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“La Non-moglie”: la giornata di Angela

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  La Non-moglie la giornata di Angela Sotto la vernice del presente, una donna non-moglie e non-madre è guardata come un oggetto ignoto, un ufo sociale. Il ruolo di ufo può suscitare senso di meraviglia, come nei film di fantascienza, ma talvolta origina diffidenza e pregiudizio. Ne riconosco lo sguardo quando la conversazione s’interrompe, poco dopo il mio atterraggio, nel momento in cui appare chiaro che non ho una fede al dito e non ho una prole speranzosa del mio ritorno a casa. Uno sguardo come se avessi disertato qualcosa e che mi sorprende sempre. Non avevamo già superato questa storia dei ruoli? Manco per niente. Anzi, insospettabili amiche coetanee, divorziate e nei guai con il lavoro, parlano del loro passato matrimonio come di un progetto cui hanno creduto e che hanno coltivato in gioventù, senza dedicarsi ad altro – lavoro, carriera, interessi. Il ruolo di “moglie di…” appare nei loro discorsi carico di una pienezza esistenziale che è stata in grado di celare altre possibilità e la cui perdita, adesso, le sconcerta. Lavoro come insegnante in una scuola media. Affrontare ogni giorno una quarantina di persone diverse non è semplice. Anche perché io sono la nemica e non devo farmi impallinare. Suona la campanella. Si va in scena o in trincea, secondo le classi. In entrambi i casi, mi considero fortunata perché posso osservare agevolmente persone molto più giovani di me. Saluto alunni e alunne, che mi ricambiano con un’espressione del viso o una battuta peculiare, a volte con un silenzio speciale. Se ci si sofferma su di loro, queste ragazzine e ragazzini promettono bene. Non è vero che sono pessimi, come dicono tante persone adulte e invecchiate male. Non è vero che non capiscono nulla. Siamo noi che pretendiamo molto da loro ed esigiamo che, in un mondo in delirio, siano perfetti, responsabili, irreprensibili. Nel nostro mondo. Irreprensibili. Nel nostro mondo, dove tutti si-prendono-le-loro-responsabilità e poi le trattano come zerbini. Mi viene da ridere. Penso alle colleghe, non tutte per fortuna, subito pronte con parole dure verso di loro. Le capisco anche, magari dopo tanti anni di lavoro avrò anch’io esaurito la pazienza e la comprensione, oltre che le energie, ma si sono da tempo dimenticate cosa significhi avere tredici anni e dover stare seduti per sei ore. Non era facile nemmeno per me, che ero seguita da genitori attenti senza i quali non sarei riuscita a ottenere-buoni-risultati. Che poi, l’unico risultato davvero importante è essere felici. Alcuni ragazzini e alcune ragazzine non lo sono. A volte, mentre spiego qualcosa, una parte di me si diverte a immaginare come diventeranno. Sicura che non indovinerò mai. Arriva una circolare da dettare: “Il Dirigente Scolastico… i professori… i coordinatori… i rappresentanti”. Loro mi guardano, ghignando sotto i baffi. Sanno cosa sto per dire. E infatti. “Siamo quasi tutte donne e questi nomi sono tutti maschili. Io sono una professoressa e una coordinatrice”. Proteste scherzose da parte di alcuni ragazzini: “È giusto, siamo più importanti noi maschi!” Le ragazzine rintuzzano i compagni e li accusano di essere i soliti che non capiscono niente perché ragionano “con quello”. Dico loro che si tratta di uno stereotipo. “Però un po’ è vero”, ribadisce un’alunna, “non pensano ad altro”. “Tu non ci pensi?” “Be’, sì, ma loro… e poi io non sono mica una di quelle!” Affermo che ogni essere umano, donna o uomo, ha dei desideri e che questo per una donna non significa essere una-di-quelle. Non è facile. L’antico pregiudizio è inciso nelle loro menti, tenace e sempre nuovo. E la sorpresa mi coglie di nuovo. Non avevamo abbandonato queste prigioni? Quando sono state ricostruite? A pensarci, non sono mai state demolite davvero. Una collega mi domanda se posso sostituirla il giorno dopo. Deve andare dal pediatra e suo marito non può perché ha da lavorare. E lei che sta facendo? Coltiva compiti in classe per hobby? Le dico che la sostituirò. Suo marito ricopre un importante incarico in un’azienda e non può prendere un permesso per seguire i bambini. Ovvio. Naturale. Quindi il lavoro di lei è meno importante. E anche il mio. Mentre i mariti costruivano carriere da dirigenti nelle multinazionali, molte donne sceglievano l’insegnamento come ripiego, per potersi prendere cura della famiglia. Terza sorpresa. E’ ancora giusto così, per alcune. Il pomeriggio, correggo compiti in classe. Lotto contro gli anacoluti. E penso agli anacoluti del mondo, alle contraddizioni in cui siamo tutti e tutte invischiate, ai suoi pensieri torti. Abbiamo fatto dei passi avanti? Il mio compagno ascolta e condivide le mie riflessioni, e mi sembra già un magnifico dono. Mia madre è più ottimista di me e ne tengo conto. Forse ha ragione.

“Un lunedì”: la giornata di Elisabetta

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Un lunedì la giornata di Elisabetta Non voglio svegliarmi, non ancora. Devo finire il mio sogno. La sveglia si insinua maligna, a volte con una musica dolce piena di promesse; quasi sempre, invece, snocciola un concentrato di notizie volte a suscitare malumore. La disgrazia del giorno, l’aumento delle tasse, la dichiarazione insensata e autocelebrativa del politico di turno. Mi alzo, già consapevole che anche oggi arriverò in ritardo a lavorare. Del resto, non posso uscire di casa senza aver fatto colazione, cambiato idea un paio di volte su come vestirmi, dato da mangiare al gatto, controllato che le finestre siano chiuse, trovato chiavi di casa e cellulare, che si nascondono sempre quando li cerchi. Speriamo che la Capa sia di buonumore, oggi, altrimenti saranno rimbrotti generalizzati per tutti. Non che mi importi tanto, ma anche questo peggiora il tono dell’umore. Mentre lavoro, cresce sempre di più la sensazione di pestare l’acqua nel mortaio: non c’è una fine né un inizio, ma soprattutto nessun ritorno su quello che fai. Pazienza, che tanto mi tocca questo fino alla vecchiaia. Intanto penso già a quello che devo fare nel tragitto verso casa e poi a casa. Comprare il caffè solidale, prelevare i soldi al bancomat, far la spesa sotto casa, controllare le scadenze, pagare on line la multa per divieto di sosta di mia figlia, ritirare il bucato asciutto e metterne su un altro, pensare a cosa faccio per cena, sedermi per un quarto d’ora e poi mettermi a cucinare. Incombenze nel vero senso del termine, che gravano sulle mie spalle costantemente contratte. È un lunedì, ma potrebbe essere anche martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e, parzialmente, anche domenica, giornata in cui ormai mi tocca la visita alla suocera ultraottantenne, che, ostinatamente, vuol restare a casa sua da sola. Così mi ha delegato, bontà sua, la gestione della sua vita, badanti e relative bizzarrie comprese. Sabato no: finalmente posso sognare fino alla fine e concedermi tutto il tempo che voglio. Il tempo è scivolato via come una goccia di pioggia sui vetri, e a quasi sessant’anni – che pensiero orribile – a volte mi chiedo se valga la pena metterci tanto impegno. Poi penso alle mie bambine, che sono pezzi del mio cuore e dico che sì, ne è valsa la pena.

