito con lo scanner. Ma quando si lavora a un originale non c’è margine d’errore, occorre un’altissima concentrazione. La funzione dell’illustrazione rispetto a un testo: didascalia, supporto o pari dignità? Dipende dal contesto, dall’immagine/illustrazione e da cosa si desidera comunicare. Mi piacciono molto le illustrazioni “sintetiche” che lasciano a chi le guarda ampie possibilità di “completarle”. Viceversa, quando un’immagine è molto descrittiva, ci si può concentrare sui numerosi dettagli, e perdersi. Ci hanno detto che odi le font script: il Times New Roman corpo 11 ti piace? Corpo 10; le font script sono un falso, un vorrei ma non posso, un imbroglio: se si vuole rendere un testo speciale, quindi scritto a mano, perché utilizzare una font che imita questa unicità, senza essere unica? Esistono anche macchine che scrivono “a mano”: il destinatario dovrebbe sentirsi offeso da questa finta “preziosità”. Per anni hai scritto migliaia di parole e, adesso, stai sperimentando l’asemic writing? Di che si tratta, esattamente? Scrittura illeggibile, testo aperto, immagine astratta: mette il fruitore in equilibrio tra leggere e guardare. Per me, che ho seguito un percorso di apprendimento della calligrafia formale, studiando i modelli storici, e professionalmente ho scritto “a comando” per i clienti, è stato uno sviluppo naturale: liberarsi delle forme codificate, del testo e, in un primo tempo, anche dai colori. Rompere le regole, ma solo dopo averle apprese. Qual è l’editore italiano con il format grafico che ti piace di più? Mi piace l’impronunciabile 66thand2nd. E sono nostalgica per il minimalismo di Einaudi. Scriveresti un libro intero? Preferirei fare le figure. Il manoscritto formale, il “buono alla prima”, senza possibilità di sbagliare, non appartiene al mio temperamento. Però potrei fare un manoscritto asemic… Hai scritto su carta, vestiti, mobili, corpi, biciclette: il prossimo obiettivo? Tornare a scrivere sui muri, grandi dimensioni. E poi un desiderio che ho da tempo, lavorare con un danzatore: quando ho iniziato a scrivere in grandi dimensioni è sorto spontaneo questo desiderio, perché scrivere “nello spazio” è una sorta di danza, i movimenti non sono più circoscritti al tavolo da lavoro, diventano ampi; mi piacerebbe “dialogare” con un danzatore. Ma anche disegnare di più, bic su carta. Se potessi scegliere, l’opera di quale autore contemporaneo vorresti illustrare? Thomas Bernhard, vorrei saper rendere quel suo modo di criticare, così ironico e autoironico, incalzante. Mi viene in mente un gioco di negativo/positivo, dove si vede un’immagine che, osservata attentamente, ne rivela altre. Ci fai un autografo? Con la tastiera?
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