“Due lune”: la giornata di Laura

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Due lune la giornata di Laura Ora sono a casa, la mia giornata si sta avvolgendo ed è piena, come una luna che deve riuscire a contenerne due, una luna piena doppia. Tutto quello che faccio voglio che stia in qualche angolo, in qualche spazio, in un contenitore estensibile. Mi sono alzata presto. Oggi: uscita con i miei alunni. Uno sguardo alle figlie, che solo a pensarle un tasto automatico parte e inizia a far scorrere il nastro, fatto di fotogrammi già pieni e di altri ancora da impressionare. Quelli impressionati hanno tanti colori, suoni, toni. Quelli ancora vuoti hanno riflessi che basta poco a cambiare. E mentre esco attacco un altro passo, quello che mi porta al lavoro, sull’autobus do il via con il mio collega al prossimo possibile sciopero della scuola, sì o no. Cosa s’ intende per scuola, cosa per società, cosa per… e arriviamo. La sera prima non sono riuscita a scrivere, mi devo mettere a studiare, è deciso. Porto con me le mie forbici invisibili, mi servono per il mio passatempo preferito, ritagliare. Ritagliare tempo per me, trovare piccole asole, scucire un po’ qua e un po’ là e aggiungere delle tasche, dove mettere parti di me stessa. La mia giornata intanto scorre. Faccio turno doppio. Ma non mi spetta, ma non è previsto che non mi spetti. Mi spetta o no? Intanto lo faccio e buonanotte. Arrivo a casa e trovo ad attendermi qualcuno, o meglio qualcosa. Le cose che mi hanno salutata quando sono uscita stamattina: no, non posso, oggi sto fuori tutto il giorno; non posso neanch’io, Conservatorio e Università, ma come faccio? E io ho già dato, una riunione che mi aspetta. E poi devo fare la spesa. Allora le cose mi si affezionano, mi aspettano affettuosamente, mi scodinzolano quasi, quando arrivo a casa. Quanto gli sono mancata! Il gatto viene trotterellando in ingresso, quando mi sente, e si butta per terra, ama che gli gratti la pancia. Arrivo con le pile sul rosso, magari diciamo ancora sull’arancione, il rosso arriva dopo cena. E non è che rosso di sera buona giornata si spera. E due lune sono troppe, ci vorrebbero delle nuvole a coprirne almeno una.

“Tempo da cani”: la giornata di Marianna

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.    Tempo da cani la giornata di Marianna I cani non hanno tempo e non perdono tempo. Zompano sul letto, guaiscono piano annusando umido e affettuoso; calpestano le lenzuola di lino ricamate da zia Carmela, travolgono i cuscini ergonomici spaziali e mi ammaccano svariati organi interni. Puzzano di macaia, sale e marciume tiepido. Quindi non ho bisogno di aprire le persiane per sapere che fuori c’è un tempo di merda. Non esiste una puzza meno confortante, meteorologicamente parlando. Sbadiglio svogliata, il mastino più grosso mi sta masticando un calzino. Troppo tardi, è già scurito, intriso di bava. So già che nel pacchetto, di biscotti, non ce ne sono per tutti, li lascio a loro, farò colazione al bar. Non ho tempo da perdere. Costa, il mio compagno, occhi verdi, la mia parte psicologicamente sana. Mi osserva come se fossi un unicorno comparso improvvisamente in cucina. Forse dovremmo parlarne “Costa” è il suo cognome, non il suo nome, ma penso che non si debba dare mai troppa confidenza, anche al principe azzurro. Infilo indumenti a caso, denti e deodorante contemporaneamente. I capelli… sono viola, non esiste un modo per sistemare correttamente capelli color addobbo funebre. Mente locale. Michelangelo, il mio bambino, è in bagno che canta a squarciagola Radio Gaga inventando le parole e intanto si lava la faccia con un metodo da lui stesso inventato e brevettato. Riempie (cantando) il lavandino di acqua tiepida e poi , serio come un sufi turco, immerge il muso più e più volte, senza strofinare, senza massaggiare, senza sapone. Fa il sottomarino, riemerge, si asciuga. Passando per il corridoio intuisco attraverso la porta vetrata la sagoma di Federico, il più grande dei miei due figli non miei. Li ho ereditati dalla moglie di Costa che ha preferito disfarsi anche di loro anziché stare li a centellinare. Sta dormendo arrotolato come un fagotto e sta sognando la sua bionda, ne sono sicura. Alessia, la più complicata, ha dormito dalla sua amica Erica, tornerà più tardi. È come se fosse sempre a casa, aleggia nei pensieri di tutti, ha una personalità decisamente ingombrante, usa il mio profumo di nascosto, ma a me non dispiace. La casa è un casino, ma faccio finta di niente. Sono in ritardo. Ora le scarpe e via. Non ho calzini puliti. Io guardo il mastino, lui guarda me. Abbaia. Poi molla la presa.

“La casalinga perfetta”: la giornata di Angela

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  La casalinga perfetta la giornata di Angela La casalinga perfetta si alza presto, prepara colazione, caffè fresco, pane tostato, cereali, spremuta; sia che abbia una famiglia o che sia sola. Entro le ore nove la casa è pronta per un ricevimento. Cucina a posto, letto fatto, aspirapolvere passato, bagno disinfettato adatto a qualsiasi operazione chirurgica. Lei docciata, vestita, truccata, con la lista della spesa in mano e le buste riciclabili, si dirige al supermercato anzi ai supermercati. Perché ha chiarissimo in testa dove e cosa costa meno, dove e cosa è di migliore qualità, dove la raccolta punti offre regali più allettanti. Un paio di giorni alla settimana, prima della spesa, fa un’oretta di palestra: bisogna pur mantenersi in forma. Ecco, io, io no. Penso che quelle che ci riescono, come minimo fanno uso di qualche sostanza poco legale. Io appartengo alla categoria casalinghe single, quasi divorziate e scrause come direbbe una mia amica. E la vita è dura per donne come me, nonostante il grande privilegio di non dover combattere per il pane quotidiano. All’alba di ore che variano, ma sempre si avvicinano al mezzodì, apro il primo occhio annebbiato vuoi da quella quantità di alcool vagamente superiore alle dosi consigliate ingurgitata la sera prima, vuoi dalla notte insonne o da una dose di Lexotan presa un po’ troppo tardi. Apro un occhio, poi l’altro, inforco gli occhiali e cerco di capire dall’orologio o dal cellulare quanta parte di giornata ho già sprecato. “Non devo dormire così tanto, ci sono un mucchio di cose da fare in casa…” Inciampando nella bottiglia dell’acqua, negli stivali e nelle borse della spesa dimenticate in corridoio, raggiungo il bagno. Sulla tazza richiudo un attimo gli occhi, non sono ancora pronta ad affrontare la giungla. Libera dalle prime urgenze corporali, in vestaglia rosa pallido, punto il radar verso la cucina dove un avanzo di caffè mi aspetta e lo sparo dritto nel microonde, accasciandomi poi sulla panca per inzuppare un paio di biscotti, molli perché il pacchetto era rimasto aperto, in quel rimasuglio di liquido nero. Tirato il fiato per l’immane fatica, ci vuole ancora un po’ di caffè per mettersi in moto e ne faccio mezzo litro di quello lungo, tipo americano. Se avanza, domani è già pronto. Se non sono obbligata a uscire per impellenti ragioni, volontariato, corsi, visite mediche, pratiche burocratiche, infilo una tuta con cui ginnastica non l’ho davvero mai fatta. Un’ occhiata in giro e un sacro fuoco mi prende. “Ora metto tutto a posto, Sì!” Prima, però, meglio sedersi un attimo sul divano a controllare i messaggi del cellulare, un’occhiata alle mail per quell’ordine di tavolette di cioccolato ai cristalli di rosa di cui proprio non posso più fare a meno. L’occhio cade in basso a destra sullo schermo del p.c.: le 14.00? Ma, come è possibile ? Sarà rotto. No, sono proprio le due, forse dovrei mangiare ma ora non ho fame, ho fatto colazione da poco. E poi dovrei andare a fare la spesa, o scongelare qualcosa. C’è un po’ di polvere sulla libreria, ora pulisco. Scala, mangia polvere, straccetto magico, salgo. Porca…, i guanti, scendo per prenderli, il campanello della porta suona: lettura gas. Non ricordo di aver visto il cartello ma apro, è la signora che viene sempre. Mi scuso per il caos, è una misera finzione, non me ne frega niente, ma si fa così. Se ne va. Cosa stavo facendo prima? Mi scappa la pipì, vado in bagno, studio il bidet, sarà il caso di spruzzare un po’ di Cif, ma la spugnetta dov’è? Ho buttato quella vecchia tre giorni fa e quelle nuove sono ancora nel sacchetto. In soggiorno la scala aspetta, in corridoio i sacchetti aspettano. Il computer è ancora acceso, ricontrollo le mail. Mi ha scritto la mia amica dall’Olanda, devo assolutamente risponderle. Ok fatto. Ora spugnetta e pulire bidet. Il Cif si è seccato e la crosticina biancastra è dura da levare ma il risultato è ottimo: bidet come nuovo. A ben vedere anche il resto del bagno avrebbe bisogno di una passata, prima però ci vuole un po’ di aspirapolvere altrimenti poi cade l’acqua e faccio un pasticcio. Fuori l’aspirapolvere dallo sgabuzzino, già che ci sono lo passo anche in corridoio. Suona il telefono, è mia mamma che vuol sapere se vado a cena, se domani l’accompagno dal dentista, cosa sto facendo, se posso darle una mano con i vasi in giardino. “No mamma, oggi non ce la faccio, ho troppo da fare, magari domani ci risentiamo”. In soggiorno la scala aspetta, in corridoio i sacchetti aspettano in compagnia dell’aspirapolvere. Ora un certo languorino lo sento. Le 17:00? Ma, com’è possibile? Va bè, farò merenda: un tè ,un budino, un mandarino per le vitamine. Mia mamma ha parlato di piante, e le mie piante? Sul balcone un po’ ammosciate aspettano l’acqua e una buona

“Ancora un’altra giornata”: la giornata di Sara

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ancora un’altra giornata la giornata di Sara Sono molto stanca. Sono sempre molto stanca, io. Non si tratta della quantità di cose che faccio in una giornata, certo ne faccio molte, ma non è quello; in una condizione diversa potrei farne altrettante senza essere inguaribilmente stanca. La mia stanchezza è sintomo d’una malattia chiamata abitudine al dovere. Mi esercito con diligenza a questo tipo di abitudine per rassegnazione ed inevitabilità: manco di una strategia alternativa e davanti alla mia disperazione di cambiare le cose ogni progetto si arrende. Il fatto è che andare a rinchiudermi in una stanza, popolata da persone che non ho necessariamente scelto di vedere nove ore al giorno, non mi va proprio giù. Non è per queste persone tuttavia, col tempo abbiamo modulato il nostro essere umani in una vicinanza forzata, abbiamo creato un equilibrio, un clima dopotutto; il fatto è che ho una lunga serie di motivi per essere stanca. Ad esempio, la mia sveglia suona alle sette ogni mattina, e non dico che vorrei dormire, ma che vorrei smetterla di dover correre ogni giorno come se stesse per finire il mondo e mi fossero rimasti solo pochi minuti per salutare la mia famiglia per l’ultima volta, quando lo scopo della mia frenesia in realtà è non timbrare in ritardo un’entrata al lavoro. Ad esempio, odio gli spazi piccoli e sovraffollati e l’ufficio in cui lavoro è un quadrato in un rettangolo di tanti altri quadrati in cui ci si è dati parecchio da fare per aumentare la densità di popolazione per metro quadro. Ad esempio, ci sono giorni in cui vorrei andare a farmi una passeggiata in riva al mare o restare a casa a scrivere il mio romanzo che non finisco mai o andare a leggere un libro in una locanda sorseggiando quel caffè che non posso bere perché il mio colon-irritabile-sempre-irritato me lo impedisce. Ad esempio, fissare un monitor come un serpente che ne ha subito l’incantesimo, restare seduta nella stessa posizione per molte ore, compiere numerosissime ripetizioni in un processo di click automatizzati, sollecitare senza tregua chi mai risponde non mi piace. Ad esempio, lavorare duro, lavorare seriamente, trovare persino un senso alla fine di quelle giornate – che si ricalcano con una precisione tale da farmi dubitare che stia vivendo la stessa unica giornata da molti anni – mi pare un’illusione nel momento in cui mi accorgo che conta solo ciò che appare. Ad esempio, mangiare con un cronometro da centometrista puntato sulla testa a scandire la mia tregua di quarantacinque minuti mi fa restare il pranzo sullo stomaco perlopiù. Ed ecco che il mio apparato digerente mi dichiara sciopero e, almeno lui, di lavorare proprio non vuol sapere. Ad esempio, dopo otto ore di lavoro vorrei uscire; e molto spesso lo faccio, ma il senso di colpa per tutte le cose che ogni giorno lascio da finire viene a farmi visita la sera, quando passo in rassegna tutte quelle maledette scadenze che si accalcano in quella che sembra essere una linea unica, sempre più spessa, su un giorno del calendario. Un calendario in cui numeri sono vaghi ricordi, al di là di queste linee spesse. Poi, quando alla fine riesco ad uscire, viene la stanchezza a prendermi. Il resto della giornata è la coda di un’animale lungo, il cui corpo ormai è uscito dal mio campo visivo da un pezzo. O come titoli di coda di un film che avrei voluto vedere, se fossi arrivata in ritardo per ritrovarmi sulla poltrona del cinema quando gli altri ormai se ne stanno per andare. Quella coda è il mio tornare a casa, accorgermi che non posso avere la pretesa che la cena si sia preparata da sola, decidere per principio o per rispetto che io e mio marito non possiamo fomentare l’industria dei cibi surgelati e mettermi a cucinare, lavarmi e poi lavare il bagno, decidere se fare una lavatrice o tirare avanti, decidere se stirare o tirare avanti, tentare di scrivere qualcosa ma smettere dopo mezz’ora perché l’emicrania incombe, accorgermi che alle nove e quarantacinque sto per addormentarmi e arrendermi in attesa di un’altra giornata come questa. Sono molto stanca. Sono sempre molto stanca perché continuo a vivere giornate come queste, che passano inosservate perché assolutamente normali per l’uomo moderno.

“Bussola”: la giornata di Emilia

Officina Letteraria e UDI. “Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Bussola la giornata di Emilia “The future is dark, which is the best thing the future can be, I think.” Virginia Woolf Premessa: ho chiara la meta, ma non ho mai immaginato la mappa. I numeri che contano: cinque, sei, sette e cinquantacinque, tredici e cinquantacinque, sette, diciannove e trenta, ventuno e trenta, venti, due, quarantadue, settantatre, sessantadue e mezzo, sessanta, diciotto, venticinque, due, quattro. Le azioni: svegliarsi, lavarsi, pesarsi, vestirsi, scusarsi, sorridere, pregare, comprare, mangiare, guidare, preparare, spiegare, sgridare, scrivere, correggere, studiare, parlare, dialogare, telefonare, fare, credere, guardare, dormire, misurare, confrontare, accettare, rifiutare, pulire. Queste sono le ossa del mio tempo. Adesso viene la ciccia. Oggi è mercoledì: io, mi sveglio alle cinque, come al lunedì e al martedì. Ho calcolato tutto: sveglia, pipì, caffettiera, fuoco sotto il caffè, pipì, bilancia, faccia, ascelle, denti, spengo il fuoco sotto il caffè, troppo tardi, non pulisco la pozza sul fornello, non mi faccio domande su chi mi vede dalla finestra di fronte, discinta in varie maniere, mi vesto, sperando in innumerevoli grazie, e oggi non ne ho voglia, vorrei una tuta, ma no, così sacco di patate anche no, allora tutta di nero, che non necessita pensieri e accoppiamenti, e comunque è tutto largo, e un anno fa era troppo stretto, e faccio colazione, e fumo la prima sigaretta e controllo la posta elettronica e, per carità, nessuno che parli alla radio o in generale, e meno male che al momento non vedo nessuno, perché al mattino che parlano o commentano le notizie o ballano canticchiando e leccandosi i capezzoli (storia vera, perdinci!) e allora son soddisfatta della magra però intanto c’ho fatto caso e m’impegno in una dettagliata e puntigliosa discussione immaginaria con l’ultimo dei miei ex, da cui esco vincitrice morale e fattuale. … m’impegno in una dettagliata e puntigliosa discussione immaginaria con l’ultimo dei miei ex, da cui esco vincitrice morale e fattuale. Soddisfatta, finisco la vestizione e guardo l’orologio del bagno. Ho calcolato tutto; ho calcolato male: sono in ritardo. Arrivo alla macchina. Non è la mia. Pausa. Ravvio. Ho trovato la macchina. Alla seconda passata. Metto in moto, accelero in prima, troppo, porcaccia ho dimenticato di preparare la lezione per la bambina straniera che, nonostante le mie distrazioni e casualità, sta imparando l’italiano, devo pure procacciarmi il cibo, perché si ha da mangiar bene, ma non è più così importante (il cibo) finché mi peso, e allora ricalcolo, ripasso e stabilisco soluzioni: gli esercizi per la straniera, il tragitto per il cibo. E mi godo la sopraelevata, che, a Genova fa brutto dirlo, ma è bella, per la vista. E mi godo la sopraelevata, che, a Genova fa brutto dirlo, ma è bella, per la vista. Arrivo a scuola. Cinque ore, due con diciotto, tre con venticinque: Storia, Antologia, Storia, Antologia, Geografia; ogni istante moltiplicato almeno per tre: i tre livelli, i cinque pluribocciati, i sette interessati, non importa, ma almeno tre. Il tempo si dilata sotto il tentativo di stare dietro a tutti finché non tocca la certezza del fondale: sto facendo giusto. (Ogni giorno di scuola non è cinque, ma quindici-trenta ore). Alla fine, oggi soddisfatta: animo leggero, cervello elastico: la seconda ha retto l’analisi degli aggettivi ne “L’Infinito” di Leopardi, la prima inizia a esprimere dubbi. Abbiamo provato l’evacuazione in caso d’incendio e non siamo morti. Dieci minuti e si era di nuovo in classe. Scendiamo, siamo tutti liberi, ma ho parlato troppo presto. Mentre cerco cartine, tabacco e filtri, che hanno la stessa esistenza intermittente di chiavi, portafoglio e cellulare, una mamma mi viene incontro, saluta e chiede cosa è successo con la figlia. Errore uno: mi fermo, dovrei rimandarla all’orario di ricevimento. Errore due: non mi ricordo. Lei incalza, ma sì, l’ha interrogata e l’ha rimanda a posto. Focalizzo: la bimba, prima media, bravina, interrogata di Storia, non la sa, non avevo voglia di dar votacci, l’ho mandata a posto e le ho detto di tornare la volta dopo. Lei incalza. “Ma c’era un cinque!” “Signora, poi le ho dato sei e mezzo.” “Ma c’era un cinque!” “Si, ma non c’è più.” Alziamo la voce. Maledetta io che mi dimentico, maledetto registro elettronico, tento di spiegare che quel voto non l’ho detto alla bambina, che era un promemoria per me, ma niente, lei insiste. “C’era un cinque!” ripete “E la bambina ha pianto! Sa quando sua figlia piange?” No, non lo so, io non ce l’ho una figlia. Non ho un figlio. Non ho una cane. Non ho un gatto. Ho due piante del buio e un’orchidea dell’Ikea. Il resto della mia capacità di cura l’ho messo in vendita, e va bene così. Ma ho capito. Mi calmo. Rispiego. La mamma non è convinta ma molla il colpo. Mi guarda, mi saluta e se ne va. E, giuro, abbraccia la figlia. Il resto della giornata ha il ritmo della

La giornata di Donatella

di Sonia Vespa Non serve più puntare la sveglia alla sera. Ormai Donatella si alza molto prima della suoneria, malgrado l’ora di coricarsi sia  sempre spostata più in là. Non basta struccarsi, spogliarsi, prendere il libro, accendere l’abat-jour e sprofondare nella lettura che ti accompagna al sonno: si devono ancora controllare gli zaini delle bambine, la merenda, appendere i grembiuli in fondo ai letti, piegare i vestiti, preparare quelli puliti per l’indomani. Intanto Maurizio guarda la TV , legge il giornale, si addormenta sul divano. Lui può. Lei deve ancora finire di cucinare il sugo per lasciarlo pronto alle bambine domani. Lo sguardo cade sulla mensola impolverata. Non ce la fa stasera a togliere la polvere, dovrebbe farlo Irina, cosa la paga a fare? I libri di scuola sono tutti sottosopra. Sono disordinate come lei le sue figlie, non hanno preso dal padre. È ordinato lui, ma non mette mai in ordine la stanza delle bambine; Irina fa quello che può, e più di una volta alla settimana non se la possono permettere. Ed è inutile discutere con Dalia e Laurina: le risponderebbero che hanno preso da lei. Donatella, però, aveva una mamma casalinga che sistemava tutto prima che lei e la sorella tornassero da scuola, che, anzi, non voleva neppure essere aiutata, perché come per  sua madre e sua nonna, la casa era compito di una donna. Il sugo si sta attaccando alla pentola, se l’è dimenticato mentre finisce di stirare le camicie per la trasferta di  Maurizio. Un’altra trasferta di lavoro che comporterà per lei  andare, dopo l’ufficio, a prendere Dalia al maneggio e Laurina a pattinaggio, unici compiti di Maurizio, fermarsi a fare la spesa nel supermercato che chiude alle 21, approfittare del viaggio in auto per chiacchierare un po’ con le figlie, sempre che non stiano litigando tra loro. A Maurizio non soddisfa come stira le sue camicie Irina né la lavanderia, dovrà accontentarsi di come le sa piegare Donatella, senza naturalmente ringraziarla. Tutto dovuto,  a lui e alle bambine. Non voleva finire come sua madre, ma è così, solo che in più lei ha anche otto ore di ufficio e due di tragitto. Laurea in ingegneria e mansioni da segretaria.  Preferisce non pensare alle illusioni di quando era studentessa, quando credeva nella parità dei sessi, nella realizzazione professionale. Dalia non si addormenta senza chiamarla almeno tre volte. Ormai Donatella non si corica prima che sua figlia abbia completato le sue richieste: ho sete, non riesco a dormire, ripassiamo la lezione… Mai grazie mamma, solo capricci, alzate di spalle, pretese arroganti. Laurina è altrettanto capricciosa, ma almeno alla sera crolla e ha sempre dormito da sola. Congela il sugo per tutta la settimana, pulisce i fornelli, sistema velocemente la cucina, porta l’acqua a Delia che sta urlando: allora, mamma arriva quest’acqua?, mentre pensa che il domani sarà migliore, le figlie cresceranno, lei sarà più libera, meno stanca, magari riprenderà a viaggiare come faceva prima di conoscere Maurizio. L’orologio di cucina segna quasi le 23. Manca un’ora al giorno nuovo. Non è per l’insonnia che non dormirà stanotte, è per il discorso che si dovrà preparare mentalmente da fare al capo, domani, dopo aver respinto per l’ultima volta le sua avances: Queste sono le mie dimissioni, la nostra ditta rivale mi ha cercato più volte e oggi ho detto sì. Aumento di stipendio, vicinanza a casa, riconoscimento del mio ruolo, e il capo è una donna.

Un lunedì qualunque

di Michela Traverso   Ancora a occhi chiusi, mentre la mia mano cerca sotto le coperte quella di mio marito, la mente si accende prima del secondo perentorio richiamo della sveglia e visualizza i fogli dell’agenda. La giornata ha inizio. Mi alzo, mi tolgo il pigiama, mi soffermo un istante di fronte allo specchio: il solito corpo ogni mattino diverso, né meglio né peggio, plasmato da un nuovo giorno. Vado in cucina, preparo la colazione e “drinnnn”, terzo e ultimo squillo della sveglia. Ancora a occhi chiusi, mio marito si accomoda a tavola, con una fumante tazza di tè, biscotti, miele e marmellata ad accoglierlo, mentre io sorseggio un limone spremuto, rimedio a tutti i mali o almeno me ne convinco. Il sapore aspro mi fa tremare, ma sono orgogliosa della mia costanza, allontanando a dopo il secondo step: una fettina di zenzero crudo. Dicono sia un antidolorifico naturale, sicuramente è fuoco vivo in bocca nei secondi necessari per masticarlo e ingurgitarlo. Sono due momenti che definisco al limite del “masochismo” tipico femminile. Mi siedo a fianco a lui e comincio la mia vita “sociale”: parlo, domando, come risposta ottengo mugolii e sbadigli. Dopo circa dieci minuti il mio monologo si trasforma lentamente in un dialogo. Dopo un bacio benaugurale a mio marito e riassettata casa, esco.  Come ogni giorno, affronto l’incubo mattutino: “Traverso, ho le orate in offerta, la rana pescatrice a un prezzo speciale, acciughe nostrane…” Con l’immagine del congelatore strabordante di pesce davanti agli occhi, declino cortesemente l’ invito, maledicendo il giorno in cui mi sono lasciata affascinare da due occhiate fresche. Da quella mattina è sempre la stessa “scenetta” tra le risate dei passanti e i “mugugni” del pescivendolo, deluso dai miei inevitabili  “alla prossima”. Parte così l’avventura della spesa: il giro turistico tra offerte convenienti o truffe indorate, tra bancarelle e negozi. Già carica di sacchetti e sacchettini, alle 9:30 mi concedo una sosta: una tazza di ginseng, una lettura annoiata del quotidiano in dotazione al bar e l’inizio della ricerca “del” lavoro o meglio “ di un” lavoro. Consulto le mail dal cellulare, leggo le offerte sempre più originali, valuto corsi e concorsi, esaminando le competenze richieste esplicitamente e quelle celate tra una parola e un’altra. Prima, cerchi in base alle tue esigenze e, infine, ti plasmi in relazione alle proposte: mi ritrovo così a indossare vestiti troppo corti o troppo stretti o di altri, ma provo comunque. Mi trascrivo sull’agenda mail, numeri telefonici, indirizzi a cui inviare i miei variegati curriculum vitae: “il lavoro della ricerca del lavoro”. Sono inserita nelle “Liste di collocamento mirato” e con una percentuale di invalidità sono stata classificata, inquadrata e per un breve momento ho sentito “garantiti i miei diritti”. Poi ti scontri con la realtà: cerchi le inserzioni specifiche per la tua collocazione e scopri che sono richiesti “inabili perfettamente abili”. Con il solito sconforto post-ricerca, la lista di mail da inviare e le telefonate da fare, torno a casa e mi siedo di fronte al pc con il telefono vicino, candidandomi per l’uno o l’altro annuncio. Esco nuovamente e proseguo le tappe mattutine: posta, banca, assicurazione. Ogni giorno uffici diversi  ma volti uguali con la stessa maschera di falsa cortesia e di reale insofferenza. Terminata la dose di pazienza mattutina, rientro a casa con il solito bus stracolmo, riesco comunque a trovare un angolo in cui incastrarmi e proseguire la lettura di un nuovo libro: terapia  necessaria per ossigenare la mente dall’inquinamento giornaliero dell’anima. Dopo un po’ scopro di aver già superato la mia fermata: pazienza. Varco la porta di casa, evitando vicini bramosi di sparlare dell’uno e dell’altro, e torno di fronte al pc per consultare la posta elettronica: a parte pubblicità o spam, nessuna risposta. Mi preparo il pranzo, organizzo la cena, invio ancora qualche messaggio, faccio le ultime telefonate, arriva così il primo pomeriggio ed è ora di riuscire. Già stremata e con la testa in confusione, inizia la seconda fase della giornata: il mio pomeriggio pseudo-lavorativo. Sono le 14:30,  parto per la Val Bisagno per poi spostarmi in Val Polcevera. Da due anni, in attesa di un vero impiego, mi destreggio con ripetizioni a chiunque me lo chieda. Così trascorro i miei pomeriggi a casa dell’uno e dell’altro, passando da esercizi elementari di matematica alla discussione di funzioni logaritmiche, dall’organizzazione sociale degli antichi egizi ai moti del ’48. Anche se considerarlo lavoro è una battuta comica, è un impegno gratificante. Arriva il tardo pomeriggio. Sono in metropolitana, la mente vaga ed ecco idee confuse si trasformano in possibili incipit per nuove storie. Scrivere è il mio hobby rigenerante, capace di mantenermi psicologicamente stabile, almeno all’apparenza. Estraggo l’agenda, una penna e inizio a cercare una pagina ancora libera a sufficienza per lasciare che una nuova storia prenda forma. Questi sono i miei venti minuti di “Yoga mentale”: libero la mente, riordino i pensieri e alleggerisco le tensioni del giorno. Arrivo a casa, stanca ma rigenerata “dalla mia terapia”, pronta ad affrontare l’ultima parte della giornata. Mi libero dai vestiti e dalla maschera quotidiana e, con un abbigliamento comodo, mi preparo ad accogliere mio marito, di fronte a una tavola “imbandita”. Ancora una controllata alle mail, una lettura veloce alle notizie on-line e spengo ogni contatto con l’esterno: ora è il Nostro momento. Sento la chiave nella toppa: è arrivato! Ceniamo tra aggiornamenti sulla giornata trascorsa, commenti sull’ennesima puntata di Star Trek  e ci coccoliamo con un buon bicchiere di vino per apprezzare ulteriormente queste ultime ore di un lunedì qualunque. Dopo cena ci corichiamo sul divano ad aspettare che inizi uno speciale di Dario Fo sul Caravaggio.  Lui si addormenta, mentre ci coccoliamo. Continuo ad accarezzargli la testa appoggiata sulle mie gambe e a seguire il programma. Ben presto però il suono ritmico del suo respiro mi accompagna in un lento torpore. Dopo un tempo indefinito, ci svegliamo quel minimo indispensabile per raggiungere il letto, coricarci abbracciati e riprendere il nostro viaggio nel mondo dei sogni, con l’augurio di svegliarci l’indomani

Un giorno di marzo

di Annalisa Soldà   Oggi è una giornata di marzo che ricorda ancora l’inverno. Lui è appena uscito. In casa è rimasto l’odore del suo dopobarba. Apro le persiane della camera da letto, cigolano. Mi affaccio e sento gli otto rintocchi della campana e il lamento dei freni degli autobus. Guardo in su, l’azzurro del cielo è interrotto solo dal bianco di un gabbiano. Stringo la vestaglia attorno al corpo e torno in cucina al mio caffè. Sono seduta al tavolo, curva e con le gambe strette, non ho ancora acceso i caloriferi. Guardo l’orchidea bianca sulla credenza e conto per la prima volta i suoi fiori, sono sette. La sposto al centro del tavolo, per ricordarmi che c’è. Separo i bianchi dai colorati e carico la lavatrice, sparecchio, lavo le stoviglie, mi guardo in giro e vedo della polvere sul frigo e sulle mensole che ieri non c’era o che, forse, non avevo visto. Apro il freezer e decido cosa scongelare. Vada per un trancio di merluzzo. Mi siedo alla scrivania e accendo il computer, controllo le email, faccio il punto della situazione.   Sono le 10.30, mi dirigo verso l’hotel. Lo trovo facilmente, è in un palazzo d’epoca. Salgo le scale sino al terzo piano, alla reception c’è il titolare. Esordisco con un “Buongiorno” che viene cordialmente contraccambiato. L’uomo ha l’aria di chi è di buonumore per dovere. “Ho chiamato ieri per fare una prenotazione, ho parlato con una sua collega.” Continuo io. Lui mi fa domande: il nome dell’ospite, le date. Gli spiego che l’ospite è un insegnante della scuola di scrittura a cui sono iscritta e che ieri ho inviato un’email. Mi dice che aveva incaricato un suo dipendente di rispondermi  e si affretta a cercare fra le email inviate. “Hmm, vediamo se devo fare strage di dipendenti.” Si gratta la testa, si aggiusta gli occhiali mentre controlla la cartella Posta Inviata. “Vediamo… nessuna email indirizzata a lei. Oggi mi sento cattivo, lei cosa dice devo essere severo con i miei dipendenti?” Intanto scrive. “Credo che si debba essere clementi. Capita a tutti di sbagliare”.  Rispondo con un cliché e mi levo d’impaccio. “A posto così, le ho confermato personalmente la prenotazione, controlli fra le sue email.” Ringrazio, saluto e vado via.   Ore 11.00, arrivo al supermercato. Le corsie si percorrono velocemente, ci sono poche persone che fanno la spesa a quest’ora, per lo più pensionati, prendo dalla borsa il volantino dove avevo annotato le offerte del mese e inizio la caccia al tesoro. Il carello si sta riempiendo pericolosamente, cerco di calcolare mentalmente il peso totale di ciò che ho scelto e aggiungo solo poche cose. Pago ed esco. Cammino facendo attenzione a mantenere la schiena  dritta per distribuire uniformemente il peso delle borse su entrambe le spalle e cercando di ricordare a che ora passerà il prossimo 35. Passo accanto all’entrata del teatro diretta verso la fermata dell’autobus. Sotto il porticato, seduto sui gradini c’è un uomo che suona la chitarra. Ha il cappuccio della giacca sulla testa ed è curvo sulle corde. Le note mettono in disordine i miei pensieri e mi costringono a fermarmi ad ascoltarlo. Il brano ha il ritmo della musica Andalusa, è una musica veloce, malinconica e calda. Lui termina il brano, io cerco gli spiccioli e li lascio cadere nel piatto. Lui mi guarda e io gli dico: “Bravo.” Inizia un nuovo brano. Io appoggio le borse a terra e resto in ascolto. Terminata anche questa esecuzione, mi fissa in silenzio, allora gli chiedo: “È un insegnate di musica?” “No. Facevo il camionista, ora sono rimasto senza lavoro. Ho sempre amato suonare e mi sono detto perchè non provare a fare l’artista di strada.” Non dice più nulla, allora io incalzo: “Suona bene, è molto bravo.” L’uomo si scosta dalla testa il capuccio. Mi racconta che ha due figli e che è un esodato, io gli tendo la mano, gli dico il mio nome e gli auguro una buona giornata. Mentre sto per sollevare le borse mi fermo un istante e gli chiedo: “Come si intitola il brano che stava suonando quando sono arrivata?” “Ah, questo?” Accenna qualche nota e poi sorride come se un ricordo piacevole gli avesse appena riempito la mente: “Si chiama Recuerdos de la Alhambra”.   A casa è la routine: padella, olio, merluzzo. Mangio, sparecchio, pulisco piatti e fornelli, decido cosa cucinare per cena. Ritiro la biancheria asciutta, stendo quella bagnata. Guardo di nuovo la polvere sul frigo e le mensole e penso che la leverò domani. Ripasso il Simple Past e il Present Perfect che in italiano traducono entrambi il passato prossimo.   Sono le 17.30 scendo le scale del mio palazzo. Al piano terra incontro la ragazza che si è trasferita qui il mese scorso, mentre esce di casa con un rastrello, una pala e una scatola di semi. Credo che sia Olandese e spero che abbia intenzione di coltivare dei tulipani nel suo giardino. La saluto e suono il campanello dell’interno accanto al suo, mi apre la porta Alessandro. “Ciao”. Mi dice e si scosta per farmi entrare. “Ciao Ale, come è andato oggi il compito in classe di matematica?”. Gli chiedo mentre sono già nell’ingresso di casa sua. “Mah. Difficile. Vedremo.” Chiude la porta con una leggera spinta. “Hai già iniziato a fare gli esercizi di inglese?” Continuo seguendolo lungo il corridoio. “No. Ti stavo aspettando per iniziare”. Sua madre è in cucina, la saluto, lei mi chiede se può lasciare la TV accesa, le risponde suo figlio, borbottandole di abbassare il volume e chiudendo la porta. Siamo nella sua stanza, mi siedo accanto a lui, alla sua scrivania, e iniziamo. Dopo il primo esercizio mi è chiaro che è necessario ritornare sulla grammatica. Quest’anno, mentre io percepivo il passare delle stagioni attraverso i cambi di guardaroba, Alessandro si è allungato, ha cambiato voce e ha iniziato a farsi la barba. Dopo due ore mi congedo: “Ci vediamo martedì prossimo.”   Sono davanti alla porta di casa

“Lacci Mattutini”: racconto di Marta Traverso.

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “Lacci Mattutini” un racconto di Marta Traverso. Piove. Ho fretta. Sono così nervosa che ho scordato di mettere lo zucchero nel caffè. Riunione alle 9.30 e chissà quanto dura, psicoterapeuta alle 12.45, dentista alle 16. Magari dovrei pranzare, in mezzo a tutti questo? Potrei mangiare una brioche per strada, al volo, mentre ritorno in ufficio. Se smette di piovere, che brioche e borsa e ombrello e ho solo due mani. Aspetta, però, ne avevo un’altra da fare oggi… cos’è che mi ha chiesto Alessio, mentre stavo uscendo… mettere a posto il file, il file di… ma perché non mi viene… sempre così fa, mi vede infilare il cappotto e chissà come mai gli torna in mente una cosa assolutamente da fare entro ieri. Perché tutto oggi deve succedere? Ho una lista di cose da fare che si srotola come una pergamena, finisce che ci inciampo sopra. Cioè, non ho una lista delle cose da fare, non in senso materiale, ma se ne avessi una, la prima cosa che scriverei è di compilare tutte le mattine una nuova lista delle cose da fare, invece di sforzarmi (tutte le mattine) a ricordarle una per una sotto la doccia, e spremo così tanto la testa che alla fine metto il balsamo sulla spugna e il bagnoschiuma nei capelli. La mia testa, sì. Se dovessi disegnarla sarebbe un fazzoletto con tanti nodi, tutto allacciato e avviluppato su se stesso, un nodo per ogni cosa che devo tenere a mente. Una nuvola di post it immaginari tenuti insieme da laccetti colorati. Che poi, a dirla tutta, i lacci sono una gran perdita di tempo. Mi sveglio alle 6 e riesco comunque a uscire in ritardo: colpa dei lacci. Come, non la sai? Quella dei tre lacci mattutini, l’incubo di noi donne un po’ casual e sbadate? Numero uno: i laccetti del reggiseno. Una passa l’infanzia a sognare che le crescano le tette, e poi al primo impatto con il reggiseno è un disastro. Soprattutto se non ha mai fatto le prove con uno di sua mamma. Troppe azioni in contemporanea: metti entrambe le mani dietro la schiena, tienilo fermo che non scappi, inarca testa e collo più che puoi, guarda allo specchio a vedere se almeno una linguetta la infili giusta, e quando infili le successive bada bene che la prima non ti scappi. Finché ho potuto, ho chiesto che mi comprassero reggiseni senza laccetti, quelli che si infilano dall’alto. Una figata. Poi le tette mi sono cresciute davvero, ed è iniziato il dramma. Numero due: le scarpe. Lo confesso, ho la manualità di un chilo di pastafrolla. Ho imparato ad allacciarle quando avevo i piedi così lunghi che non fabbricavano più scarpe con lo strap del mio numero. Nove anni o giù di lì. Ero già nella ribellione preadolescenziale in cui rifiutavo di indossare le ballerine, troppo da femmina. Solo scarpe da tennis, possibilmente Lelli Kelly con la suola che si illumina di rosso. La trafila nodo-gassa-doppio nodo ve la risparmio, che ci metto di più a ripeterla che a farla. Tre: hai presente i cumuli di spazzatura che “oggi non ne ho voglia, la butto domani” finché non diventano montagne e la cucina è pervasa di un odore impronunciabile? E hai presente quando, per spendere meno, hai comprato i sacchetti dell’immondizia con quei fastidiosi laccetti che penzolano sul fondo, che devi strappare e poi annodare tipo fiocco regalo, e premere perché esca fuori l’aria, e di quella volta che tua madre di ha raccontato che la cugina dell’amica di una sua amica si era dimenticata che il sacchetto era pieno di scatolette di tonno, e ha premuto troppo forte e la sua mano destra non ha fatto una bella fine? Che m’importa, dirai. Io sono nata mancina. Se anche la mano destra si spezza in due con un colpo di latta, non è una tragedia.

“La vasca”: racconto di C.T.

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “La vasca” un racconto di C.T. La vasca da bagno è una coperta concava in cui depositare parti del mio corpo che ancora sento rimbombare di eco. Le picchietto con indice e medio, come si fa con le pareti di cartongesso, come farebbe un medico in cerca di qualcosa che non va. Loro emettono quella che è la conferma ai miei dubbi: ci sono ancora molti vuoti dentro di me. L’acqua calda e questa vasca servono a questo. È quasi automatica e abbastanza scontata l’immagine dell’utero che mi attraversa i pensieri. Questa vasca da bagno mi contiene, costruisce intorno a me le pareti che da sola non sono ancora brava ad alzare. Utero.  Abbasso la sguardo e osservo il mio corpo sotto la trasparenza dell’acqua che ho deciso di non mischiare al sapone: la volevo così, come una lente di ingrandimento attraverso cui scrutarmi. Ci sono i fianchi, mai abbastanza stretti come li vorrei. Le braccia lunghe e magre. Le mani affusolate. I polsi. Le caviglie. Le gambe respirano felici nello spazio fluttuante e, nello stesso tempo, ben definito, in cui le lascio galleggiare. E dentro alla mia pancia, lui: l’utero. Quello che non so se userò mai. Non lo so. Perché finché continuo ad avere bisogno della vasca da bagno, non so se è il caso. La verità è che, per ora, mi sento più simile a materia contenuta che a contenitore. Sono cose a cui penso, ultimamente. Ultimamente vedo certe pance tendersi su corpi di ragazze che conosco. Non le mie amiche, no. Loro sono come me, stanno ancora cercando troppe cose per pensare di essere già arrivate. La pensiamo così oggi, prima dobbiamo cercare. C’è tempo. O forse per noi ce ne vuole di più, perché tutto, oggi, è più complicato. Ho sentito dire che adesso l’età media delle partorienti è sui trentotto. Non so se è vero. Mi giro a pancia in giù. Credo che la questione si possa mettere in questi termini: il mondo oggi è bello collegato, aperto, spazioso per certi versi. Ma anche bello spaventoso. A volte fantastico di essere una donna del milleottocento. Una di quelle che studiava a casa, ricamava sui fazzoletti, si sposava e passava direttamente dalla tutela paterna a quella maritale, fine della storia. Altro che cercare la propria strada. È quasi mezzanotte. Infilo la testa sotto l’acqua, spalanco la bocca: la materia liquida è subito pronta ad invadere il mio spazio interno. Io chiudo gli occhi e le urlo contro, sprigionando decine di punti interrogativi sotto forma di bolle d’aria. Se non lo faccio credo che la tensione sarà troppo alta e che stanotte non riuscirò a dormire. Il prezzo sarà qualche capillare rotto intorno agli occhi a causa dello sforzo fatto per buttare fuori tutte le particelle di ossigeno che prima erano dentro. Durante il processo di espulsione, guardo in faccia quel futuro che mi fa tanta paura. Lui si materializza in immagini velocissime e spintonanti. La laurea, la ricerca del lavoro, le case condivise, le amiche partite, quelle rimaste. La testa riemerge e aspira aria e poi di nuovo sotto, sotto a chi tocca: comprare il pane ogni giorno in una lingua che non è la mia, sapere che appena parlerò, nonostante tutti i miei sforzi, gli altri capiranno che vengo da un altro paese, che sono vulnerabile. Un altro vuoto, un altro respiro e un altro urlo: le storie interrotte perché mi dispiace, ma Berlino è troppo lontana e io non so nemmeno in quale parte del mondo sarò nei prossimi tre anni. Le amiche partite, le amiche perse. La spesa tutte le sere, che se non ci pensi da sola stai certa che morirai di fame. E poi i rumori nuovi della tua nuova casa, i soldi dell’affitto, i soldi chiesti ai tuoi, il numero dell’idraulico. La domanda chi sono?, la risposta ho paura. Di cosa ho paura? Di diventare me stessa e nello stesso tempo di non diventarlo. Di non diventare nessuno. E poi ho paura di Parigi, ma anche di Milano. Della febbre alta e nessuno che ti compri le medicine. Delle domeniche pomeriggio. Della neve. Di stare sola con me. Sola. Con me. Ecco, il vortice di bolle trasparenti e di fantasmi ha raggiunto l’apice. Ora c’è silenzio. Avvolta dalla quiete, svelta, allungo un braccio, afferro l’asciugamano e mi alzo da quell’acqua pericolosa. Dentro di lei adesso nuotano, come tanti piccoli squali, quei miei pensieri dai denti appuntiti. Ne esco fuori. Inizio ad asciugarmi. So già che stanotte dormirò, perché ho guardato in faccia il drago da cui sono scappata tutto il giorno, a partire da questa mattina, quando mi sono svegliata. Ho fatto il caffè. Mi sono vestita. Infilata il casco a cavallo dell’avambraccio. Tirata dietro la porta. Girato i giri, tre, della

“Una giornata così”: racconto di Miria Cresci

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti “Una giornata così” un racconto di Miria Cresci. Guardo i numeri rossi nel buio: le 05:50. Ancora tempo per un piccolo sogno prima di entrare nella realtà . Realtà di suoni, di rumori che, nel fine settimana, arrivano più rari e lontani, mentre aggiorno la scheda mentale sulla giornata. Accendo la radio, la mia transizione fra sonno e veglia. L’immersione nelle notizie é interesse, dipendenza, necessità di uscire preparata. La finestra si apre sul cielo che,  nuvoloso o chiaro, influenza l’abbigliamento come la temperatura. – Il tuo è un freddo introitato, una convinzione – ha detto Nella. Sarà anche vero ma ho rinunciato a sfidarlo, vince sempre. Un po’ di restauri, vestizione rapida poi via, seguendo gli impegni della giornata. Non sempre energia positiva, anche avvii difficili e nervosi in cui banalmente decidere come vestirsi é una sfida, senza voglia di parlare o vedere alcunché, tantomeno uno specchio. Gli specchi riflettono sempre più di quanto vorremmo. Oggi palestra per un paio d’ore. Più bello correre nel verde ma nessun parco è disponibile però, un  tapis roulant con vista sulle chiome degli alberi aiuta. Ho imparato a restringere l’obiettivo sulla porzione da salvare, il resto è escluso, finchè riesco. Nel pomeriggio corso di inglese che seguo puntualmente e abbandono alla dimenticanza appena le lezioni finiscono. Mi sgrido ma persevero giurando che cambierò. Passo dal mercato. Girare fra i banchi colorati è un  piacere visivo che il supermercato non dà. Poi a casa, seguendo l’ispirazione sopraggiunta o regolandomi sulle scorte, a preparare il pranzo. Cucinare è creativo, mi rilassa, che sia una sperimentazione nuova o qualcosa che preparo da sempre. Mattinate festive invernali piovose e fredde cambiano colore in un impasto morbido che prelude a una torta salata o si dimenticano tritando frutta secca e affettando mele per la preparazione dello strudel. Oggi spaghetti con bottarga, profumati e veloci. Telefono che squilla, più antipatico quando sto per scolare gli spaghetti, ma essendo spesso fuori chiamano a quest’ora. Del resto anche al ristorante parli a tavola, ha detto un’amica. È vero… mi adeguo. In agenda ho segnato una conferenza che mi interessa e dopo inglese posso arrivare in tempo. Sarebbe più produttivo incanalare tempo e attenzione su poche direttive o una direzione principale, ma da sempre sono incuriosita e interessata a tanti argomenti . Pieno, vuoto. Riempire lo spazio per abitudine, per aiuto, perché il vuoto non si carichi d’ombra. Una giornata per muoversi, parlare, ascoltare, leggere, mettere la testa in qualcosa e nascondere che è sempre più facile camminare sul tappeto che…farlo volare.

“L’attesa”: racconto di Giovanna Olivari

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti.  “L’attesa” un racconto di Giovanna Olivari L’attesa.  È l’emozione più emozionante. Uno stato magico. L’attesa. Di qualsiasi cosa. Comunque vada. Dell’amore, per esempio. Lo costruisci, giorno dopo giorno. Messaggi, foto, parole, telefonate, lettere, pensieri, allusioni. E se poi l’altro risponde e sta al gioco… Che emozione! “Castellaria” mi chiama la mia amica Anna.  Embè? Mi costruisco castelli in aria. E allora?  Intanto io, Castellaria, ho vissuto una settimana a Marciana in uno stato di grazia. Mi sono goduta quello che comunque avevo, ed era già molto. Natura, affetti,  amici, figlio, nuora, casa, terrazza, radici.    Le mie radici. Il mio mare. I miei profumi. Alloro, rosmarino, nepitella, giuderba, menta, basilico…. La mia isola. E intanto costruivo il sogno, con pacatezza, con meticolosità, gesto dopo gesto, parola dopo parola, osando sempre un po’ di più, col fiato in sospeso attendendo la risposta, e su quella frenando o accelerando, di volta in volta. Così costruivo il sogno e la dolcezza mi riempiva il cuore.  Che importa che succederà quando tornerò, quando lo rivedrò, dal vero! Innamorarsi con il tumore. Innamorarsi con un cancro in seno, con la morte nel cuore, e nel cuore l’amore. – Lo fai – mi dicevano le amiche –  per spostare la tua attenzione, per nasconderti la paura, uno struzzo, anche stavolta, di fronte a una cosa grave come il tumore, per scongiurare la paura della morte, della chemio, della radio, dell’intervento, dell’anestesia, della tetta ferita, deturpata… Oddio! Ho un inizio di morte nella tetta, e io sto a pensare a quanta me ne  toglieranno, a come la rovineranno!  – Signora, non si preoccupi!  Ne ha così tanta!- Il professor Friedman, il chirurgo,  sorride con ironia e tenerezza alle mie insistenti richieste su “quanta me ne toglierà?”. Bell’uomo, sulla sessantina, alto, snello, capelli folti, bianchi, sicuro, deciso, si muove da padrone. Mi conosce. È già intervenuto, otto anni fa, su quella stessa tetta, a prelevare un “granello”, ma era negativo. Sospetto, quello sì, ma negativo. Da togliere, per sicurezza, quello sì, ma negativo. Oggi ha faticato pure lui a trovare, dall’esterno, il punto che aveva inciso a suo tempo.  Seno integro, pelle liscia, uniforme, come prima. Ottimo lavoro, suo e del suo assistente che ha “cucito”. – Punti “sansevero”, estetici –  mi aveva assicurato. Gliene sono grata. – Insieme al sorriso, il seno, adeguatamente sostenuto e supportato, è il meglio di me. – Sorrido con civetteria, dicendoglielo.  Mi guarda. Non capisco se con stupore o compassione. Forse non può immaginare che alla mia età sono tornata ragazza e ho voglia d’amore, anche fisico, e che mi sto di nuovo innamorando, e che di quel seno grande, morbido, liscio, ne ho bisogno più che mai.